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Il segreto di Marta (prima parte)

Da Cultura Salentina

di Vespina Fortuna 

Il segreto di Marta (prima parte)

Pasquale Urso (litografia)

Nonna Matta, nonna Matta, ci racconti il tuo segreto?”

Erano trascorsi tanti anni da quando la giovane Marta era tornata a Giuggianello, senza più voce e con, in cambio, un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte, ma ancora, che cosa le fosse capitato era rimasto un mistero.

Per molte settimane, all’epoca del fatto, nessuno seppe, dove si fosse cacciata, perché fosse scomparsa e se e quando sarebbe mai tornata. Gli abitanti della zona la cercarono per giorni, dalla mattina alla sera. Mettendosi le mani a coppa ai lati della bocca, incominciavano a urlare il suo nome dalle prime luci dell’alba e finivano a notte fonda. Con fiaccole e lanterne a olio, si frugarono capanne, ovili, stalle, vigne, uliveti, frantoi e granai, di Martina, però, nessuna traccia. Ognuno provò a indovinarne la fine: i più fiduciosi e le malelingue la pensavano scappata in città, a cercar fortuna, da sola o con qualche bell’imbusto forestiero, i più disfattisti, invece, la vedevano già morta, per un’insolazione in campagna, sbranata da un branco di cani randagi o annegata in mare.

Doveva essere successo d’estate perché, dopo tanti anni, chi ricordava ancora quelle giornate di ricerca, le descriveva calde e assolate e le notti tiepide e serene, rischiarate dalla luna e da tutte le stelle del firmamento. Era tempo di bruciare le stoppie, ma i giuggianesi evitarono di appiccare i fuochi, per non rischiare di ardere anche il corpo di Marta che, magari, poteva trovarsi a terra, in mezzo a un campo.

Per molte lune, di lei si parlò abbassando il tono di voce, segnandosi con la croce o togliendosi il cappello dal capo.

Un giorno, però, quando ormai tutti si erano rassegnati ad averla persa per sempre, Marta ricomparve, all’improvviso, come uno spettro.

Era tutta scarmigliata, sporca e rinsecchita, con gli occhi strabuzzati e le labbra screpolate e piene di croste. Aveva le cosce graffiate dai rovi e rivoli di sangue, le si erano seccati lungo stinchi e polpacci. All’inizio, nessuno la riconobbe. Quelli che stavano sull’uscio, rientrarono subito in casa e si richiusero la porta alle spalle, temendo che fosse una delle figlie della strega che viveva nel fondo Tenenti.

Camminava senza meta per la strada, guardando un punto fisso avanti a sé, a passo svelto, scalza e coi vestiti stracciati. Tutta sudata e bruciata dal sole, arrivata vicino al fiume, forse attratta dallo scroscio dell’acqua, si arrestò, poi deviò, seguendo il canto delle lavandaie. S’inginocchiò vicino alla riva, si sporse un poco e riempiendosi le mani bevve a grosse sorsate. Come se avesse ingoiato veleno, subito dopo cominciò a vomitare verde e cadde svenuta, in mezzo alle pietre. Una donna, con un mastello di bucato gocciolante sulla testa, la vide cadere, accelerò il passo fino alla piazza e cominciò a urlare chiamando per nome tutti gli abitanti delle case vicine. In un momento arrivò l’intero paese. La decisione fu rapida e unanime, anche se fosse stata una strega, non potevano certo lasciarla morire lì, fra le erbacce, ché oltretutto era pure di malaugurio. Due uomini, allora, prendendola per le braccia e per le gambe, la sollevarono e la lanciarono dentro il fiume.

Così come ci fu buttata, altrettanto in fretta ne saltò fuori, infreddolita, stralunata e impaurita. Alzò la mano per inveire contro chi l’aveva quasi affogata, ma anche se sulle labbra s’indovinavano gli improperi, dalla bocca non uscì neanche una parola.

Nel frattempo, Maria, che non aveva ancora perso la speranza di ritrovare la figlia, arrivò correndo, si fece spazio tra la folla e, a gomitate e spinte la raggiunse. La riconobbe subito. La coprì col suo scialle nero e se la riportò a casa tenendola stretta stretta, accanto a sé.

