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Il regime alimentare dei filosofi dell’antichità

Da Bloody Ivy

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E certamente non furono degli sciocchi coloro che istituirono i Misteri: e in verità già dai tempi antichi ci hanno velatamente rivelato che colui il quale arriva all’Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al fango; invece, colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà, abiterà con gli Dei. Infatti, gli interpreti dei misteri dicono che i “portatori di ferule son molti, ma i Bacchi sono pochi”. E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la filosofia.  (Platone – Fedone)

Premetto: sono onnivora! Ciò non inficia il fatto che la verdura mi piaccia moltissimo o che sia contro la dieta vegetariana.
Ultimamente però ho letto in giro per il web (dove si sa, è un postaccio fatto da articoli inesatti e “l’ho letto su wikipedia” è considerato commento colto), molti articoli che, come testimonial a favore del regime alimentare vegetariano portavano personaggi illustri del passato o filosofi di lontane epoche. Articoli corbellerie, perché spesso i testimonial citati, o vegetariani non lo erano per nulla o, seguivano quei regimi alimentari per ben diverse (ma proprio tanto!) motivazioni di chi evita la carne ai giorni nostri.
Così con un post dalla lunghezza che rientra nella categoria del “Mamma mia! Troppo lungo da leggere e chissà che palloso!”, cerco di proporre una disamina corretta ma di certo non esaustiva, perché ce ne sarebbe tanto da raccontare, ancora.

I filosofi, neanche quando mangiano si dimenticano di filosofare… al senso escatologico di quella ciotola di lenticchie, per esempio. Sono interessati soprattutto a comprendere quale cibo sia il più consono per favorire la concentrazione. Mangiare cosa? Pasti abbondanti o parsimoniosi? O “in medio stat virtus” (per rispondere aristotelicamente)?
All’epoca dell’antica Grecia, essere filosofi non era uno scherzo. L’adesione ad una scuola filosofica comportava la decisione di attenersi a delle pratiche che riguardavano tutti gli aspetti della vita quotidiana, il vestiario, il riposo, lo stile di vita incluso la dieta.

La stessa parola dieta, dal greco diaita, aveva un significato che, non è l’odierno regime alimentare, quanto piuttosto uno stile di vita conforme a una determinata mentalità. Con le scuole filosofiche il cibo, la dieta, diventa uno strumento di crescita spirituale. Astinenza, penitenza più che il nostro “tirar la cinghia” e soffrir la fame, sono termini che in greco hanno a che fare con metanoia, cioè il considerare qualcosa da un punto di vista differente, attuando un cambiamento di mente, una conversione. La penitenza doveva aprire la porta a nuovi modi di pensare ed agire, più spirituali. Metanoia indica, secondo Platone l’atto del volgersi dell’anima dal mondo sensibile al mondo intelligibile ed in particolare all’Idea del Bene.

Per questo l’ascesi alimentare ha sempre rappresentato un aspetto importante nella via per la saggezza delle scuole filosofiche.
Andiamo nello specifico.
In realtà, carne e alcol venivano spesso ridotti od esclusi dalla dieta di queste scuole filosofiche, perché lo stile di vita di queste, presupponeva la moderazione alimentare.

Per Epitteto (50 a.C. – 130 a.C. all’incirca) l’astinenza era uno dei fattori discriminanti per capire se un individuo era davvero filosofo o soltanto a parole. Un filosofo, ne era convinto, sa astenersi dalle crapule, in specie moderarsi nel bere per dedicarsi sinceramente alla ricerca spirituale, e senza vantarsi della sua condotta.

Platone ( 428/427 a.C. – 348/347 a.C.) riteneva più adatta alla filosofia un’alimentazione semplice. Focacce d’orzo a cui aggiungere sale, olive, cipolle, legumi, fichi, ceci, fave. Pietanze più ricercate non erano vietate ma ritenute meno salutari per il corpo e dunque pessime anche per l’anima. Parco quindi, ma non da farsi mancare e olive o i fichi secchi di cui tutti gli ateniesi andavano ghiotti; nemmeno disdegnava il vino, ritenuto bevanda propizia al filosofare specie nel SYMPOSION, ma senza scadere negli eccessi che portano al vizio, e anzi, per sicurezza, meglio berlo annacquato.

In ogni caso, lo stretto legame esistente cibo e mente era apertamente riconosciuto dai filosofi antichi e l’astinenza ed eliminazione di alcuni cibi e bevande permetteva di sperimentare il dominio dell’anima sul corpo.
Nel mondo antico non si conosceva il vegetarianismo, non era nell’ordine delle idea, nessuno fuori dalle scuole filosofiche lo praticava e anche presso queste, l’astinenza dalle carni era vissuta in ambito della ricerca spirituale. I Greci apprezzavano la raffinatezza culinaria e i banchetti con abbondanti portate soprattutto a base di carne, e poi c’era il SYMPOSION anche se il quel caso più che al mangiare si dava importanza al bere.

