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Immigrazione. Ecco come lo sport può rivelarsi un ottimo esempio di integrazione.

Creato il 14 aprile 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Nel corso degli anni lo sport ha saputo contribuire efficacemente all’integrazione degli immigrati. L’altra faccia della medaglia: il dibattito sugli atleti naturalizzati.

Accantoniamo l’uccisione di Ciro Esposito, accantoniamo gli atti vandalici dei “tifosi” del Feyenoord ai danni della Barcaccia di Roma, accantoniamo le banane e i versi scimmieschi rivolti ai calciatori di colore. Quello non è sport. Lo sport è l’unione, pur nella rivalità agonistica, delle due fazioni, siano esse squadre, coppie o individualità. I 5 anelli intrecciati, logo delle Olimpiadi, rappresentano al meglio questo messaggio, che in maniera egregia è stato trasmesso dalla National Basketball Association e compreso dall’A.S.D. Modica Calcio, squadra siciliana che milita in Eccellenza. Se da una parte lo sport sembra poter essere una soluzione (quasi) definitiva al problema dell’integrazione, dall’altra è, in tempi recenti, stato causa di controversie nell’ambito degli oriundi, quei professionisti nati al di fuori dei confini nazionali di un certo Paese ma chiamati a rappresentarlo nelle competizioni per Nazioni.

1/Storie di sport. NBA: la lega professionistica con più rappresentanti afro-americani in Nordamerica

Nel 2004 Larry Bird, leggenda dei Boston Celtics con i quali vinse 3 titoli, definì così lo sport della pallacanestro:”It is a black man’s game, and it will be forever. I mean, the greatest athletes in the world are African-American” (tradotto: “è un gioco per uomini di colore, e lo sarà per sempre. Voglio dire, i migliori atleti al mondo sono afro-americani”).

Nel terzo millennio lasciarsi andare a certe dichiarazioni è di sicuro più semplice che negli Stati Uniti del 1950. Ed è proprio il 1950 l’anno in cui la NBA ha cominciato ad allargare i propri orizzont,i accogliendo nella lega i primi cestisti originari del Continente Nero e non solo. Il primo non-bianco fu Wataru Misaka, nato nello Utah ma di evidenti origini giapponesi, che venne pescato al BAA Draft dai New York Knicks ed esordì nel 1947. In quella stagione egli mise a referto 7 punti in 3 gare, prima di essere tagliato dalla franchigia: come da lui affermato, nello spogliatoio non ci furono mai episodi di discriminazione, tuttavia non si relazionò particolarmente con nessuno. Lasciò il mondo dello sport dopo la prima stagione per completare gli studi e diventare ingegnere.

I più lontani discendenti degli indigeni, vittime della tratta degli schiavi, e fino al secondo conflitto mondiale emarginati dal contesto sociale statunitense, fecero la loro prima apparizione nel contesto della NBA con Earl Lloyd, deceduto il 26 febbraio di quest’anno, all’età di 86 anni. Centesima scelta assoluta al nono round dell’ NBA Draft 1950, egli fu chiamato dai Washington Capitols e il 31 Ottobre 1950, nella gara contro i Rochester Royals (oggi Sacramento Kings), divenne il primo afro-americano a giocare una partita NBA.

Nella stagione 1950-51, altri tre furono i giocatori di colore chiamati sul parquet: Hank DeZonie, Chuck Cooper e Nathaniel Clifton. Se DeZonie fu un semplice interprete di questo sport, Cooper e Clifton invece ottennero traguardi invidiabili. Chuck Cooper, infatti, fu il primo cestista di colore pescato al Draft: i Boston Celtics decisero di puntare su di lui, chiamandolo alla prima scelta del secondo giro (dodicesima assoluta). Dall’altra Nat Clifton fu quello che ottenne i migliori risultati all’interno della lega: divenuto il secondo cestista della storia NBA a firmare un contratto professionistico (dopo il solo Harold Hunter, che però venne tagliato prima dell’inizio della stagione), Clifton raggiunse le Finals NBA alla prima stagione in carriera come giocatore dei New York Knicks. Egli fu il primo afro-americano a riuscirci, ma le speranze di vincere l’anello svanirono in gara 7, che finì sul risultato di 79-75 in favore dei Rochester Royals. Nelle successive 7 stagioni che disputò, Clifton mantenne una media di 10 punti e 9 rimbalzi e, all’età di 34 anni, ricevette la chiamata per l’ NBA All-Star Game del 1957, diventando il più anziano ad essere nominato All-Star fino ad allora.