Ci vollero tre giorni interi per lavarla, scrostarla, pettinarla e restituirle un aspetto dignitoso. Ma, nonostante le cure amorevoli dei genitori che si sentivano miracolati per aver riavuto quell’unica figliola ormai data per morta, la voce non le tornò. Né si riuscì a strapparle dal braccio una cordicella di cuoio che glielo avvolgeva come le spire di un serpente. Ci misero l’olio, l’alcol e una mistura misteriosa di erbe grasse e viscide, ma il laccio s’incollava sempre di più e se si provava a tirarlo, veniva via anche la carne. Una vecchia provò a guastarle il malocchio con l’acqua, l’olio, la candela e una bisbigliata cantilena. Un’altra consigliò la madre di cospargerle la testa di miele per addolcirle i pensieri che le offuscavano lo sguardo, altre ancora portarono ramoscelli d’ulivo legati da ciocche di capelli di neonato per farla ritornare ingenua, allegra e spensierata, ma non ci fu niente da fare. Martina trascorreva le giornate in silenzio, guardando il cielo, la luna e le stelle con gli occhi strabuzzati e quella specie di lunga sanguisuga intorno al braccio. Ogni tanto spariva, ma la ritrovavano alla cripta di San Giovanni, sulla strada per Palmariggi, seduta davanti all’affresco, a guardare le fattezze del santo e accarezzare il muro. Solo allora le spuntava un timido sorriso ai lati della bocca e alle code degli occhi.

Il tempo passò, ma non per lei, che era rimasta uguale: muta, con il ciuffo di capelli bianchi e gli occhi fuori dalle orbite. I bambini del paese cominciarono a chiamarla Matta, storpiandole il nome e, molto tempo dopo, morti i suoi genitori, quello fu il solo nome con cui fu chiamata. Ma lei non se la prendeva, niente di ciò che le succedeva intorno sembrava interessarla, niente e nessuno.

Rimasta sola, fu costretta a prendersi cura della casa, dell’orto, del pollaio, dell’uliveto e di se stessa e così, senza neanche sapere né come né quando, riprese anche a parlare. All’inizio solo con le galline e le verdure dell’orto, poi da sola e alla fine anche con chi l’andava a trovare.

Ogni tanto provava a ripensare al giorno di tanti anni prima, quello che le aveva cambiato connotati e nome, ma la testa restava confusa, impigliata fra realtà e sogni. Che fossero l’una o gli altri a sconvolgerla, sicuramente doveva essere stata qualcosa di terribile perché, quando iniziava a tornarle la memoria, era scossa da brividi improvvisi che le facevano battere i denti dalla paura e dal freddo. Era allora che correva dal suo San Giovanni che la calmava dentro e fuori, pur non conoscendo il motivo di quel disperato bisogno.

“Nonna Matta, nonna Matta, ci racconti il tuo segreto?”

L’avrebbe rivelato volentieri quel segreto, non fosse altro che per strapparselo di dosso e scacciarlo da sé, facendolo scivolare via con la lisciva, la cenere o il petrolio. Magari fosse stato così semplice come lavare il bucato o strinare i capelli! L’avrebbe sciacquato via volentieri dall’anima, seccato al sole e riposto nello scrigno dei ricordi. Ma benché fosse diventata un’ossessione che la teneva sveglia di notte e stralunata di giorno, ancora non riusciva a rimettere a posto tutti i pezzi di quei maledetti giorni. Quelli che le avevano tolto la speranza di un amore, di un figlio, di una vita normale e di un nome.

Si dice che a quei tempi fosse stata una bella ragazza, magra, alta e slanciata, con bei muscoli ai polpacci e il seno prosperoso, sveglia, lavoratrice e con un carattere battagliero e selvatico. Più di uno spasimante le correva dietro, non avrebbe dovuto far altro che scegliersi quello che preferiva. Invece no, lei, testona, era dovuta andare al fondo della strega. Ah! Se avesse potuto sapere perché!

Il suo ricordo si fermava a un certo punto, senza riuscire a proseguire oltre, imprigionato in una segreta, racchiusa dentro un castello dalle mura alte e massicce.

