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Il volto della Medusa: Il cinema di Nikos Koundouros (seconda parte)

Creato il 05 aprile 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Su uno modello affine al lavoro precedente si pone l’opera successiva, To Potami (Il Fiume), che vince il Premio per la Regia in occasione della Prima Settimana del Cinema Greco a Salonicco e che esplicita, fin dal suo esordio, l’elemento fiabesco in nuce al precedente percorso del cineasta. La presenza costante di un fiume collega quattro racconti (su una sceneggiatura di Iakovos Kabanellis e dello stesso Koundouros), tutti centrati sul tema dell’uomo che trasgredisce le regole comunitarie. Nella prima storia, tre contadini rubano una grande croce d’oro da una chiesa e la loro avidità li porta alla rovina, come nelle opere di Bunũel. Nella seconda, un giovane rapisce una ragazza, contro la volontà dei genitori di lei, e dopo un’insostenibile angoscia sono costretti ad attraversare un campo minato e ottengono il perdono dell’anziano padre. Nella terza, un soldato, il meno audace, di un avamposto, in un momento di coraggio prosegue verso la terra di nessuno, mentre dalla parte opposta un soldato ugualmente solitario, escluso dal suo gruppo, è sceso nelle stesso fiume a rinfrescarsi. I due nemici si incontrano nel mezzo del fiume, carichi della loro ostilità senza volto. Il soldato greco prende l’arma per uccidere il suo nemico, lo disarma, però, la sua nudità, e l’altro profitta dell’occasione per ucciderlo. Nella quarta, un pastore di sette anni, invece di denunciare la fuga di casa di una bambina di sei anni, la nasconde e si dedica a lei, mentre la piccola, prendendo anticipatamente coscienza della propria femminilità, lo incanta e lo seduce. All’elemento fiabesco, proprio della parabola, si congiunge il senso grottesco della storia, ad attestare il tema dello scontro tra uomo e ambiente sociale e, meglio, sul loro rapporto dialettico di mutuo condizionamento. Il paesaggio greco della Macedonia scandisce grevi sequenze cariche di silenzio e l’impiego durevole della tecnica del piano-sequenza (resa celebre fino allo sfinimento, assai dopo, dall’ungherese Miklos Jancso) costringe i personaggi alla soffocazione del loro tragico destino. Lo stile di Koundouros si fa ieratico e austero: drammaticità soffocata, progressione parabolica, funzione del paesaggio come correlativo oggettivo, estetismo laconico e stringato. Ad un grado sotterraneo vibra l’ideologia antimilitarista del film che, in fondo, funge da allacciamento anaforico tra le quattro storie che finiscono per convergere nello straordinario finale. La Finos Film,  però, non approva il montaggio di Koundouros e chiede al regista di ricomporlo in modo rigorosamente lineare e con assoluta indipendenza fra le diverse storie. Koundouros si rifiuta e il nuovo montaggio viene affidato a Nikos Petropoulakis. Al Festival di Salonicco circolano così entrambe le edizioni, ma numerose proteste e ricorsi sortirono il solo effetto che il film, dopo la sua premiazione, non entrò nei circuiti di distribuzione che molto più tardi e quasi clandestinamente, e la copia autentica col montaggio di Koundouros scomparve.

