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Il terrore delle mestruazioni (parte 2)

Creato il 30 agosto 2015 da Davide

Come tutte le “primizie” anche la donna “nuova” al menarca aveva un potere specialissimo e particolarmente pericoloso e per questo motivo le precauzioni non erano mai troppe. Non solo doveva essere isolata dalla società, ma anche da se stessa, attraverso la proibizione di toccarsi o grattarsi senza l’aiuto di un grattatesta, un grattaschiena e talvolta perfino un grattaocchi. Non poteva bere liquidi caldi o freddi, ma solo tiepidi e attraverso una cannuccia. Ammesso che potesse mangiare e non dovesse digiunare anche per parecchi giorni, la ragazza pubere aveva tutta una serie di divieti alimentari e doveva servirsi di uno stecco per infilzare il cibo. La carne e il sale erano proibiti oppure poteva mangiare solo cibi secchi, non solo durante il periodo del primo menarca, ma in certi casi anche per un certo tempo dopo. Se per qualche motivo si doveva spostare dalla capannuccia poteva farlo solo con particolari accorgimenti: di notte e accompagnata dalla madre, attraverso una speciale porticina nel pavimento della grande casa di legno comune dei Bella Coola della Columbia Britannica, o lasciando dietro di sé una scia di foglie per avvisare uomini, donne incinte e bimbi piccoli ed evitare di contaminarli inavvertitamente tra i Chippewa del basso Ontario. Per evitare problemi i Kaska canadesi inchiodavano la ragazza a terra con un mantello di pelle dentro la sua capanna di frasche e là lei poteva industriosamente raccogliere gli aghi di pino che le cadevano addosso per fare canestri. I Dené loro vicini invece potevano tenere la ragazza separata dagli altri per 3 o 4 anni, ma questo non la esentava dal lavoro di raccogliere la legna, proteggendo il sole dal suo sguardo con un cappuccio di pelle con una frangia che le copriva la faccia e il petto (Frazer 1990).

Presso i Koyukon di lingua athapaska i riti femminili della pubertà erano molto severi mentre ai maschi non era imposto quasi nessun rito oltre alle cerimonie per il primo animale cacciato. All’inizio del menarca la ragazza Koyukon era reclusa in una piccola capanna anche a mezzo miglio di distanza dall’abitazione della famiglia e vi restava per quasi un anno. Per il 1900 la reclusione era stata accorciata a meno di sei mesi, per il 1960 quella più lunga durò due mesi e per il 1970 una ragazza non era più reclusa lontana dalla famiglia, anche se il letto era separato da quello degli altri da una coperta o un altro divisorio. Durante questo periodo ella aveva, tra l’altro, l’obbligo di indossare un cappuccio mestruale e dei guanti; dopo questo periodo iniziale le donne continuavano a coprirsi la testa, anche se negli anni 1970 solo con un fazzoletto, e a prendere sentieri separati durante ciascun periodo mestruale finché non raggiungevano la menopausa (McFayden 1981:590-91).

Tra i Tlingit o Kolosh dell’Alaska quando una ragazza aveva i primi segni di pubertà la chiudevano in una capannuccia o in una gabbia completamente chiusa, tranne che per una finestrella per darle aria. In questa abitazione sudicia e oscura doveva restare per un anno intero senza fuoco, senza far moto e senza compagnia. Solo la madre e una schiava potevano venire a portarle il nutrimento. Le mettevano il cibo vicino alla finestrella e doveva bere da un osso dell’ala dell’aquila calva. Il tempo della sua reclusione venne poi ridotto in epoca più moderna a sei mesi o a tre o anche meno. La ragazza doveva portare una specie di cappello a larghe falde perché il suo sguardo non andasse a profanare il cielo; la si stimava indegna di essere toccata dai raggi del sole e si credeva che il suo sguardo avrebbe dato il malocchio a un cacciatore, a un pescatore o a un giocatore, avrebbe pietrificato ogni cosa e prodotto altre calamità. Alla fine della sua reclusione si bruciavano i suoi vestiti vecchi, se ne facevano di nuovi e si celebrava una festa nella quale le si tagliava nel labbro inferiore una fenditura parallela alla bocca e vi si inseriva un pezzo di legno o una conchiglia per tenerla aperta (Frazer 1990).

I Koniag, una popolazione eschimese dell’Alaska molto influenzati dalla cultura delle tribù “principesche” della Costa Nordovest, mettevano la ragazza carponi in una capannuccia per sei mesi e poi per altri sei mesi in una capanna un po’ più grande per farle drizzare la schiena. Molte famiglie aristocratiche della Costa Nordovest segregavano la ragazza pubere in casa anche per vari anni, accucciata in uno stanzino, nella più completa inattività. Come le principesse cinesi, anche queste ragazze davano prova di grande nobiltà e ricchezza proprio per l’ incapacità fisica a cui erano ridotte.