Sapeva di essersi incamminata per la via di Serravecchia, di aver oltrepassato Quattromacine fino alla contrada Visilie e di essersi addentrata nel fondo Tenenti, da sola e di nascosto, in una notte stellata e di luna piena. Ricordava che per non farsi scorgere aveva lasciato a casa anche la fiaccola e che non era stato facile arrivarci, anche perché non conosceva affatto il luogo che andava cercando. Rammentava di aver cambiato più volte sentiero e, ogni volta, di essersi chiesta se non fosse stato il caso di ritornarsene sotto le lenzuola, per non rischiare di perdersi. Ma lei, cocciuta, ormai aveva preso la decisione e non ci poteva ripensare. Chi ci ripensa è cornuto – si diceva tra sé – e proseguiva. Era inciampata su cespugli, cardi e rovi, ferendosi le mani con le spine e i piedi con le rocce appuntite e i rami secchi, ma andava oltre, doveva andare. Di notte, quella strada era piena di pericoli. Di tanto in tanto udiva ululati terribili e fruscii inquietanti. Rischiò di cadere in un fosso profondo, picchiò la testa più d’una volta sui rami più bassi e scivolò sulle pietre malsicure rotolate a terra, e sul terreno sdrucciolevole. Ma, ogni volta, Marta si rialzava e respirava a pieni polmoni per togliersi la paura di dosso, riempiendosi le narici col profumo di malva, delle ginestre e dell’erba bagnata di rugiada. Respirava e proseguiva, come se caricandosi con quegli odori potesse diventare forte e invincibile.

Sapeva di essere arrivata al fondo Tenenti che era già l’alba, di essersi seduta sotto un ulivo, col fiatone e le gambe tremanti dalla fatica, ma a questo punto il ricordo si sbiadiva e diventava denso di nebbia. Si confondeva con altri ricordi e svaniva come il fumo del camino, riempiendo la prigione della sua memoria.

“Nonna Matta, nonna Matta, ci racconti il tuo segreto?”

Ormai era anziana, quasi senza denti, con la pelle raggrinzita e il ciuffo di capelli bianchi che, nel tempo, si era andato confondendo con gli altri. Sessant’anni erano trascorsi da quell’episodio misterioso, sessanta esatti, dice chi ancora ricorda quel giorno.

Quella mattina di sessant’anni dopo, il serpentello di cuoio che le stringeva il braccio si sciolse e cadde a terra, a un lato del letto. Al risveglio, quando si ritrovò il braccio nudo, s’intristì e, d’istinto, lo nascose sotto le lenzuola, sbirciandolo, di tanto in tanto, con la coda dell’occhio. Pian piano iniziò a massaggiarlo, quasi a volergli ridare vita, lì dove lo sentiva intorpidito, sul segno indelebile che le era rimasto.

Si alzò dal letto, raccolse il laccio, accese il fuoco nel camino e lo bruciò. In un lampo quello si attorcigliò, ruotò su se stesso, si divincolò come una biscia, scrocchiò, fece un guizzo, l’ultimo, poi scomparve tra la brace. Tornò a dormire e fece un sogno curioso. Sognò il suo Giovanni, non quello che le sorrideva sul muro, l’altro, quello nel fondo Tenenti, vicino allu furticiddhu te la striara, all’arcolaio della strega.

Era bello, sereno e le parlava col sorriso sulle labbra. Non si capivano bene le parole che diceva, ma Marta si sentì rasserenata da quel discorso dolce e gentile che la scioglieva definitivamente dalla sua stretta e la lasciava libera e svincolata. Da quel momento, uno a uno, i ricordi riaffiorarono, prima allegri, poi tristi, ma vivi come quel braccio che adesso era tornato a lei.

Si alzò, spalancò le finestre, guardò il sole alto nel cielo, stette un po’ a scaldarsi coi suoi raggi sorridendo felice. Libera! Sono libera! – pensò con il cuore leggero e le ali ai piedi. Prese una brocca e spense la brace godendo del dolce fragore dell’acqua sulla legna rovente.

Ormai era vecchia e ciò che aveva perso, di certo non lo avrebbe più riavuto, ma avrebbe finalmente potuto svelare il suo segreto a chi avesse avuto voglia di ascoltarla. Spalancò l’uscio e si sedette sulla soglia a pettinarsi i lunghi capelli canuti, ne fece una treccia e se l’arrotolò intorno alla nuca.

Una bambina, scalza e col moccio al naso, vedendola le si avvicinò timida timida. Non aveva neanche idea di cosa significassero le parole che avrebbe di lì a poco pronunciato, le ripeté a pappagallo, come aveva sentito fare per anni da quelle più grandi di lei, senza neanche aspettarsi una risposta, così, per un riflesso condizionato alla vista della vecchia Matta.