Tre cortometraggi e tre anni attendono Koundouros prima di poter girare Mikres Afrodites (Giovani Afroditi/Giovani Prede). Il regista amplia e corregge il tema dell’ultima storia de Oi Paranomoi, e si ispira vagamente al “Dafni e Cloe” di Longo Sofista, anticipatore del romanzo moderno e autore di un’opera erotica e sensuale le cui suggestioni erano state già reinterpretate nella musica di Ravel e nella pittura di Chagall. Nel trasportare la vicenda dei due pastorelli, in una lontananza senza tempo, Koundouros trasforma il quadretto di genere a lieto fine (con l’agnizione dei due ragazzi e il loro matrimonio) in una favola sui misteri dell’amore dal finale tragico: Dafni scopre l’amata Cloe tra le braccia di un altro e si suicida. In un primo tempo, il regista avrebbe voluto girare il film in Africa, per avere il vantaggio dei corpi neri e dell’ambiente non ancora corrotto, ma alla fine venne ambientato nella Grecia del 200 a.C., trasformando i paesaggi dell’Attica e di Mitilene in elementi proteiformi capaci, con disarmante purezza, di rendere il senso primitivo del mito. L’estetica eliotiana di Koundouros rappresenta il pregio dell’opera e la condizione per la quale si realizza un modello archetipale proprio del tema classico di Longo Sofista. Il film è propriamente raccontato per immagini, colmo di uno straordinario simbolismo, splendidamente fotografato in bianco e nero. In fondo la storia si articola proprio attraverso le immagini che non per il dialogo, minimo e talvolta carente per alcuni squilibri della sceneggiatura, giungendo a divenire un’opera sull’isolamento, sull’ipnosi del mare profondo, sulla ripetizione infinita del desiderio. In relazione al romanzo di Longo Sofista, il cui tema è il risveglio sessuale, il film è più oscuro e drammatico in quanto rovescia la traccia narrativa per descrivere la straziante perdita dell’innocenza e la spaventosa oscurità della nostalgia. Ciò spiega perché Koundouros si sia riferito a questo suo lavoro come a un film di disperazione e lo abbia sostenuto come “un film ideologico sul nulla”, certamente mutuando dalla situazione politica greca – e qui è ancora indubitabile un nascosto riferimento politico – la perdita di innocenza dei giovani protagonisti, come pure il carattere eminentemente idealistico della propria visione che viene marcato dall’ultima scena del film – il pastorello nel vedere la sua amata, per amore della quale ha abbandonato i compagni, tra le braccia del suo amico che è riuscito a conquistarla, si getta nel mare e vi scompare insieme ai suoi simboli -, scena che per il modo magistrale in cui è stata girata colloca Koundouros tra i maggiori esteti del cinema mondiale. Il film ottiene grande successo ed enorme riconoscimento sul piano internazionale, vincendo l’Orso d’Oro e il Premio della Critica al Festival di Berlino del 1963. Ma con la fama giungono anche i problemi: impone autoritativamente – col suo difficile carattere – le proprie idee ai suoi sceneggiatori (tra cui anche lo scrittore Vassilis Vassilikos), intervenendo radicalmente in sede di sceneggiatura e dialoghi, si occupa personalmente e rifiutando qualunque altro intervento del montaggio e della scenografia, non accetta compromessi sulla produzione e sui tempi di realizzazione della sua opera. Koundouros è un uomo solitario e un misantropo, che fugge gli uomini con lo stesso amore con cui, nel fondo della propria anima, li ama.

Il volto della Medusa: Il cinema di Nikos Koundouros (seconda parte)

