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Il ruolo della Tanzania nel complesso scenario dell’Africa Orientale

Creato il 26 giugno 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Chiara Giglio

«Non esiteremo a dare un contributo ancora maggiore, laddove possibile, per assicurare che altre persone godano di una pace simile alla nostra». È questo il nucleo della dichiarazione rilasciata lo scorso 29 maggio da Hussein Mwinyi, Ministro della Difesa della Tanzania, in occasione della Giornata Internazionale dei peacekeeper delle Nazioni Unite. L’affermazione ufficiale va a confermare quello che è in realtà un impegno concreto di lungo corso da parte di Dar es Salaam alle missioni di peacekeeping internazionale: stando alle parole del Ministro della difesa, si stima un contributo tanzaniano pari a 2259 peacekeeper tra Darfur (UNAMID), Libano (UNFIL), Abyei (UNISFA), Sud Sudan (UNMISS) e, soprattutto, Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO). In virtù del suo recente attivismo, la Tanzania, Paese generalmente distante dalle cronache internazionali, sembra oggi guadagnare nuovo peso e influenza sullo scenario africano, forte soprattutto di una stabilità politica interna pressoché senza precedenti nel continente nero.

A dispetto della presenza di ben 120 diversi gruppi etnici, tra i quali i Sukuma, gli Haya, i Nyakusa, i Nyamwezi e i Chaga, tale eterogeneità non è mai sfociata in un’aperta competizione politica tra gli stessi gruppi. In sostanza, il fattore etnico non sembra essere diventato l’elemento saliente o la “cifra” della politica tanzaniana, all’opposto invece di quanto frequentemente avvenuto nella gran parte degli Stati africani, vicini della Tanzania inclusi (Mozambico, Kenya, Uganda e Ruanda). Tale peculiarità sembra in realtà essere il frutto di una precisa scelta governativa, da ricondurre al cosiddetto “grande progetto nazionalista” portato avanti da Julius Nyerere, Presidente della Tanzania dalla fondazione del Paese nel 1964 fino al suo ritiro nel 1985. L’amministrazione di Nyerere, basata su una forma di socialismo agricolo chiamato ujamaa, ebbe in effetti tra i suoi principali obiettivi quello di dare al Paese una forte identità nazionale, che servisse anche da collante tra le due parti costitutive della Repubblica Unita di Tanzania, vale a dire, l’area continentale del Tanganica e l’isola di Zanzibar. Il forte senso di unità nazionale tanzaniana avrebbe quindi impedito l’emergere di identità subnazionali, facendo sì che i cittadini tanzaniani abbiano teso a considerarsi prioritariamente tali rispetto alle diverse appartenenze etniche o tribali. Tra gli strumenti della politica di Nyerere che servirono a tale scopo spicca sicuramente un sistema a partito unico dominato dalla TANU (Tanganyika African National Union), diventata CCM (Chama Cha Mapinduzi-Partito della rivoluzione) nel 1977, dopo l’unione con il Partito unico dell’arcipelago di Zanzibar. Nonostante l’emergere di tensioni occasionali a partire dal passaggio ad un sistema multipartitico nel 1992 – con scontri dovuti essenzialmente all’affermazione sulla scena politica nazionale del CUF (Civic United Front) come principale partito di opposizione al CCM –, la Tanzania continua comunque a godere di una situazione di stabilità relativa pressoché ineguagliata nel resto del continente.

