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Il tutto tutto, niente niente di Stephen Hawking – La recensione

Creato il 12 gennaio 2015 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Il giudizio di Massimo Padoin

Summary:

Riuscire a rendere la grandezza del tutto attraverso la piccolezza dell’essere non è un’operazione semplice, anzi difficilissima, perché riuscire a trovare l’equilibrio tra le proporzioni non è cosa immediata, ma necessita della capacità di condensare un racconto che tenga costantemente lo spettatore di fronte a un rapporto discorsivo tra narrazione e significato quasi fossero antagonisti. La teoria del tutto inevitabilmente non poteva che affrontare il tema sotto questo punto di vista, la storia del celebre astrofisico Stephen Hawking diviene esempio concreto di due moti contrastanti. Il primo è quello, più evidente, di una lenta e progressiva inabilità fisica dovuta da una malattia del motoneurone che lo costringerà alla paralisi sulla sedia rotelle, affianco a questo che ne mostra l’inesorabile caducità del corpo umano, invece troviamo una persona in grado di espandere il proprio pensiero a dispetto di ogni tipo di handicap fisico. La formulazione di gran parte delle proprie teorie avviene proprio dal momento in cui la malattia inizia il suo incontrovertibile corso, in particolare la termodinamica dei buchi neri e lo stato di Hartle-Hawking sono i concetti dell’astrofisico che sommariamente sono esplicati lungo la pellicola.

La nascita dell’universo, anzi in particolare la nascita del tempo, sono il vero trait d’union dell’intera pellicola, tutta l’esistenza di Stephen Hawking si condensa nel tempo, proprio lui a cui avevano stimato un massimo di due anni di vita dall’inizio della malattia al contrario è riuscito a proseguire i propri studi, ma soprattutto a realizzare una vita normale, sposandosi e diventare padre di tre figli. Proprio da un libro autobiografico La teoria del tutto è tratto, ma non di Stephen ma quello della ex-moglie, Jane Hawking, che per gran parte della sua vita lo ha accudito diventandone di fatto insostituibile colonna portante dell’esistenza privata. Una donna che ha accettato di restare nell’ombra per riuscire a garantire il più possibile una vita dignitosa al marito.

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Il punto di vista di Jane nel corso della vicenda assume un ruolo sempre più di rilievo, fino a diventare la vera protagonista nella seconda parte. Le difficoltà di una donna che ha sacrificato gran parte della sua vita per amore iniziano a pesare, la scelte fatte in passato cominciano a farla vacillare, anche se a non esser mai messa da parte è la determinazione con cui persegue il proprio ruolo.

Proprio sotto questo progressivo cambiamento però La teoria del tutto mostra i limiti maggiori, l’indecisione sul cosa realmente essere. Ha il sicuro pregio di rifiutare l’anonima aura di biopic, ma allo stesso è innegabile che la ricerca di diverse vie narrative in qualche modo le porta ad accavallarsi l’una sull’altra. Perché se il dramma di una persona affetta da handicap rappresenta il nucleo centrale di tutta la prima parte, via via tale elemento finisce sullo sfondo per diventare il ritratto di una donna in cerca di un equilibrio della sua vita. La stessa importanza delle teorie di Hawking è molto limitata, in cui ad essere esplicate sono solo alcune delle linee principali di pensiero dell’astrofisico. Ovvio nessuno si aspettava un trattato sull’espansività dell’universo, ma queste spesso appaiono troppo marginali nell’economia del narrato, soprattutto considerando la dedizione che Stephen Hawking ha donato ai propri studi.

Sotto questo punto di vista il vero riverbero delle teorie di Stephen si hanno nella raffigurazione del conflitto proprio con Jane, sulla possibilità dell’esistenza di un Dio in grado di dare inizio al tempo e quindi all’universo. E la presa di coscienza di ciò passa attraverso un atto d’amore, che è sia fine che inizio di tutto come la vita di due persone e la genesi di quel che conosciamo e non. In questo c’è l’unione tra l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo, arrivando ad una sintesi che però in La teoria del tutto è troppo programmatica e artificiale per emozionare veramente, soprattutto per colpa anche di una serie di discutibili scelte stilistiche che retoricamente cercano di ricordarci l’importanza del tempo nel vissuto umano. La pellicola di James Marsh in questo cerca di raggiungere una sintesi non solo su quello che dicevamo all’inizio dell’articolo, ma anche attraverso differenti strade narrative ma senza tenere conto che ognuna di esse inizi a perder forza via via nella prosecuzione del racconto.

Un film che rimane quasi a metà quando in realtà avrebbe dovuto essere, come il titolo stesso suggerisce, un tutto.

di Massimo Padoin per Oggialcinema.net


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