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Il super bowl del capitalismo

Creato il 09 febbraio 2016 da Albertocapece

SuperBowl5Le cose dovrebbero andare più o meno così, secondo la vulgata della teologia economica: se c’è un calo della domanda, i prezzi al consumo dovrebbero scendere e questa discesa dovrebbe far risalire la domanda innescando una serie di investimenti in grado di stimolare ulteriore crescita. Ma nulla di tutto questo sta avvenendo dimostrando che l’economia in sé non è altro che un aspetto delle relazioni e delle prospettive politiche, qualcosa di molto diverso da quella “scienza” newtoniana su cui la borghesia in ascesa volle fondare la propria legittimazione. Il costo delle materie prime a cominciare dal petrolio per finire al ferro è calato dal 30 al 50 per cento dal 2012 ad oggi trascinando con sé anche le quotazioni di molti prodotti alimentari, ma i prezzi o sono diminuiti di un’inezia o sono rimasti al palo o addirittura in qualche caso sono addirittura aumentati non appena c’è stato un timido accenno di ripresa del mercato come è accaduto per le auto.

Tenendo conto che il costo del lavoro in tutta la filiera produttiva va dal 30 al 50 per cento, i prezzi sarebbero dovuti calare di un quarto abbondante. Ma il fatto è che il capitalismo finanziario ha cambiato la concezione stessa delle cose trasformando il profitto da misura relativa all’insieme del sistema domanda – offerta, ad assoluto che non dipende più dalle condizioni reali e anzi le costruisce. La possibilità di fare denaro con il denaro aggrava così la crisi di sovrapproduzione, sia tenendo artificialmente alti i livelli manifatturieri con gabole commerciali, sia innestando politiche di riduzione salariale e di welfare la cui realizzazione richiede il passaggio a sistemi di governance oligarchica e autoritaria, prive di un sistema rappresentativo che rimane ormai solo sulla carta: uno sbocco  politico che non è solo una conseguenza della “nuova economia”, ma che ne è il presupposto e lo scopo principale.

Questo basta ad escludere qualsiasi ipotesi concreta di crescita reale non solo nel 2016 0 2017 o 2027, ma per un lungo periodo di tempo o almeno fino a che non si ribalteranno completamente le prospettive politiche, cosa per la quale occorrono probabilmente eventi catastrofici come ad esempio una guerra globale. La logica dell’economia finanziaria richiede infatti anche una mutazione antropologica e in particolare il passaggio da persona ad individuo e da cittadino a consumatore, una metamorfosi umana certo già ampiamente analizzata, ma che raggiunge sempre nuovi traguardi. Tutta questa introduzione non vuole altro che fornire una cornice all’ultimo segnale di questa regressione: durante l’ultimo superbowl  dello sport più noioso del mondo solo il 45% delle persone piazzate davanti alla televisione ha guardato la partita, mentre il resto si è dedicato a chattare, a preparare cibo, e soprattutto in misura del 23% a sorbirsi gli spot il cui costo è ormai salito alle stelle. Un record assoluto dagli anni ’70 in poi. Non sono lontani i tempi in cui la cosiddetta comunicazione commerciale prenderà la maggior parte del tempo, mentre il resto non sarà che cornice.

Del resto già adesso il tempo dedicato alla pubblicità, tende ad occupare un terzo del tempo totale dei vari programmi ed è in costante salita (10 anni fa era in media al 16% sebbene Mediaset su attestasse sul 20%) ed è straordinario come tutte le regole siano saltate senza che nessuno abbia nulla dire, ma soprattutto che esistano ancora codici di regolamentazione e autoregolamentazione, in particolare rivolte ai minori, di straordinaria ipocrisia come se la quantità stessa di comunicazione commerciale, nella sua misura abnorme, non fosse di per sé una grave distorsione educativa. Anzi per i sepolcri imbiancati che rifiutano l’adozione gay, sarebbe bene che sostenessero la naturale necessità di un padre, di una madre e di un milione di spot. Del resto tutto questo è necessario per chiudere precocemente l’orizzonte delle persone e farle essere consumatori senza coscienza di classe: non si tratta di vendere pannolini, profumi o auto, ma un unico prodotto politico.


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