“Nonna Matta, nonna Matta, mi racconti il tuo segreto?”

La donna allungò il braccio liberato, le tese la mano invitandola a sedersi accanto a lei e cominciò.

“E’ la storia di una ragazzina disperata e testarda, che sapeva della striara, la vecchia strega nel fondo Tenenti e del marito, lu Nanni Orcu, ma nonostante questo, c’è andata.

Quella ragazzina ero io, tanti anni fa. E’ proprio lì che ho perso la memoria, la bellezza e molto di più, e ho visto una cosa che non auguro a nessuno di vedere, se vuoi te la racconto, precisa come fosse allora, ma alla fine non so che cosa ti succederà. E’ una storia molto triste e tu sei così piccina, sei sicura che vuoi sapere il mio segreto?”

La bambina ritrasse la mano e se la nascose fra le gambe, stringendo le spalle e abbassando il capo riccioluto. Poi tornò a guardarla da sotto in su, timorosa di conoscere la terribile storia di nonna Matta, ma era come lei, curiosa e temeraria. La vecchia era incerta se tacere o andare avanti. Da un lato, temeva che la bambina ne sarebbe rimasta impressionata, dall’altro, sentiva di dover donare il proprio segreto a quella depositaria. Si scambiarono uno sguardo intenso, ognuna piegando il capo da un lato, poi la ragazzina riavvicinò la mano e la porse a quella rugosa e scarna di Marta che, a quel punto, si decise a riprendere il racconto.

“La notte che andai dalla strega era calda e umida. La parete accostata al letto mi ributtava addosso tutto il sole che si era succhiata di giorno. Mi svegliai coi capelli appiccicati sul collo e la veste da notte arrotolata intorno, per quante volte mi ero rigirata smaniando. Avevo male alla pancia, come da un po’ di giorni a quella parte, m’infilai un vestito asciutto e uscii. Io lo sapevo perché la pancia mi faceva male e pure perché le vesti mi andavano più strette, ma aspettavo il giorno buono per dirlo ad Angelino. Non volevo che la moglie mi sentisse.” “Chi è Angelino?” chiese la bambina.

Angelino era un calzolaio, ma non stava qui a Giuggianello. Girava per i paesi a risolare le scarpe di chi ne aveva. Era sposato con Giovanna, brutta quanto la fame e la miseria, con quattro capelli in testa e un culo che non sarebbe entrato in questa porta. Lui, invece, era giovane e piacente, niente d’eccezionale ma alto, snello e soprattutto era forestiero. Mi fece un po’ di moine e io, ragazzina com’ero, ho creduto che mi amasse veramente. Mi diede appuntamento nell’orto dietro casa sua, una notte, con la luna piena. Ci sono andata subito, senza neanche dire forse, e gli ho regalato il bene più prezioso che tenevo.

Quella notte calda, dicevo, quando non riuscivo a dormire, pensai che se fossi arrivata sotto la finestra di casa sua e avessi tirato un sassolino, lui avrebbe capito che ero io e sarebbe sceso di nascosto della moglie per sentire quello che avevo da dirgli. Allora m’infilai in viottoli bui, riconoscendo solo l’ombra mia e di qualche gatto che andava a caccia e arrivai fino alla casa, dove abitava. Mi meravigliai che sotto non ci fosse il carretto con gli attrezzi da calzolaio. Che strano – pensai – lo tiene sempre qua!  Il portoncino era socchiuso, mi feci coraggio e spinsi fino a che non cominciò a cigolare. Mi fermai ed entrai come una ladra, in quel poco spazio che si era fatto. La casa era vuota. Girai in cucina e nella camera, ma non c’erano altro che armadi vuoti e letti sfatti. Allora capii che Angelino se n’era andato con Giovanna e mi aveva lasciata sola, con la pancia piena e la certezza di essere ammazzata a suon di cinghiate e cucchiaia di legno.

L’unica cosa che potevo fare era scappare e non tornare più. Ma dove potevo nascondermi? Come avrei campato? Mentre tornavo indietro per i vicoli scuri, con le lacrime di rabbia che mi offuscavano gli occhi, mi sembrò che la luna rischiarasse la via Serravecchia, come a indicarmi la strada. Là in fondo c’era la strega, lo sapevo, ma mi dissi che se lei riusciva a camparci con tutte le figlie, allora avrei potuto farlo anch’io! M’incamminai e pian piano, fra uno scivolone e una capocciata, arrivai fino al fondo Tenenti.”