L’equilibrio politico non sembra tuttavia trovare piena corrispondenza da un punto di vista sociale ed economico. In generale, un tasso di crescita annua del PIL estremamente elevato – pari nel 2012 e il 2013 al 7% – è sicuramente un dato importante da cui partire. La Tanzania si attesta già come quarto produttore di oro a livello africano dopo Sudafrica, Ghana e Mali, mentre la recente scoperta di riserve di gas naturale pari a 46 trilioni di piedi cubi infiamma le aspettative circa un possibile ruolo trainante dell’industria del gas per il futuro economico del Paese. Una questione fondamentale è tuttavia comprendere quanto tale ricchezza in risorse naturali sia stata in grado di tradursi in termini di sviluppo sociale, riduzione della povertà e della vulnerabilità della popolazione: cioè in effettivo miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Nel caso tanzaniano, come nella gran parte dei Paesi africani, sembra che in realtà si sia affermato un modello di crescita trainata dalle esportazioni di materie prime e del settore minerario accompagnato da una iniqua distribuzione del reddito. Gli investimenti diretti esteri (IDE) – cinesi e statunitensi in particolare – non si concentrano nel settore agricolo e nemmeno in quello manifatturiero, ma in quelli energetico ed estrattivo. Un assetto economico, in pratica, che assicura la crescita al Paese, ma che impedisce allo stesso tempo effetti di diffusione dei benefici tra la maggioranza della popolazione tanzaniana, di cui ben il 36% vive al di sotto della soglia di povertà. Non sorprende quindi come la Tanzania si attesti solo al 152° posto su un totale di 182 Paesi nella classifica dell’indice di sviluppo umano dello United Nations Development Programme (UNDP), né che i principali fattori di rischio interni siano da collegare alle violente proteste nella regione di Mtwara per la distribuzione dei proventi del gas, di cui quell’area è ricca.

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Caratterizzata da una situazione interna ricca di contraddizioni e chiaroscuri, l’azione della Tanzania si inserisce in un contesto regionale altrettanto particolare e problematico, ovvero, quello dell’East African Community (EAC), l’organizzazione regionale dell’Africa Orientale. Il primo tentativo di creare l’EAC fu attuato nel 1967 da Kenya, Uganda e Tanzania. Tentativo collassato dieci anni dopo, nel 1977, a causa delle conflittualità tra i tre Paesi fondatori che portarono ad una guerra tra Tanzania e Uganda e all’isolamento del Kenya. Il progetto fu ripreso alla fine degli anni Novanta, mentre nel 2009 Burundi e Ruanda entrano a pieno diritto nella Comunità. Se l’integrazione regionale è la chiave per il futuro dell’Africa – stando almeno alle visioni della gran parte di economisti, politici ed esperti di sviluppo africano – l’EAC è stata considerata fino ad oggi il modello di riferimento da seguire a livello continentale. A differenza di altre organizzazioni regionali, quali per esempio la SADC e l’ECOWAS, segnate rispettivamente dal gigantismo di Sudafrica e Nigeria, l’EAC ha guadagnato a livello africano una reputazione di efficienza grazie al raggiungimento di obiettivi importanti, tra i quali: condizioni meno restrittive per l’ottenimento di permessi di lavoro, libera circolazione delle persone, minimizzazione delle tariffe trans-frontaliere ed eliminazione di alcune barriere commerciali non-tariffarie. Si discute tra l’altro di progetti volti alla creazione di un vero mercato comune, con una moneta unica e perfino un sistema di passaporti unificato – tutte iniziative che aiuterebbero a trasformare l’Africa Orientale nella regione economicamente più dinamica di tutto il continente.

Un panorama più che propizio, pertanto, se non fosse per la comparsa, dalla fine dello scorso anno, di pericolose crisi diplomatiche e giochi di forza tra Paesi membri. Mentre Kenya, Uganda e Ruanda, con la creazione di un’aggressiva e determinata troika, unita sotto la sigla di Coalition of Willing–Coalizione di Volenterosi, avanzano a tappe forzate verso nuovi obiettivi politici ed economici, utilizzando il loro peso economico e militare per imporsi come leader del processo di unificazione, la Tanzania soffre una situazione di pesante marginalizzazione regionale (discorso a parte merita il Burundi, privo di una posizione definita a causa della relativamente scarsa capacità di influenza). Nel dicembre 2013 i tre Paesi hanno siglato una ferrea cooperazione militare volta a creare le prime basi per la Difesa unica dell’Africa Orientale. Un mese prima i tre avevano deciso di forzare la mano attivando la fase di ingenti finanziamenti per dar vita ad alcune infrastrutture che permettano all’Africa Orientale di divenire un’unica entità, quali ad esempio un’adeguata rete ferroviaria, il potenziamento dei porti di Mombasa e Lamu, la realizzazione di raffinerie regionali, un oleodotto unico che da Hoima sfoci alla città portuaria keniota di Lamu, l’unione tariffaria delle telecomunicazioni, il potenziamento della rete internet e del e-commerce e la piena applicazione della dogana unica. In incontri tanto rilevanti, la Tanzania spicca come il grande assente, costretta ad un isolamento forzato imposto dai suoi stessi partner.

