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Il sindaco Pisapio

Creato il 03 giugno 2012 da Albertocapece
Il sindaco Pisapio

Osservate tutti i dettagli, la fotoè “perfetta”,quello che tecnicamente si chiama un “posato”:la bandiera, il Papa, il Carabiniere, il bambino, persino la mano di una persona di colore.

Anna Lombroso per il Simplicissimus

In molti ieri si sono dispiaciuti per l’esuberante e fervida accoglienza che il sindaco Pisapia ha riservato al Papa, un po’ troppo oltre agli obblighi del bon ton e quasi sconfinante nell’ossequio.
Non c’è da stupirsi d’altra parte, sembra un germe patogeno della sinistra o di quel che ne resta conservare, nutrire e esaltare relazioni privilegiate con le gerarchie ecclesiastiche come necessario preliminare e condizione imprescindibile per la manutenzione efficace dei vincoli e dei patti strategici o elettorali con i moderati.

Cattive letture ci hanno persuaso che gli animali politici debbano dimenticare istinto, avvilire vocazioni, temperare emozioni per consegnarsi all’astuzia, per imparare l’arte della tattica, per esercitare il cinismo come doti essenziali per l’affermazione delle proprie ambizioni e la realizzazione delle proprie aspettative. Si direbbe sia utile anche una inclinazione alla “bocca buona” o almeno all’approssimazione se grazie alla retorica dell’eufemismo gli appartenenti alla cerchia dei poteri e anche gli ammessi e affiliati, universalmente considerano moderati e affini a una certa ragionevole “medietà”, ultras dell’autoritarismo, la curva sud del liberismo, integralisti del pragmatismo, fondamentalisti dello status quo. Mentre invece considerano rischiosi e incontrollabili estremisti quelli come me, quelli cui non piace l’ordine casualmente o sapientemente iniquo del mondo, quelli che considerano la sobrietà come l’anticamera dell’ingiustizia, quelli che si dolgono che tutti gli ideali di umano progresso e incivilimento che dall’Illuminismo in poi si sono susseguiti come orizzonti del nostro avvenire siano oggi ridotti a questa implacabile e grigia teleologia dell’”andare avanti” e sempre sullo stesso sentiero.

Così nemmeno troppo sorprendentemente succede che “estremisti” di ieri, ferventi democratici, reduci della sinistra ritengano sia ineluttabile quando non desiderabile, compiacere la smaniosa ossessione dei molti, clero, “riformatori”, profeti, agitati dal sacro furore di rendere migliore il nostro povero mondo attraverso la vecchia e consunta favola della redenzione tramite penitenza, delle riforme da realizzare, delle rinunce da trasformare in meriti e tutti altrettanto pervicacemente impegnati a difendere l’assetto vigente, le gerarchie dominanti e la narrazione ideologica che li sostiene.
E’ colpa di quella consegna al realismo, che persuade dell’inevitabilità dell’adeguarsi al pensiero forte, del riconoscersi in una maggioranza, che se sono tanti avranno ragione, nel subire l’incanto del pragmatismo e il disincanto dell’utopia, nel compiacersi dell’inevitabilità del mercato e nella fatalità del profitto. E che fa preferire un ordine che minaccia di diventare un ordine mondiale, senza limiti, senza equilibrio, senza giustizia, come a volte si è portati a restare asserragliati in un presente sia pure infame ma conosciuto, eleggendolo come più sopportabile rispetto a uno “sconosciuto” incerto anche se plausibilmente bello e vivo.

Ma i moderati, diffusamente e pienamente identificabili con i difensori dell’ordine esistente, sono invece il contrario di ciò che immaginano di essere e di quello che in molti si aspettano da loro, vale a dire degli estremisti. La loro ideologia, le loro convinzioni “pesanti”, le loro modalità oltre che la loro collocazione politica non solo non contrastano, ma anzi favoriscono lo sviluppo e la pressione di fenomeni economici, sociali e ambientali, estremi. Il loro conservatorismo che si sostanzia nella difesa dei privilegi di pochi e nella sopraffazione dei deboli, molti, si acccredita con fattezze solo apparentemente ragionevoli e razionali, solo illusoriamente incruenti, solo superficialmente clementi, ma solo nei confronti dei poteri forti e dei loro “simili” cui sono concesse licenze e indulgenze.

Le beffa delle “riforme” vinte come una sfida dal governo Monti è esemplare della trasformazione aberrante e perversa che il moderatismo politico ha inflitto al riformismo. Quella apparente e frigida medietà solo apparentemente non schierata, è ormai il territorio nel quale compi le sue scorrerie quella cupola planetaria in grisaglia, che toglie la sovranità agli stati e ai popoli, che innerva le società, che si insinua ovunque nei gangli vitali, infiltrandosi nell’economia e nel tessuto sociale, quell’alleanza fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e che si è intrecciata con la criminalità, utile per la circolazione di denaro, per la penetrazione nel sistema politico, per l’occupazione del territorio, per il monopolio delle grandi opere, delle infrastrutture e del poco che resta delle produzioni, preparata, aggiornata e vocata a scegliere business “legali”, che tanto il confine è ormai labile e i profitti più elevati.

La sua geografia politica è quella del “centro”, i suoi capisaldi non hanno ambizione di trasformazione della società, di modifica della ripartizione della ricchezza, di alterazione degli assetti di potere. Anzi, assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza vigenti, non come un terreno di conflitto, ma come un sistema rigido da mantenere e rispettare, quello del mercato che è sempre di più il mercato della politica, funzionale a quello scambio e commercio di favori e consensi necessari alla riproduzione di ceto e privilegi.

Se eravamo restii in passato a ammettere che “tanto sono tutti uguali” ora ne avremo la certezza: liste civiche, stelle o stalle, reduci del Pdl, Montezemolo o De Benedetti perpetuano il conformismo ideologico totalitario e iniquo che fa delle disuguaglianze i suoi pilastri, dell’egemonia monopolistica del sistema privato il suo interesse, della nostra riduzione in servitù e in merci la sua regola, del liberismo la loro guerra alla nostra libertà.
Pensandoci, pensando agli austeri e alla loro parate, pensando ai moderati e ai loro equilibrismi, mi consolo con una quartina di Omar Khayyam: ‘Quando sono sobrio, la gioia mi è velata e nascosta,/ quando sono ubriaco non ha più coscienza la mia mente./ Ma c’è un momento, in mezzo, fra sobrietà ed ebbrezza:/ per quello darei ogni cosa, quello è la vita vera’.


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