“E ci sta davvero la strega, sul masso?”

“Io l’ho vista. Lo giuro, l’ho vista davvero! Ma me l’aspettavo vecchia, brutta, col naso a uncino e la gonna nera, invece no. Lei e le figlie non sono streghe, sono fate! Belle, alte, coi capelli lunghi e lucenti, gli occhi grandi e dolci, le bocche rosa e i nasi piccoli e affilati. Camminano come signore, con le vesti svolazzanti e i fiori tra i capelli. Raccolgono olive, funghi e bacche, dormono su morbidi velli di pecora, sopra un sasso a forma di letto poggiando la testa su un altro a forma di cuscino. Ci stanno comode come se fossero di lana morbida, come quelli che usano i signori.

Tutte assieme passano le giornate ridendo, cantando e suonando foglie d’erba e piccole canne bucherellate. Sanno volare, ma senza scopa. Per loro, le nuvole sono balle di fieno dove sedersi e la luna è una madre che ascolta i loro segreti.”

“E il tuo di segreto?” Chiese la bambina con gli occhi sognanti.

“Aspetta, aspetta. Fatti raccontare tutto, per filo e per segno.

All’inizio, me ne restai a distanza. Che ne sapevo io che carattere hanno le fate? Ci sono le buone, ma anche le cattive. Insomma, mi trovai una tana e rimasi immobile lì dentro, uscendo solo per fare i bisogni e mangiare qualche bacca che trovavo intorno al nascondiglio. Mi ero proprio scordata di avere una famiglia, una casa e un paese. Non sentivo né fame né sete, mangiavo più che altro per passare il tempo tra una visione e un’altra, come quando Nicolino faceva il cinematografo in piazza, col lenzuolo e la macchina che gira. Stavo zitta zitta a sentire i loro discorsi, anche se, lontana com’ero, poco di quello che dicevano, mi arrivava. Però solo a guardarle, belle come la Madonna, a sentirle cantare e suonare, a vederle ballare a girotondo, mi dimenticavo di tutto il resto.

Una notte chiara di luna piena, mi svegliò uno strano trambusto. Il canto dei gufi e delle civette ormai mi erano familiari, così come il fruscio dell’erba e lo sbatter d’ali dei pipistrelli. Il rumore che sentii quella notte, però, era diverso da quelli soliti. Mi svegliai più curiosa che impaurita e cacciai la testa dalla tana, come una lumaca, lenta lenta, attenta a non farmi sentire.

Vidi le fate che, al chiarore di una torcia, si spalmavano una con l’altra una specie di miele rosato, almeno, da dove mi trovavo e dietro al rossore del fuoco, sembrava rosa. Una per volta, si tenevano i capelli con le mani mentre le altre le passavano il miele dappertutto. Alla fine, quando furono belle incremate, s’infilarono la veste e, tenendosi per mano si arrampicarono sul sasso a forma di arcolaio, lu furticiddhu insomma, tenendosi strette l’una all’altra. Fecero un salto e si lanciarono nel vuoto. Mi dovetti mettere tutt’e due le mani sulla bocca, per ricacciarmi indietro l’urlo di paura. Già me le vedevo sulla pietraia ai piedi del masso, tutte spiaccicate sul terreno duro, fra l’ulivo e le fascine di rami tagliati. Chiusi gli occhi, per levarmi dalla testa quel pensiero orribile e invece, più li tenevo stretti e più me le immaginavo finite a quel modo. Allora li riaprii e me li strofinai quattro volte con le mani chiuse a pugno per assicurarmi che quello che vedevo era vero. Non erano cadute di sotto, stavano facendo un girotondo nel cielo, allegre e felici e cantavano alla luna. Stettero in aria un bel pezzo e poi riscesero una dopo l’altra, la madre avanti e le sette figlie dietro. Mi rintanai di nuovo e il mattino dopo pensai di aver sognato. Ma la notte seguente e tutte quelle appresso, mi riaffacciai e le vidi ancora salire in cielo e ridere, leggere come farfalle.

Continua…


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