A partire dal 1966 Koundouros (che tra il ’66 e il ’67 risiede in Grecia e che si trasferisce in esilio volontario a Roma per ragioni politiche durante la dittatura dei colonnelli), elaborò e terminò un film in bianco e nero con il titolo To Prosopo Tis Medousas (Il Volto della Medusa), mutato poi in Vortex (Vortice) (l’elaborazione tecnica fu fatta a Parigi nel 1971). Koundouros parte da una storia ad intreccio erotico-criminoso per un’indagine psicologica sul comportamento sessuale dell’uomo e della donna, attraverso la ricerca delle cause che spingono un fratello ad uccidere il fratello al di là del motivo più banale della gelosia amorosa. Per narrare la tragica emarginazione psichica e sociale dei suoi eroi, li isola in una casa-roccia e porta ai limiti estremi il processo riduttivo verso forme puramente geometriche, plastiche e cinetiche, e le antitesi del bianco e nero. Più tardi trasformerà radicalmente questo lavoro intervenendo in modo disarticolato sulla forma e praticando tagli nel suo vecchio materiale così da porre l’opera sotto l’insegna di un preciso significato psicanalitico.   Attraverso una tecnica di ripresa ingannevole, che anticipa di alcuni anni quel che poi farà Alejandro Jodorowsky con “La montagna sacra” -, Koundouros interviene nelle scene con la macchina da presa fornendo allo spettatore la coscienza coatta della finzione cinematografica, smitizzando la tentazione mitica della sua opera e così invitando lo spettatore ad una fruizione dialetticamente partecipata e critica. Il pretesto poliziesco, dilatato nella propria giustificazione attraverso il delirante strumento del metacinema, assurge ad una connotazione traslata col fine di cogliere analiticamente i percorsi interiori – pure nella loro natura egoistica e hobbesiana – dell’uomo e della donna. Non per un caso il nome della donna è Astarte (essere panteistico, divinità fenicia comune a tutti i popoli semitici, penetrata poi nel mondo greco-romano, che rappresenta la dea primigenia, la Terra Madre, progenitrice di tutti gli esseri viventi, e il cui culto comprendeva anche la prostituzione sacra), e Koundouros così infrange il senso elementare della logica consegnando la propria ricerca ad una religiosità primitiva, paganeggiante, libertaria. Nel film, la sequenza della prassi erotica – per opera della donna – subisce molteplici ripetizioni (nel senso che la ripetizione ha per la filosofia deleuziana) e il regista espone  una sessualità apocalittica di minorenni come eroine del sesso che davvero ha pochi precedenti. To Prosopo Tis Medousas è un’opera del Koundouros più radicale, eccentrico, visionario, non riconciliato. Lavoro di sperimentazione esistenzialistica, il film – che anticipa certe opere di Polanski, Jodorowsky ed Arrabal – è ascrivibile tra i primi tentativi di cinema panico: decifrazione altamente simbolica, immagini di nudo frontale maschile e femminile, immagini bizzarre, architettura scenica mistica e inquietante. Quest’opera priva di morale – quantomeno nel senso di un assoluto antiplatonismo di Koundouros – sulle attitudini autolesioniste dell’uomo e della donna, col suo ampio apparato di connotazioni filosofiche, che ha svolto un sotterraneo ruolo di anticipo sui tempi, ha finito per cadere nel dimenticatoio – ignota ed oscura – col consenso colpevole di certa meschina critica che non ha saputo rubricarla tra le grandi opere della storia del cinema. Del resto, la stessa modernità delle scene sessuali divenne sostegno per le varie censure che proibirono la proiezione del film nelle sale pubbliche. Così solo le cineteche e i cineclub proiettarono Vortex e il pubblico ha avuto una sola occasione di vederlo nell’Anti-Festival di Salonicco nel 1977, in proiezione non ufficiale.

Oltre alla realizzazione di Vortex, Koundouros, negli anni della dittatura, autoesiliato a Parigi e a Londra, si occupò, a livello professionistico, della trasposizione sullo schermo della tragedia antica, e precisamente delll’Antigone di Sofocle, e dello studio dei costumi e della scenografia, che costituisce l’unica sua attività notevole di questo periodo. La sceneggiatura di quest’opera offriva a Koundouros l’occasione di esprimersi liberamente in termini politici, ma per motivi indipendenti dalla sua volontà la realizzazione dell’opera venne continuamente rimandata. Ritornando nella Grecia oramai libera grazie al mutamento radicale della situazione politica, Koundouros sente il dovere di elaborare una testimonianza e una protesta sulla vita politica greca. Nel 1975 gira così Ta Tragoudia Tis Fotias (Le Canzoni del Fuoco). Si tratta di una composizione magistralmente orchestrata di documentari sulla reazione entusiastica del popolo greco alla caduta del regime dei colonnelli, in contrappunto con la tragedia di Cipro. Fotografando a colori, con l’aiuto di eccezionali operatori del cinema greco, le manifestazioni che ebbero luogo allo stadio Karaiskaki, al Panatenaico e sulle strade di Atene, subito dopo la fine della dittatura, Koundouros ascrive a vantaggio del cinema greco un importantissimo documento – che ancora oggi possiede un irrinunciabile valore storico -, ritraendo e serbando a futura memoria le irripetibili manifestazioni del popolo che poteva finalmente esprimersi con libertà. Le voci di cantanti che interpretano le composizioni musico-politiche di numerosi autori (fra tutti, il geniale Theodorakis) fomentano la libera espressività della gente comune, e Koundouros partecipa all’evento filmando un’opera che non ha precedenti: un’orgia di colori, autenticamente pop, e il punto di non ritorno del libero movimento degli spiriti e dei corpi. Ma il regista non si limita al folklore della testimonianza, sebbene in ragione della storia: all’entusiasmo si oppone il momento cinematografico più intenso, la descrizione delle torture che un eroe ha subito da parte della Polizia Militare Greca. Qui Koundouros adopera un criterio estetico che coniuga genio e semplicità, delegando la descrizione del martirio a Christos Reklitis così da non sottrarre autenticità al film ed anzi mostrando le trasformazioni del dolore in sofferenza metafisica, con le sue mostruose conseguenze.