Le ragioni alla base di tale spaccatura sono indubbiamente complesse e non possono limitarsi alla spiegazione che vorrebbe la Tanzania messa da parte a causa dell’approccio tradizionalmente più moderato e cauto del Presidente Jakaya Kikwete nei confronti del processo di integrazione regionale. Il fatto che la Tanzania non abbia mai subito un richiamo in merito a tali posizioni e che la questione non sia mai stata affrontata in un forum ufficiale fanno pensare che ci sia qualcos’altro dietro ai fragili equilibri in seno all’EAC, qualcosa di strettamente connesso all’impegno tanzaniano nelle missioni di peacekeeping in Africa.

Ancora una volta, è la Repubblica Democratica del Congo ad essere al centro dell’instabilità politica in questa parte del continente. L’est di questo gigante malato è orientato verso l’Africa Orientale per similitudini etniche originate dall’esistenza di numerose tribù transfrontaliere e per necessità economiche commerciali. L’assenza di strade che colleghino l’est del Congo con il resto del Paese obbliga le due provincie del Kivu a orientarsi verso l’EAC. Come abbiamo visto, le truppe tanzaniane sono parte della MONUSCO, missione delle Nazioni Unite a sostegno dell’esercito congolese contro la ribellione Banyarwanda del M23. Il movimento di ribelli è tuttavia sostenuto proprio da Ruanda e Uganda, entrambi indicati in un Rapporto delle Nazioni Unite come principali finanziatori del M23. Tanzania da una parte e Ruanda e Uganda dall’altra risultano quindi impegnati in una sorta di “guerra per procura” o proxy war nella RDC – situazione che difficilmente potrà favorire la cooperazione regionale. Anche le relazioni bilaterali tra Tanzania e Kenya non sembrano esenti da segnali di tensione: Nairobi non avrebbe gradito in particolare la riluttanza tanzaniana nel supportare la richiesta del Kenya di rinvio del processo per crimini contro l’umanità al Presidente Uhuru Kenyatta presso la Corte Penale Internazionale dell’Aja.

I prossimi anni saranno pertanto cruciali per la riuscita o il fallimento della EAC, anche se, a dispetto degli evidenti sintomi di crisi, sembra ancora troppo presto per contemplare una dissoluzione dell’organizzazione dell’Africa Orientale. Quel che è certo è, invece, il ruolo di primaria importanza della Tanzania nel delicato e incerto futuro della regione. Nel Paese le prossime elezioni politiche sono previste nel 2015 e al momento il Presidente Kikwete e il partito di governo, il Chama Cha Mapinduzi, non sembrano dover temere per la propria stabilità. Proprio all’amministrazione Kikiwete toccherà quindi impegnarsi per rientrare a pieno titolo nelle dinamiche decisionali dell’EAC: un definitivo allontanamento della Tanzania da tale comunità – blocco regionale che tra 20 anni potrebbe spiccare come più importante centro commerciale ed industriale del continente – segnerebbe infatti un grave arretramento per l’Africa Orientale, con la marginalizzazione del Paese che, a dispetto di evidenti limiti e contraddizioni, attualmente si presenta come il più credibile stabilizzatore politico dell’intera regione.

* Chiara Giglio è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Bologna – Sede di Forlì)

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