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Il volemosebene in versione corporate

Da Gynepraio @valeria_fiore

Giorni fa lessi questo post, con il quale sono in gran parte d’accordo. Sono felice di aver avuto una adolescenza Internet free: la prima connessione in casa mia arrivò nel 1999 ed io usavo soprattutto l’email, visto che all’epoca avevo una sorta di storia a distanza con un ragazzo che stava trascorrendo un anno di liceo negli USA. Del resto non erano ancora arrivati i servizi salvadenaro (e-commerce, e-booking), né quelli ludico-intrattenitivi (downloading, blog e social network). Con l’email potevo essere grafomane, e scrivere cose old-fashioned come le lettere: del resto, ero una studentessa secchiona di Liceo Classico. Ancora mi mangio le mani e maledìco il mio snobismo, se penso a che presentazione memorabile avrei messo insieme durante l’orale di maturità, se avessi saputo usare Powerpoint o Keynote e fossi stata meno retrò. Insomma, il web per me è arrivato proprio nel momento giusto: sono anche riuscita per un paio d’anni a fare gli squilli e mandare sms con le k al posto delle ch. Non mi sono persa niente, insomma.

Penso però che se fossi nata 10 anni prima alcune cose sarebbero andate meglio: il mio conto corrente, ad esempio. Parlo da privilegiata, che non è stata disoccupata un solo giorno, mai stata vittima degli stage non pagati, dei contratti a progetto, dei finti rinnovi e di tutti quegli abusi con cui altri miei coetanei hanno fatto già i conti. Premetto che non voglio lamentarmi della gamba sana, ma semplicemente riferire quanto ho osservato in 10 (Cristo, dieci, veramente?) anni di lavoro dipendente.

Non è raro che alcune persone, certamente animate da sincero altruismo, mi chiedano com’è possibile che io (con le mie doti! Con il mio percorso formativo! Con la mia esperienza pregressa!) non sia diventata una top manager, e continui ad avere un ruolo e una retribuzione modesti (NDR con modesti intendiamo sufficienti a vivere dignitosamente ed entro la soglia della povertà, ma non a fare piani di lungo periodo o fare fronte a gravi imprevisti). Che domanda candidamente fuori luogo, no? E’ come andare da una che corre 10 km al giorno, si nutre di insalata scondita e chiederle come mai resta grassa come un ippopotamo

Comunque non mi arrabbio. Questa domanda non ha l’obiettivo di ferirmi: me l’hanno posta mia madre e mio padre, voi-sapete-chi, i genitori di alcuni miei amici. Che cos’hanno in comune queste persone? Che mi vogliono bene? Che vorrebbero vedermi ricca, realizzata e rampante come una comparsa di “Wall Street” nel 1987?

volemose bene in versione corporate

Ve lo dico io cos’hanno in comune: non appartengono alla mia generazione, e hanno quindi un’idea parziale e distorta delle dinamiche in atto. Non capiscono com’è possibile che un soggetto con un percorso di studi manageriale, altamente informatizzato, che parla perfettamente due lingue straniere e ha soggiornato all’estero 2 anni sia inquadrato come impiegato e abbia uno stipendio annuale come il mio (guardatevi queste statistiche, per curiosità).

Io ho avuto diversi superiori nella mia vita professionale che erano solo diplomati, o laureati in una facoltà non correlata al ruolo che ricoprivano*, parlavano un inglese scolastico, non sapevano utilizzare Excel né un gestionale, ignoravano concetti di ragioneria o economia aziendale. Queste persone erano dei funzionari, dei quadri, dei dirigenti, e lo erano magari diventati a 30 anni*. Alcuni di essi erano anche in gamba, e avevano colmato le lacune di cui sopra con l’esperienza, l’intuito, la costanza: perché sì, si può fare.

Bene, io sono pronta a scommettere qualsiasi cosa che, se queste stesse persone fossero sottoposte a colloquio per il mio ruolo in questo preciso momento storico, verrebbero istantaneamente scartate. Mi spingo a dire di più: i loro curriculum non arriverebbero nemmeno alla prima scrematura. Oggi, nessuno può permettersi il lusso di studiare Giurisprudenza, o Scienze Politiche, e reinventarsi Product Manager. Nessuno può condurre una trattativa in inglese maccheronico.

Sono in buona compagnia: i miei coetanei con un profilo simile al mio, o anche superiore, non sono messi diversamente. Anche quelli che -a differenza mia- ci credono tanto, ci sperano e hanno anche l’atteggiamento giusto/propositivo/energico/instancabile (questa cosa, sia inteso, non mi consola manco un po’).

Ho spesso pensato che molto di questo insuccesso professionale dipendesse da qualche lacuna nel mio profilo o dal mio atteggiamento: sicuramente non lecco il culo, non sono servile, sono riottosa e polemica, fatico a identificarmi nelle organizzazioni. Soprattutto non battaglio e non sgomito.

Ma, ve lo giuro, io non ero così. Sono un’agonista venduta al volemosebene in versione corporate: compreso che la situazione è una piscina di guano in cui nuotiamo tutti-belli-e-brutti, a questo punto basta con quest’ansia di massimizzare gli sforzi, anzi cerchiamo di essere tutti amici nella nostra malasorte. Un passo indietro, per una che ucciderebbe a sangue freddo per vincere una partita di Taboo, no? Ma la competitività si nutre di obiettivi e incentivi: occorrono segni tangibili che differenzino il migliore dagli altri. Non ci sono più i meccanismi per alimentare la competitività interna aziendale, che, se gestita bene, non crea astio ma stimola tutti (non solo gli addetti alle vendite con i loro target mensili), a tutti i livelli, a mettersi al lavoro.

Il risultato di un sistema poco premiante per bravi e non bravi è che anche le persone potenzialmente più “sportive” -quindi più economicamente profittevoli- dopo qualche anno si stancano di cercare di emergere. Coloro per i quali non è fattibile trasferirsi all’estero, iniziano un percorso di ripiegamento su di sé: il lavoro, specialmente se dipendente, diventa solo un mestiere

Allora invecchiano precocemente ed elaborano una exit strategy, esattamente come fanno le persone prossime al pensionamento, che immaginano la loro vita quando potranno finalmente fare le cose che hanno sempre rimandato. Diversificano gli interessi, perché la soddisfazione che manca dal lavoro deve pur arrivare da altre fonti. Spendono le loro risorse migliori (passione, intelligenza, tempo libero) ad altre attività: il tennis, le vacanze, il cake design, il marito, i figli, il blog.

Il problema è che queste persone non stanno andando in pensione, ma hanno dinanzi a sé almeno altri 40 anni di lavoro e in pensione, probabilmente, non ci andranno mai.

*i top manager degli anni ’80, invece, sostengono tutti di essere diventati dirigenti a 25 anni. Parlate con uno qualsiasi di loro, e vi dirà che nel 198equalcosa ha vinto una qualche targa commemorativa di Confindustria o Unione Industriale o Camera di Commercio o qualsiasi altri ente per essere stato “il più giovane dirigente d’Italia”. E’ pazzesco, ma ve lo giuro, è così.


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