Pitagora

Pitagora

Fuori dalle feste però i greci erano frugali, è risaputo che gli ateniesi si nutrissero soltanto di acqua o più precisamente della rugiada delle foglie ironizzava Aristotele. In realtà bevevano molto latte, pratica considerata segno di frugalità. Latte di vacca ma più spesso di ovino. Alle persone di età avanzata assieme al latte si dava il miele. Latte e miele molto apprezzati da Democrito li indicava come il motivo per cui restasse in così buona salute. Oltre ai latticini, i pilastri dell’alimentazione, in una società senza frigoriferi, erano olive, olio, vino, miele, fichi secchi. Omero chiamava i Greci, mangiatori di farine, perché usavano l’orzo per produrre gallette che costituivano il loro piatto forte come per noi possono essere gli spaghetti, e si potevano accompagnare da verdura, olive, qualche pesce e raramente carne ma anche fave e purea di lenticchie, cibo di cui era particolarmente ghiotto Eracle, uno dei personaggi nella commedia di Aristofane, Le Rane.

Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) sui cibi semplici da preferire ai raffinati, la pensava come Platone, ma più concreto si concentrava sul concetto di salute. Evitava anche la carne, i funghi e il vino perché limitavano in modo considerevole le capacità intellettive.
Quando anziché cercare il cibo per placare la fame, si è iniziato a cercarlo per stimolarla e si sono inventati i condimenti per eccitare l’ingordigia, lo stomaco si è guastato, l’organismo si è riempito di umori malsani, il sistema nervoso è diventato instabile e debilitato e la medicina ha assunto crescente complessità” Seneca, Lettere

E poi c’è l’uomo del Mistero, Pitagora (sec. VI a.C.). In Pitagora c’è molta leggenda, e così non è facile distinguere Pitagora, il Maestro dai Pitagorici, i discepoli. La scuola che Pitagora fondò a Crotone, dopo aver interpellato l’Oracolo di Delfi sul luogo ideale, era una confraternita molto esclusiva, gli insegnamenti avevano un carattere esoterico (nel senso di “per pochi eletti”) e somigliavano piuttosto ad un ordine religioso con strette regole, votati al celibato e dove la ricerca scientifica ed un determinato stile di vita ascetico erano i mezzi per avvicinarsi alla divinità.

Nelle scuole pitagoriche vigeva l’alimentazione frugale di chi si distacca dalle passioni: erano vietati il vino, le carni, il pesce, le uova, i funghi e l’aglio. Questi alimenti venivano considerati un ostacolo alla facoltà profetica e alla purezza del pensiero. Le fave poi, venivano aborrite, anche solo avvicinarvisi era anatema e, un famoso racconto sul filosofo narra di come, in fuga, inseguito dai nemici Pitagora preferì farsi catturare ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo correndo attraverso un campo di fave. Non è che fosse affetto da una qualche allergia alimentare, da contatto o da una fobia (esiste persino la arachibutirofobia, la fobia connessa al burro di arachidi, figuriamoci se non c’è una legata alle fave).
In realtà certi tabù avevano un forte valore simbolico che rispecchiava un sistema culturale estremamente complesso legato alla sua filosofia. Come simbolo poi, di primo acchito, le fave facevano pensare a potenze demoniache, erano il cibo dei morti e considerate piante degli inferi attraverso cui i morti potevano mettersi in contatto con i vivi, non solo, addirittura possederli; credenze comuni in Grecia, come in Egitto ma poi riscontrate anche in India e Perù. Infrangere il tabù fave era spezzare il sigillo che tratteneva forze misteriose. Le fave comparivano nei papiri magici egiziani, una serie di formule evocative e rituali magici. Uno di questi, per es riporta: “dopo aver detto la formula magica che produce la luce, apri gli occhi Horus, e vedrai la luce della lucerna diventare della forma di una camera: dì poi con gli occhi chiusi la formula e, apertili, vedrai tutta un’immensità e, dentro di essa, uno splendore straordinario: e in nessun luogo compare la lanterna. Ma vedrai il Dio seduto su una fava egiziana, rivestito di raggi, la destra tesa in alto, in atto di saluto, nella sinistra una sferza, portato a mano da due angeli e tutt’intorno a lui dodici raggi”.
Pitagora evitava il contatto con una simile mentalità; gli insegnamenti impartiti nella scuola si fondavano sul concetto di matematizzazione della realtà. E’ il numero la chiave per comprendere “la stoffa del mondo”, il cosmo, e la vita pitagorica è una lunga e dolorosa purificazione dell’anima attraverso la scienza. L’evitare anche il simbolo delle fave era consequenziale.

