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Il sonno della ragione genera regioni

Creato il 15 gennaio 2014 da Albertocapece

leadImageAnna Lombroso per il Simplicissimus

Magari il Renzi incarna un nuova generazione di furbetti toscani, dopo Andreuccio o Maso del Saggio, così con lodevole preveggenza a fronte di indagini che potrebbero portare in tribunale intere giunte regionali e comunali, ha pensato di tutelare almeno i suoi cari e famigli, dotandoli della copertura dell’immunità in quella “camera delle regioni e dei comuni” che propone come dinamico e produttivo organismo di rappresentanza a fianco del premier-sindaco o del sindaco premier a piacere, visto che intende continuare a coprire ambedue gli incarichi e anche qualche altro.

È evidente che le regioni in questi anni sono state il contesto per ladrocini, furti con destrezza e “sinistrezza”, malversazioni ridicole, in un clima da grande shopping che regala alla corruzione il carattere grottesco della soddisfazione di una coazione al consumo, di appagamento di una fame insaziabile da Lazarillo de Tormes, di risarcimento di ataviche frustrazioni di chi non si era potuto permettere slip di marca, indumenti firmati, auto, champagne, ma anche lecca lecca, nutella e –  le strade della propaganda sono bizzarre – necrologi, per assicurargli, direbbe Faraone del Pd, una forma di welfare alternativo ma pur sempre pubblico.

Ci sarebbe da riflettere allora se nella generalizzata isteria di tagli e restrizioni, non sarebbe bene interrogarsi sulla effettiva utilità delle Regioni, e sulla loro natura di  Parlamenti di scala, più lenti, farraginosi e sgangherati di quelli maggiori, nei quali siedono incompetenti altrettanto inadeguati a decidere e altrettanto poco rappresentativi, che hanno dimostrato un istinto invincibile a rigenerare meccanismi di sottogoverno e corruzione, un’indole alla superproduzione normativa che ha generato carichi burocratici e amministrativi perversi, moltiplicando adempimenti e rendendo largamente, colpevolmente e paradossalmente inapplicabili regole e norme, in un’aberrante competizione e in una sterile concorrenza con lo Stato.

Tutti coloro che si sono occupato di pianificazione territoriale e di programmazione ripetono da anni  che la dimensione della regione è troppo ampia e quella comunale troppo stretta, e che il tentativo di trovare un sistema organizzativo attraverso i comprensori, è fallito.

Ma è una diverso “sistema organizzativo” che interessa il ceto politico, quello di sovrapporre competenze e funzioni per consolidare una rete di sottogoverno che assicuri consenso, possa placare appetiti inesauribili di potere e faccia da controparte complice nella diffusione istituzionale del clientelismo. E poi non c’è come la molteplicità di soggetti e interlocutori, di leggi, leggine, circolari a giustificare e legittimare l’impotenza a rispettarle, che potrebbe esser simboleggiata da un uroboro, un serpente che mordendosi la coda si rigenera continuamente.

Così, non solo a fini propagandistici, si ripropone invece, secondo il sistema di governo del togliere, ma solo se significa sottrarre all’interesse generale,  l’abolizione delle province. Quegli organismo cioè, istituite dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico), tenevano conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, tanto che si erano tracciati i loro confini sulla base di indicatori territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato.

E che, ragionevolmente dunque, vennero recuperate per affidare loro quelle funzioni di pianificazione d’area vasta, in ragione della loro qualità di istituzioni rappresentative elettive di primo grado, elette direttamente dai cittadini, con funzioni valorizzate e potenziate in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola, dalla gestione dei rifiuti alla a competenze in materia di beni comuni, pensando a un contesto organizzativo efficiente: nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane, attraverso le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni.

La verità è che l’indole di questo governo, di quelli passati e probabilmente di quelli futuri, è a rendere sempre più inefficiente, incontrollabile, ingestibile, inattendibile lo Stato e le sue istituzioni, in modo da accreditare un controstato  privato, spesso uniforme o  inquinato da modelli “criminali”, che comunque fare del Bel Paese un posto invivibile per i suoi cittadini, liquidato per favorire colonizzazioni interne ed estere è già un palese delitto.

 


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