Bill Russell, primo MVP afro-americano nello sport americano (NBA)

Bill Russell, primo MVP della regular afro-americano. Photo Credit: immagine di pubblico dominio

La definitiva consacrazione ed integrazione degli afro-americani in questo sport e nella società avvenne nella stagione 1957-1958. Il centro dei Boston Celtics Bill Russell riuscì a conquistare il titolo di Most Valuable Player per la regular season. La palma di migliore venne assegnata la prima volta nel 1955-56, dunque ci vollero solamente tre stagioni per assistere alla premiazione di un cestista di colore. Russell riuscì a ripetersi anche nelle stagioni 1960-61, 1961-62, 1962-63 e 1964-64. Il pivot di Boston rappresentò anche un pilastro importante de La Dinastia, quel quintetto che riuscì a conquistare 8 titoli consecutivi. Il riconoscimento di Most Valuable Player delle Finals NBA venne attribuito per la prima volta nel 1968-69. Fu sufficiente la seconda stagione affinché un cestista di colore portasse a casa questo titolo: Willis Reed dei New York Knicks venne onorato del titolo di MVP delle Finals nel 1969-70 dopo aver guidato la propria franchigia sul tetto degli Stati Uniti.

Scorrendo velocemente negli anni, nel 1978 incontriamo poi il primo giocatore sudamericano della lega: Butch Lee, portoricano, fu scelto al primo round dagli Atlanta Hawks, prima di essere scambiato ai Cleveland Cavaliers dopo mezza stagione. Se al primo anno fu capoclassifica in partite giocate, 82, nel secondo questo non fu possibile a causa dei numerosi infortuni. Tuttavia, dopo essere finito ai Los Angeles Lakers di Abdul-Jabbar e Magic Johnson, riuscì a conquistare (dall’infermeria) il suo primo ed unico anello in carriera. Nel 2001 fu la volta del primo giocatore cinese in NBA: si tratta di Wang Zhizhi, che però non lasciò traccia del suo passaggio in questo sport.

Dopo un lento ma inesorabile inizio, questo sport divenne terra di conquista di cestisti non-bianchi. Dal 1990 ad oggi, infatti, tre giocatori NBA su quattro sono afro-americani. L’apice si ebbe nel 1995, quando i giocatori di colore rappresentavano l’82% di tutti i roster nella lega, mentre il punto più basso si ebbe nel 1991 con “solo” il 72%. La composizione di bianchi fu massima nel 1991, con il 28%, mentre nel recente 2011 i bianchi furono solo il 16,7%. Proprio nel 2011 ci fu la maggior affluenza di cestisti latini e asiatici, che fu del 5,6%. La percentuale media di afro-americani nell’ultimo quarto di secolo e i loro risultati nel corso della storia NBA danno quindi ragione a Larry Bird, per cui il basket è uno sport per uomini di colore e la NBA fautrice dell’integrazione del diverso.

Sport per l'integrazione, gli Oklahoma City Thunder in NBA

NBA: gli Oklahoma City Thunder sono un ottimo esempio dell’integrazione degli afro-americani grazie allo sport. Photo credit: Keith Allison / Foter / CC BY-SA

2/Storie di sport. Dal barcone all’Eccellenza, un’opportunità nello sport targata A.S.D. Modica Calcio

Si chiamano Lamin, Louie e Sadibou e la loro storia ha dell’incredibile, ma è la conferma che lo sport può davvero unire i popoli, salvare le persone ed aiutarle ad integrarsi in un nuovo contesto. Tutti nati in Gambia – tranne Louie in Guinea Bisseau – si incontrano per la prima volta sulla nave della Marina Militare Italiana al largo delle coste siciliane. Lamin e Louie ottennero il biglietto di sola andata finanziato dalle proprie famiglie con 1000 $, e si imbarcarono a Tripoli il 1 febbraio 2014. Con loro, tra un centinaio di altri profughi, c’era Sadibou: appena sedicenne, questo ragazzo aveva avuto un’infanzia davvero complicata. Egli rimase ben presto orfano del padre e, quando la madre trovò un nuovo compagno, questi picchiava regolarmente il piccolo Sadibou, ad oggi sordo da un orecchio per i colpi ricevuti. Il giovane ebbe i soldi per il cosiddetto viaggio della speranza da un tale Mousa, un tassista per il quale Sadibou lavorava con grande abnegazione.

Giunti ad Augusta, i tre ragazzi vengono subito in contatto con Giuseppe Ragona, consulente dello sport della città di Modica, chiamato a fare da interprete per gli assistenti sociali. Ragona nota immediatamente le doti calcistiche dei tre e invita Bellia, presidente dell’A.S.D. Modica Calcio, a visionare i potenziali tesserati. Il patron del Modica si fa impressionare e decide di chiamare in prima squadra i giovani calciatori, giunti in Sicilia appena due mesi prima. Altri sette ragazzi vengono invitati ad entrare nelle giovanili della squadra che partecipa al torneo di Eccellenza. Le procedure per il tesseramento di Lamin, Louie e Sadibou, nonostante le lente e boriose procedure burocratiche, è avvenuto qualche mese più tardi: ciò ha portato i primi soldi nelle tasche dei tre calciatori, che hanno saputo trovare nello sport una via di fuga dalla condizione in cui versavano.