Un mito Kwakiutl ci apre però uno spiraglio sulle idee delle casate della Costa Nordovest. Una fanciulla di nome Colei Che Sarà Principessa, che abitava nella parte settentrionale dell’isoletta di Kingcome, poco dopo la pubertà aveva l’abitudine di correre per i boschi senza curarsi del pericolo di essere rapita dalla creatura nota come Dzonokwa della foresta, una gigantessa cannibale dal viso scavato, gli occhi incassati, la bocca protesa in avanti nel grido “uh-uh”, ed enormi seni penduli. Un giorno incontrò l’orchessa, che la invitò a casa sua, balbettando e ammirò le sopracciglia depilate della ragazza. Questa le promise di far bella anche lei e le chiese in cambio le vesti magiche, che erano gli abiti della pubertà della Dzonokwa. Giunte al villaggio di suo padre con un trucco la ragazza fece uccidere l’orchessa dal suo guerriero, poi tutto il villaggio si recò a saccheggiare le enormi ricchezze della Dzonokwa, tra cui c’era una maschera, che prese il padre della fanciulla, chiamata “maschera col nido della datrice d’incubi”, che si trova ora nel Museo Americano di Storia Naturale. Da allora in poi le ragazze rivestono i paramenti di lana di capra selvatica della Dzonokwa (i nativi americani non scoprirono mai l’addomesticamento degli ovini e bovini prima dell’arrivo degli europei). Questo mito mette in rilievo il legame fra il personaggio Dzonokwa e le ricchezze accumulate o distribuite, ma anche la connessione fra la Dzonokwa e le ragazze puberi, per spiegare come mai i loro paramenti rituali imitino i suoi. Questi paramenti consistono in pezzi di corteccia e in bandelle in lana di capra selvatica, che stringono il corpo della giovane impedendole praticamente di muoversi. Esiste un testo che descrive una principessa in questa condizione; essa porta allora un nome di circostanza il cui significato è:” Seduta Immobile Nella Casa”. Infatti se ne sta accoccolata, immobile, con le ginocchia premute contro il petto. Il suo pasto quotidiano si riduce a quattro pezzetti di salmone secco, appena unti d’olio, che la sciamana che si cura di lei le introduce fra le labbra; non ha altra bevanda se non un po’ d’acqua che aspira attraverso un tubo d’osso. Perché la bocca non le si allarghi, deve aprirla il meno possibile e quando beve si deve accontentare di quattro succhiate per non ingrassare; solo più tardi le viene concesso di mangiare masticando lentamente. Finché dura la reclusione, non può lavarsi che ogni quattro giorni. Dopo un mese viene liberata dalle bandelle, le si depilano i sopraccigli e le si tagliano i capelli. La sciamana depone le bandelle sui rami di un tasso. Se il padre possiede un rame (uno scudo di rame senza alcun funzione difensiva ma solo simbolo di grande ricchezza), pone questo prezioso oggetto alla destra della figlia affinché, più tardi, lei ottenga facilmente quelli che porterà sul dorso in dote al futuro marito. Il canto rituale della giovane pubere è diretto ai futuri pretendenti:” Tenetevi pronti, o figli dei capi di tutte le tribù! Eccomi; di mio marito, mio padre farà un gran capo, perché io stessa sono una padrona…Io, la padrona, vengo per essere la vostra sposa, o principi dei capotribù! Io siedo sui ‘rami’ (gli scudi di rame) e posseggo titoli e privilegi che mio padre conferirà al mio futuro sposo”. Queste usanze chiariscono il motivo per cui Dzonokwa trasmette alle ragazze puberi il costume rituale che originariamente era il suo. Miti e riti ci hanno rivelato due aspetti della personalità dell’orchessa. E’ innanzitutto una rapitrice di bambini, ma è anche la detentrice e dispensatrice dei beni destinati al potlatch, fra i quali i “rami” (scudi di rame) figurano al primo posto. Quando raggiunge l’età matrimoniale, la fanciulla diventa comparabile a Dzonokwa, e ciò a doppio titolo: offre i ‘rami’ al futuro marito e gli rapisce in anticipo i figli che nasceranno dalla loro unione (Lèvi-Strauss 1985). Infatti la donne Kwakiutl avevano diritto di portarsi via i figli e in generale avevano matrimoni multipli, con molti mariti successivi, cosa che accresceva l’onore e la potenza della casata. Il marito, se voleva tenere con sé la moglie dopo circa tre anni, doveva pagare per il privilegio, se lei acconsentiva. (segue)

Riferimenti

Frazer James, Il ramo d’oro, Torino.1990.

Lèvi-Strauss, C. La via delle maschere, Torino 1985.

McFayden Clark A., Koyukon, Handbook of North American Indians, vol. 6, Washington, D. C. 1981, p. 590-591


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