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Il romanzo come prodotto di consumo

Creato il 27 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Il romanzo come prodotto di consumoIl romanzo come prodotto di consumo

Talvolta si torna a parlare di “crisi” del romanzo come genere letterario. In particolare, quando l’editoria registra un calo di vendita, quasi che si voglia suggerire che il problema della “crisi del romanzo”, anziché porsi sul versante del genere letterario, si disponga su quello dei lettori, i quali, non riconoscendosi più in questo genere tradizionale di espressione, preferiscano soddisfare altrove le loro esigenze estetiche. Si vuole in altri termini suggerire l’idea che scrittori disposti a continuare questa forma letteraria non mancano o comunque continueranno ad esserci, ma occorre vedere se ci saranno ancora lettori disposti a rivolgersi al romanzo per soddisfare le loro esigenze estetiche. Se così fosse, la “crisi” del romanzo si risolverebbe in un problema di mercato, cioè di consumo, si risolverebbe nei termini della domanda e dell’offerta: poiché, si dichiara, l’offerta supera, e di gran lunga, la domanda, allora il difetto sta dalla parte dell’offerta, cioè nella sua incapacità di corrispondere alle attese della domanda. Al contempo, la gran massa dell’offerta mette in difficoltà anche coloro che hanno il compito di indirizzare o incoraggiare la scelta e il gusto dei lettori/consumatori. Della crisi del romanzo come genere si discute, ma da un punto di vista completamente diverso da come se ne avrebbe discusso un letterato tradizionale. Si potrebbe dire che il problema, contrariamente alla consuetudine, è affrontato in modo eteronomo, ossia in modo completamente estraneo alla formazione storica dei generi letterari. Con ciò non voglio dire che il romanzo sia una categoria ideale che non possa essere messa in discussione, anzi, le trasformazioni del romanzo, come ogni genere letterario che si è formato storicamente, dipendono dai cambiamenti dei rapporti sociali. Allora non è legittimo prendere in considerazione un solo elemento, quale può essere la ricezione e la fruizione di un genere letterario, ed elevarlo a chiave di lettura per spiegarsi determinato problema culturale. La validità o la non validità di un genere letterario non può essere misurata secondo il criterio della domanda e della offerta, perché se si affermasse questo criterio il valore di un’opera d’arte sarebbe misurata in base alla quantità di successo di vendita ottenuto.

Dopo queste precisazioni, quando si parla di crisi del romanzo occorre distinguere se si riferisce al romanzo come prodotto di consumo o come genere letterario. La crisi del romanzo come prodotto di consumo ha chiaramente i suoi riflessi anche sulla validità espressiva di questo genere, dal momento che qualsiasi problema culturale non prescinde mai dal contesto sociale dentro il quale si è originato. Ma riconoscere le reciproche implicazioni non comporta poi una discussione del problema tutta spostata su un versante. Ogni romanzo, dall’Ulisse di Joyce al Processo di Kafka a Henry Potter, è un prodotto di consumo. Ciò che però differenzia, ad esempio, l’Ulisse di Joyce da Henry Potter è la diversa intenzionalità con la quale i due romanzi sono stati scritti: il primo è stato scritto tenendo presente il panorama e la temperie culturale, il secondo, invece, tenendo presente il mercato, il pubblico, e le vendite. Quindi, per il primo romanzo l’essere un prodotto di consumo è un valore aggiunto, il secondo invece nasce proprio come prodotto di consumo e, tutt’al più, il valore estetico è un valore aggiunto, anzi è un valore che serve a stimarlo meglio come prodotto di consumo. Nel romanzo come prodotto di consumo anche il valore estetico è in funzione del valore di scambio, mentre nel secondo caso è il valore estetico ad incrementare questo valore.

Un romanziere che scrive non per soddisfare, poniamo, la sua sete di conoscenza, ma per soddisfare il suo desiderio di successo, che misura con il numero di copie vendute, come può regolare la sua coscienza di scrittore? Il valore che lo costituisce non è il desiderio di conoscere la realtà dell’esperienza, ma il successo di pubblico. L’universalità che egli domanda è legata alla vendita del suo romanzo. Dal momento che il successo di pubblico è il valore al quale lo scrittore si relaziona, si può credere che ciò non condizioni affatto i risultati del suo lavoro, che comunque questi risultati possono essere giudicati eccellenti? Il romanziere, lasciandosi guidare nella stesura del suo lavoro, da questo valore (il successo di pubblico) come avrò operato le sue scelte linguistiche, tematiche, stilistiche, narratologiche, ecc.? Dovendo confezionare un prodotto accessibile a tutti, avrà evitato coscientemente di operare scelte che potessero apparire a chi legge difficili o incomprensibili. Con ciò non si vuole intendere che lo scrittore, per essere un scrittore autentico debba scrivere cose incomprensibili o difficili, ma soltanto dire che bisogna comprendere da quale valore la scelta di scrivere cose facili o difficili, volendo restare nell’ambito di questi due aggettivi, è stata determinata. Se è stata determinata dal valore “successo di pubblico” avrà un determinato significato se, invece, è stata determinata dal valore “maggior comunicatività” dell’opera avrà un altro significato. Nel primo caso, la scelta ha un fine commerciale, nel secondo caso un fine sociale. In quanto commerciale, la scelta risponde a dei criteri che nulla hanno da spartire con l’attività poetica del romanziere. Se si comprende bene questa differenza, allora non sembrerà strano se scrivo che l’attività artistica, dopo essersi storicamente differenziata da quella artigianale, sia attualmente ritornata ad essere un mestiere. In ogni artista c’era effettivamente anche il mestiere, cioè la conoscenza delle tecniche, ma al contrario del puro uomo di mestiere, l’artista usava quelle tecniche per produrre un valore estetico, mentre l’altro le usa per produrre un valore di scambio. L’artista ha la libertà di scegliere quale forma dare al suo romanzo e di soddisfare il suo personale gusto e, talvolta, persino di precorrerlo, allo scrittore di mestiere la forma il contenuto e il persino il gusto da seguire sono imposti da altri: dall’editore, dal pubblico o dai “lettori professionisti”.


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