Si è anche ipotizzato di un tabù dettato da prevenzione sanitaria in quanto capaci di provocare il favismo in certi individui. Però resta il fatto che i tabù e le regole di vita nella scuola di Pitagora fossero soprattutto strumenti educativi. Attraverso la pratica della filosofia l’uomo si prepara alla salvezza dell’anima, con la conoscenza si purifica e si libera dal suo continuo errare, sino a raggiungere il divino da cui proviene.

I cibi ammessi nelle scuole pitagoriche erano quelli ritenuti rinfrescanti che, equilibravano il corpo ed esercitavano un azione stringente come arance e limoni. Il cereale base dell’alimentazione era il miglio. Oltre al classico e decisamente ristretto regime alimentare, si poteva anche puntare al grado successivo, più ascetico e quindi puro: la capacità di nutrirsi con solamente cibi non cotti e bere soltanto acqua di fonte in modo da ottenere una migliore salute del corpo ma soprattutto per ottenere una maggiore lucidità mentale. La vita ascetica dei pitagorici, era una continua purificazione per comprendere meglio la divinità. Attraverso la pratica della filosofia l’uomo si prepara alla salvezza dell’anima, con la conoscenza si purifica e si libera dal suo continuo errare, sino a raggiungere il divino da cui proviene.
Il loro vegetarianismo lo spiega Ovidio stesso, legandolo alla dottrina della metempsicosi, secondo cui negli animali possono trovarsi anime di esseri umani.

Orfici – Orfismo e pitagorismo coincidono nell’indicare un fine escatologico nel ricongiungersi al divino al quale si appartiene. Non è detto che capiti subito, alla morte, bensì quando purificata, al fine del ciclo delle reincarnazioni. Gli orfici più legati al pensiero magico che quello filosofico, vedevano come mezzi di purificazione dell’anima, le pratiche religiose dei culti misterici.
Le regole ascetiche miravano a purificare il corpo per renderlo docile all’anima. La loro dieta era meno rigida di quella dei pitagorici, tuttavia racchiudeva aspetti simili. Per esempio sia orfici che pitagorici erano convinti che astenersi o nutrirsi di determinati cibi potesse condurre l’uomo alla spiritualizzazione o viceversa alla sua decadenza.
Prediligevano le verdure, il miele, il latte il formaggio, mentre credendo nel ciclo delle reincarnazioni, rifiutavano la carne e adottavano un regime vegetariano. 

Gli Stoici – Non tutti condivisero una dieta uguale, semmai le linee guida. Alcuni erano vegetariani, Zenone compreso, altri invece sostenevano che gli animali facevano parte dei doni che Dio aveva dato all’uomo per sostentarsi. Tutti comunque come fecero anche i cinici, preferirono un regime semplice e frugale. Il cibo non doveva essere elaborato ma omogeneo (chiamavano omogenei i cibi a cui non serviva la cottura: molti vegetali, il miele, i lattici in generale) e provenire direttamente dalla terra o dagli animali ma da questi solo se le procedure necessarie non avrebbero recato a loro sofferenze. Tuttavia i cereali cotti erano apprezzati.

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L’astinenza da pietanze complesse per conservare puri anima e concentrazione sarà il concetto ripreso dai Padri del Deserto che coniarono il termine xerofagia ovvero mangiare asciutto, secco. La lotta con i demoni dei padri del deserto si svolgeva principalmente come lotta contro i propri pensieri, pensieri caricati di emozioni, passioni e il monaco tendeva all‘apàtheia; ma una vita ordinata anche come regime alimentare avrebbe portato ordine anche nella confusione interiore. Contro la gola, il demone della gola (più esattamente uno degli otto loghismoi), che porta il monaco al fallimento della vita ascetica, Evagrius Ponticus suggeriva di evitare la sazietà e di accontentarsi il più possibile di pane e acqua.

Sacerdoti Egizi – Si astenevano da vino e carne durante alcuni periodi passati a servire le divinità; in altri si astenevano anche da pane, olio, uova e latte. Lo scopo era diventare più spirituali, con la mente leggera e libera dalle passioni.
I devoti della dea Iside si astenevano vita natural durante da vino, pane e cipolle. I sacerdoti del tempio dedicato a Serapide vicino a Menfi, si nutrivano solo di pane, acqua e sale, e pare che i Padri del deserto abbiano voluto riproporsi proprio questo tipo di ascetismo egiziano.

Sono solo brevi esempi ma l’intento era di dimostrare che gli scopi dei vari regimi dietetici dell’antichità poco avevano a che fare con il restare in linea, il “questi cibi fanno male alla salute”, il “non uccido animali” ma erano perlopiù vie ascetiche molto più inerenti allo spirito che al corpo. Se posso dire la mia, il  in medio stat virtus di Aristotele, nonostante tutto e i millenni trascorsi, mi pare ancora la via migliore.

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Bloody Ivy


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