3/Storie di sport. Scegliere quale Nazione rappresentare: gli oriundi

Le grandi migrazioni nel corso della storia dell’uomo sono state spesso effetto di una (o più) delle tre cause descritte da Thomas Malthus: carestie, guerre, epidemie. Se in un primo momento non si pensava alle ripercussioni nel mondo dello sport, al giorno d’oggi risulta tutto molto più chiaro. Sempre più spesso sentiamo parlare di oriundi e di naturalizzati, atleti che discendono da genitori, nonni e bisnonni che nacquero in altri confini, ma che furono costretti a fuggire dalla madrepatria per trovare condizioni di vita migliori. Basti pensare al quattro volte Pallone d’Oro Lionel Messi. La Pulce è nata a Rosario, Argentina, ma il trisavolo Angelo Messi era di Recanati, prima di trasferirsi oltreoceano nel 1883. Si tratta di semplice utopia, e metterebbe di sicuro d’accordo tutti gli italiani se potesse essere convocato da Conte, ma la storia dello sport e del calcio in particolare è ricca di molti flop che hanno acceso grande scetticismo in molti individui.

Tra i tanti esperimenti mal riusciti nel giro della Nazionale italiana di calcio, spiccano i nomi di Schelotto, Amauri, Paletta e Thiago Motta. Andando con ordine, Ezequiel Schelotto, nato a Buenos Aires, ha ottenuto il passaporto italiano grazie al bisnonno, ligure di Cogoleto: con l’Italia ha raccolto la miseria di 5 minuti più recupero nella sconfitta per 2-1 contro l’Inghilterra il 15 agosto 2012. Amauri Carvalho de Oliveira, attaccante granata, nasce invece a Carapicuiba (Brasile) e sposa Cynthia Cosini Valada­res, brasiliana anche lei ma di origini italiane. Il 12 aprile 2010 viene concessa ad Amauri la cittadinanza italiana, ma riesce ad indossare la maglia azzurra solo il 10 agosto 2010 (per tutti e 90 i minuti) in occasione della sconfitta contro la Costa D’Avorio. Gabriel Paletta è, come Schelotto, argentino di nascita. Pronipote di Vincenzo Paletta, nativo di Crotone, Gabriel ottiene la doppia cittadinanza dopo tre buone stagioni al Parma e si ritaglia un posto nella spedizione ai Mondiali in Brasile con Prandelli: il difensore centrale gioca solamente la gara d’esordio degli azzurri contro l’Inghilterra (2-1 per l’Italia), mentre è costretto ad accomodarsi in panchina in occasione delle sfide perse contro Costa Rica (0-1) e Uruguay (0-1). Anche Thiago Motta, brasiliano, ha origini italiane essendo il pronipote di Fortunato Fogagnolo, che nacque a Polesella nella provincia veneta di Rovigo. Tra i calciatori citati, l’ex interista è quello che ha ottenuto più presenze con la Nazionale, arrivando persino in finale agli Europei del 2012 (persa 4-0 contro la Spagna). Tuttavia questo non lo ha risparmiato dalle critiche, sempre piuttosto aspre nei suoi confronti per lo scarso atletismo, accentuato nel Mondiale del 2014 dalle condizioni climatiche della terra verdeoro.

Le convocazioni di elementi naturalizzati non sempre però si sono rivelate sbagliate. A distanza di 80 anni l’una dall’altra, infatti, gli Azzurri e Die Mannschaft hanno portato sul tetto del mondo lo sport italiano e tedesco, nonostante ci fossero delle impurità negli atleti rappresentanti.

L’Italia del 1934 contava 22 calciatori, di cui 4 argentini e 1 brasiliano: Atilio Demaria, Enrique Guaita, Luis Monti e Raimundo Orsi gli argentini, Anfilogino Guarisi il brasiliano. Furono decisivi Orsi (doppietta agli ottavi contro l’USA, gol del pareggio in finale contro la Cecoslovacchia per andare ai supplementari) e Guaita (gol-partita in semifinale contro l’Austria). Caratteristica unica di Luis Monti fu quella di giocare due finali mondiali con due Nazionali diverse, nel 1930 con l’Argentina (sconfitta 4-2 contro l’Uruguay) e nel 1934 con l’Italia (vittoria 2-1 contro la Cecoslovacchia): nessun altro giocatore in questo sport ci è mai riuscito. La Germania del 2014 era composta di 23 elementi, tra cui (anche in questo caso) 5 non erano totalmente tedeschi. Si tratta di Miroslav Klose (polacco, miglior marcatore della storia dei Mondiali con 16 reti con la maglia della Germania), Lukas Podolski (polacco, che ha cambiato nome da Łukasz per poter giocare con la Nazionale tedesca), Mesut Özil (nato in Germania a Gelsenkirchen, turco di origine), Sami Khedira (anche lui nato in Germania, Stoccarda, ma figlio di padre tunisino) e Shkodran Mustafi (nato in Germania a Bad Hersfeld, discendente da una famiglia albanese).

Tags:bill russell,calcio,earl lloyd,Germania,Immigrazione,integrazione,Italia,Klose,Messi,modica,mondiale,NBA,oriundo,sport

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