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Nel 1978, gli spettatori del Festival di Salonicco ricevono una violenta commozione politica e umana dal film di Koundouros 1922 (1922). Un libero adattamento dal famoso romanzo autobiografico di Ilias Venezis Numero 31328, che narra della tortuosa marcia di un gruppo di prigionieri greci dalla loro città Aivali e attraverso il deserto fino ai campi di lavoro nelle profondità dell’Asia Minore, immediatamente dopo il disastro. Quelli che riusciranno a sopravvivere “larve del loro precedente essere” saranno vergogna e un’aspra, inascoltata critica per i potenti del mondo. Koundouros, con l’aiuto in sede di sceneggiatura dello scrittore Stratis Karras, ha elaborato un testo la cui economia è rivolta alla tragedia contemporanea che, al contrario della classica, demitizza l’uomo che diviene così schiavo d’un altro uomo, l’amico ora traditore. Il racconto incomincia con l’introduzione delle persone e del luogo della tragedia: la ricca terra eolica, intenta alla cultura, alla filosofia e alla fede negli ideali umani (e qui Koundouros mostra come il selvaggio comportamento degli uomini che guidano le “squadre della morte bianca” è conseguenza del fanatismo religioso e bellico, e ancora e soprattutto dell’incosciente scontro di classe tra i greci – classe borghese del luogo – e i turchi – poveri contadini e proletari). L’estetica di Koundouros è puramente greca: ricca fecondità di sfumature psicologiche, scenografia reminiscente con geniale accostamento oppositivo tra gli interni e il senso claustrofobico degli esterni con l’iterazione ossessiva della marcia degli schiavi nel paesaggio desertico, verso la morte. Opera sulla tragedia moderna che demitizza e pone in crisi il modello umanistico, il mito della civiltà, il governo umano sui destini della natura, il film narra della memoria e del mistero della speranza degli uomini. Tuttavia il lavoro di Koundouros non è né un trattato storico o descrittivo, coi limiti della pedissequa illustrazione, né una ricostruzione, coi limiti di un’ingannevole fedeltà. Al contrario, sebbene una delle maggiori qualità sia l’affresco realistico e l’evocazione d’atmosfera del periodo, il film richiama alla memoria una ballata sull’orrore della violenza e sul destino di morte e di sradicamento di migliaia di greci costretti a lasciare le coste ioniche che avevano abitato per secoli. L’opera di Koundouros ha raccolto una tempesta di giudizi negativi da parte della stampa nazionale, a causa del suo sciovinismo. Questo attacco ha creato un clima politico di pressione diplomatica con lo scopo di ottenere il divieto di proiezione, evitato in grazia della protesta degli intellettuali greci a difesa del film, premiato poi per la miglior regia al Festival del Cinema di Cape Town. Del resto l’opera, distinta pure per le sue eminenti qualità pittoriche, poneva il serissimo problema storico dello sterminio dei cristiani in Anatolia che, da quattro milioni, tra armeni, greci e assiri, furono ridotti a meno di trecentomila; una catastrofe che le èlite greche hanno sottaciuto e quasi negato per non interrompere le relazioni con il regime turco.

