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Il suicidio è entrato nelle mie giornate come un’idea necessaria

Creato il 02 luglio 2011 da Sulromanzo

Il suicidio è entrato nelle mie giornate come un’idea necessariaDa circa una settimana sono inquieto. Le fragili sicurezze che mi accompagnano da anni sono precipitate in un limbo di confusione, trovando un incontro di timori e indecisioni. Ho scelto di raccontarlo qui, poiché Sul Romanzo si confronta con visioni di vita, destinando parte dei suoi articoli a tentativi di riflessione che certamente riguardano il mondo dei libri, ma che possono sconfinare in territori attigui. Perché c’è la crisi dell’editoria, la crisi del lavoro, il concetto di crisi compare ovunque, e poi ci sono le crisi delle singole persone, il più delle volte le percepiamo lontane, nel senso che non le conosciamo, altre volte vicine, nostre frequentazioni.

Mi sono posto un problema: potrebbe l’articolo complicare la situazione? Forse sì, però io voglio credere – so che la persona di cui sto parlando legge ogni giorno Sul Romanzo – che le mie parole mettano in moto favelle di vita, pensieri sul presente, sudore di emozioni, persuaso da anni che nonostante i problemi una delle poche follie sane possibili sia mutare il senso di paura vissuto, in qualcosa che subisca il fascino dell’imprevedibilità del futuro. Non possiamo essere certi del domani, se saremo in vita o meno, non possiamo al medesimo modo essere certi che domani sarà nero come oggi, anche se da giorni, mesi o anni il marcio ci circonda.

 

Di recente mi scrive una lunga mail Marco – il nome è di fantasia –, un amico caro, ci siamo persi un po’ negli anni, soprattutto a causa delle distanze geografiche. C’è stato un periodo della nostra vita nel quale si viveva nella stessa città, ci si incontrava di frequente, per parlare, condividere letture, fare una passeggiata assieme. Se c’è un aspetto che mi ha sempre colpito di lui è la capacità di rendere speciali le virtù della persona con cui sta parlando, non so se conoscete anime simili, sempre una parola positiva sull’altro, capacità rara. Marco è laureato con il massimo dei voti, ha fatto un dottorato all’estero e ha deciso poi di tornare in Italia, dove ha lavorato per qualche anno in campi del tutto lontani dal suo ambito di studi e continua a farlo; contratti precari di tre o sei mesi, per ognuno circa 1000 euro al mese. Una condizione famigliare delicata, il padre è deceduto una decina di anni fa per un tumore e la madre vive in un appartamento umile con una pensione di circa 700 euro, fra innumerabili vicissitudini.

Marco da tempo mi dice che non è soddisfatto, come si potrebbe essere soddisfatti dopo avere impegnato anni di studi e trovarsi con contratti che non solo non c’entrano nulla con le proprie passioni, ma che non migliorano né in quantità di tempo né per quanto concerne la retribuzione. Mi ha detto qualche settimana fa: «Mio padre è morto faticando una vita, mia madre tira avanti per tutto quello che sai, mi hanno aiutato negli studi e io ho cercato di contribuire, e ora eccomi qui, senza prospettive, senza un minimo di speranza verso il futuro». Migliaia di persone in Italia nella stessa condizione esistenziale.

C’è chi tira avanti, lotta e magari negli anni riesce a ritrovare la speranza, c’è chi invece tira avanti, lotta ma a un certo punto esplode un cortocircuito. Marco, in una toccante lettera che mi ha colpito nelle viscere, come rare volte in vita un amico è riuscito a fare, scrive: “Mi sono reso conto che ho condotto la mia intera esistenza per riscattare la fatica dei miei genitori, ritenevo che una laurea, un dottorato e un buon lavoro – che non ho trovato – dicessero qualcosa della mia famiglia, della sua forza e integrità morale, non è servito a nulla. Mio padre non lo ha visto, mia madre non sente né il caldo né il freddo dentro, la mia ex ragazza ha avuto il coraggio di dirmi che non valgo nulla quando ci siamo lasciati. Morgan, non ho motivi per andare avanti, non ne ho e non ho più la voglia di trovarne. Il suicidio è entrato nelle mie giornate come un’idea necessaria”.

 

Per uno strano motivo che da anni non mi spiego il concetto di suicidio accompagna la mia vita, avvicinandosi a me con le parole di un amico o in altri modi. Da un lato, sono preoccupato per Marco, conosco la sua moderazione nelle parole, la confidenza fra noi ha sempre imposto una schiettezza vera, quindi la sua lettera mi ha impressionato, dall’altro lato sono inquieto, perché mi sento impotente, non saranno certo le mie parole a cambiare la sua situazione, siamo tutti soli come cani di fronte alla vita. E lui è anche credente: quante discussioni abbiamo avuto sulla religione, quante volte mi ha detto che il mio approccio alla spiritualità lo indisponeva, quante sono state le occasioni nelle quali abbiamo provato a trovare il fulcro comune nonostante le diversità di vedute.

Non è malinconia la sua. Non è tristezza e neppure una fase di passaggio. Marco è stanco di vivere, una stanchezza aumentata negli anni per serissimi motivi. Una stanchezza che porta alienazione dal mondo, peggio, da se stessi. Le NON emozioni si infilano piano piano nella rassegnazione, che diviene potente, malleabile, costante.

 

Ora vi chiedo un favore, ve lo chiedo perché sono certo che internet possa servire, possa trovare la sua utilità anche in situazioni delicate come questa. Bene inteso, non vi chiedo commiserazioni. Vi chiedo di fornire motivi a Marco per mansuefare la sua stanchezza di vivere, trovare una o più ragioni per avere la forza di vedere il domani, non ritenere la speranza l’unico motivo per continuare, riprendersi un respiro senza inquietudine, decidere che andare avanti non è un’abitudine, ma, come scrivevo sopra, forse una piccola sana follia per mutare il senso di paura quotidiano alla ricerca del fascino dell’imprevedibilità del futuro.

Già da ora vi dico grazie. Marco, forza.


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