L’ultimo, contrastato lavoro di Koundouros, pone il cineasta in una lunga pausa di sette anni che viene interrotta, nel 1985, con Bordelo (Bordello). Si narra della storia di tredici prostitute che giungono da Marsiglia a Creta nel 1897 e del loro bordello nel quale si incontrano i membri delle tre potenze occupanti il territorio, come degli uomini della resistenza che lottano per la liberazione dai turchi. Vendette, crudeltà, accordi segreti, delazioni: il bordello diviene lo scenario concentrazionario di una spietata diplomazia clandestina. Koundouros torna nuovamente alla storia del suo paese ed ai suoi paludamenti politici, e benché la sua opera abbia numerosi pregi – di stile, tra scenografie geometriche e decadenti – si distingue una dolente carenza di ispirazione, surrogata da un gusto calligrafico poco affine al suo lavoro, dagli eccessi alessandrini della messinscena, dall’elemento erotico che lungi dal consueto ruolo anaforico assume un trito aspetto esornativo e, in fondo, scostante dal problema storico della traccia narrativa. Simili elementi, aggravati, saturano il lavoro successivo di Koundouros, il suo peggiore, Byron, I Balada Enos Daimonismenou (Byron, Ballata per un Demone) del 1992, altri sette anni dal precedente. Il film narra gli ultimi mesi di Lord Byron a Missolungi. Il poeta, considerato un martire della libertà nazionale, viene rappresentato col volto pallido, intenso ma greve, ai limiti della malattia e della follia. Dopo un esordio seducente, con Byron in un paesaggio frastagliato tra paludi nebbiose, l’eco dei cannoni, personaggi avvolti in pelli di capra – dunque in un’asprezza che contrasta con la Grecia dei sogni del poeta -, la storia si smarrisce inesorabilmente. Uno sguardo fastidiosamente pretenzioso volgarizza le immagini, una sceneggiatura improbabile e stereotipata, incapace di comprendere l’esistenza di un autore eversivo e tormentato come Byron, il cedimento al mito di uno sciocca oscurità esistenziale che non coglie le ragioni profonde del romanticismo byroniano, cinico e incantato, precursore della crisi del mondo moderno. Anche il tema socialmente religioso della ricerca di un vero Dio, contro il surrogato di una coatta importazione occidentale – che pure avrebbe consentito una visione originale – viene in modo trascurabile maturato come una traccia criptica e insondabile. Le ragioni sottrattive di quest’opera sono dunque da imputare al profondo, reale contrasto tra la personalità di Byron e gli interessi e le esperienze dello stesso Koundouros.

1922

Dopo la parentesi televisiva del 1994 con una pregevole Antigone (successiva all’Ifigenia in Tauride del 1991), Koundouros torna dietro la macchina da presa per il suo – ad oggi – ultimo lavoro per il cinema, Oi Fotografoi (I Fotografi). L’opera svolge il tema della responsabilità morale individuale di fronte agli altri. Koundouros adopera l’Antigone sofoclea – sviluppando dunque il precedente lavoro per la televisione – come pretesto per creare una suggestiva allegoria politica. Si narra della cronaca, ad opera di alcuni giornalisti, delle vicende di un paese musulmano in ostaggio alla folle ideologia di un fondamentalista. Antigone diviene qui la fotografa Sarah, in cerca della verità con un compagno di strada greco, anch’egli fotografo. Opera sulla verità e sulla finzione, sulla finzione della verità iconica – per quanto potrebbero suggerire gli studi, ad esempio, di Jean Baudrillard – e infine sul senso dello di una verità, della verità. Koundouros confonde intenzionalmente, con un raffinato disegno di elaborazione creativa e di rappresentazione, il piano della tragedia antica con i recenti turbamenti della storia, così che si ripeta quel mito demitizzato dall’ossessiva reiterazione della storia medesima; mantiene uno schema lento e teatrale, colmo di silenzio e ieraticizzato dagli echi del coro. Il limite del lavoro di Koundouros, pressoché fatale, è il  fin troppo articolato proposito di modernizzazione del dramma di Sofocle che rischia di esemplificarne la complessità morale per sostenerne gli intrecci della vicenda storica attuale dei musulmani in lotta con l’occidente capitalistico, piuttosto che liberarne i simboli in una più ricca trasfigurazione scenografica ed affabulatoria (come accadde per il geniale Vortex). Al di là di ogni supposto schematismo, però, il film riflette potentemente – come il coevo cinema delle regioni dei Balcani o le ultime opere di Thodoros Anghelopoulos – sul contrasto di civiltà e sulle conseguenze ai danni dei paesi occidentali di piena industrializzazione, colpevoli e ignari delle vicende concrete della storia, affidate nel lavoro di Koundouros al viaggiatore con la macchina fotografica. Non per nulla la vicenda de Oi fotografoi ha assunto le tinte inquietanti di una pessimistica premonizione: dolorosa, tragica, insensata.

Beniamino Biondi


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