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Immobilismo e conservazione: la Bosnia vent’anni dopo Dayton

Creato il 13 novembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Maria Serra

A distanza di vent’anni dagli Accordi di Dayton, che misero fine a quello che è stato considerato il conflitto più sanguinoso dalla fine della Seconda Guerra mondiale in Europa, la Bosnia Erzegovina resta oggi lontana dall’essere un Paese pienamente stabilizzato. Nonostante la comunità internazionale e l’Unione Europea negli anni abbiano garantito una sostanziale pacificazione, un adeguato livello di sicurezza e ne abbiano largamente sostenuto il processo di ricostruzione economica e sociale anche in vista di una futura integrazione nello spazio comunitario, la Bosnia non è riuscita infatti a superare i meccanismi stabiliti – e il labirinto di vincoli scaturiti – proprio dal Trattato di pace siglato dall’allora gruppo di contatto.

Sebbene necessario e funzionale alla cessazione immediata delle ostilità e dei numerosi crimini contro l’umanità, il Dayton Peace Agreement (DPA) ebbe come maggior limite l’aver posto al cuore della nuova Costituzione la centralità dello Stato multi-etnico e, di riflesso, l’applicazione incondizionata dei meccanismi di power-sharing che alla lunga non hanno favorito le basi di una concreta cooperazione tra le due entità statali – la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Federazione BH, a maggioranza croato-musulmana) e la Republika Srpska (RS, a maggioranza serba). La legittimazione delle divisioni etniche, che ha indotto alla definizione di un’architettura istituzionale (e burocratica) tanto complessa quanto dispendiosa che continua a pregiudicare il regolare svolgimento dei processi decisionali, si è nondimeno accompagnata a lungo ad una notevole attribuzione di poteri agli attori internazionali impegnati nel processo di policy-building; in questo senso ciò non solo ha ridimensionato (e in un certo senso deresponsabilizzato) il ruolo dei soggetti locali, ma ha anche favorito l’affermazione sia di élites politiche maggiormente attente alla difesa di singoli gruppi etnici – grazie anche all’ambiguità dei rapporti con alcuni settori della criminalità – sia dei leader emersi negli anni del conflitto e incapaci di rispondere, in ultima istanza, alle reali esigenze della popolazione.

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Architettura istituzionale della Bosnia – Fonte: Atlante Geopolitico Treccani 2015

Le elezioni generali dell’ottobre 2014 – per il rinnovo della presidenza tripartita, dei Parlamenti delle due entità e delle amministrazioni dei 10 cantoni della Federazione BH – hanno difatti decretato la vittoria di quei partiti nazionalisti e di quelli stessi gruppi di potere che hanno governato la Bosnia nell’ultimo ventennio: nella Federazione BH il Partito di Azione Democratica (SDA) di Bakir Izetbegović (figlio di Alija, Presidente della Bosnia dal 1990 al 1996 e membro bosgnacco della Presidenza tripartita fino al 2000); nella comunità croata l’Unione Democratica Croata (HDZ), guidato da oltre un decennio da Dragan Čović; nella RS, sebbene abbia perso il posto in seno alla presidenza tripartita e sebbene abbia ottenuto una maggioranza risicata in seno all’Assemblea (peraltro sembra non in maniera del tutto trasparente), il potere resta saldamente nelle mani dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) del Presidente Milorad Dodik. Questi, nonostante sia coinvolto in diversi di corruzione, e forte anche della nomina a Primo Ministro del suo braccio destro Željka Cvijanović, è tornato ad agitare lo spauracchio di un referendum per l’indipendenza della stessa RS. Un’opzione che resta tuttavia impraticabile anche a causa del recente allentamento dei rapporti dello stesso Dodik con il governo di Belgrado. Ad ogni modo, a fronte di tali riconferme, la scarsa affluenza alle urne (54%, in calo rispetto alla tornata precedente) riflette una profonda scarsità di fiducia dei cittadini nei confronti della classe dirigente.

Alla frantumazione e alle distorsioni politiche si aggiunge infatti l’insostenibilità della situazione economica che, nonostante il supporto internazionale, non è ancora riuscita a ritornare ai livelli di sviluppo precedenti al conflitto del 1992-1995. Un PIL per il 72% inferiore alla media UE e una crescita che stenta a ripartire dopo la recessione legata anche agli effetti della congiuntura economica internazionale (e su cui hanno pesato le conseguenze dell’alluvione del maggio 2014), relegano la Bosnia all’ultimo posto tra i Paesi dell’area balcanica. Se a ciò si somma l’alto tasso di disoccupazione (44% secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale; 27% secondo la Banca Centrale, che considera anche il lavoro in nero), in particolare tra i giovani (60,4% – dato Banca Mondiale), dovuto in particolare al fallimento delle politiche di privatizzazioni selvagge che hanno portato alla bancarotta di migliaia di imprese e che hanno lasciato centinaia di persone senza impiego, ben si comprendono le ragioni alla base delle proteste che, partite proprio dai distretti industriali (come quello di Tuzla), hanno attraversato il Paese (e in particolare la Federazione BH) tra il 2013 (in connessione anche con la cosiddetta bebolucija – “Baby Revolution” [1]) e l’inverno del 2014. Episodi di finanziamento illecito dei partiti, di malversazione dei fondi pubblici e di nepotismo, hanno inoltre fatto sì che il malcontento popolare sia cresciuto nel tempo.

Procedere con una riforma costituzionale che evolva la forma istituzionale del three people, two entities, one State e avviare una profonda revisione di tutti i livelli delle strutture bosniache, è pertanto una necessità sempre più avvertita – non solo dall’opinione pubblica – e su cui dovrebbe convergere il massimo consenso non solo delle parti politiche interne ma anche degli attori regionali ed internazionali, in particolare europei, in vista del prosieguo del processo di integrazione europea. È sotto quest’ottica che deve essere infatti letta l’iniziativa diplomatica anglo-tedesca del novembre 2014 [2] che, contribuendo al cambiamento di approccio dell’UE nei confronti della situazione bosniaca (ponendo in particolare più enfasi sugli aspetti economici piuttosto che sui nodi politici), ha aperto la strada per la conclusione dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) entrato in vigore lo scorso 1° giugno. Il Progress Report pubblicato solo pochi mesi prima dalla Commissione europea metteva infatti in luce, tra le altre cose, le criticità di una classe politica incapace di attuare le riforme richieste, la fragilità della situazione socio-economica ed amministrativa, le carenze macro-economiche, l’assenza di una riforma sulla giustizia e, soprattutto, di un accordo su una modifica costituzionale che accolga la sentenza Sejdic-Finci della Corte europea dei Diritti dell’Uomo sull’uguaglianza dei diritti anche di quei cittadini che non appartengono alle tre etnie principali del Paese: l’inadempienza nel darvi attuazione era stata considerata fino allo scorso anno una pre-condizione necessaria alla conclusione dell’Accordo di Associazione.

Alla luce di tali considerazioni, la prospettiva europea e il programma di riforme ad hoc sottoscritto ora dalla leadership politica bosniaca non saranno ad ogni modo di facile realizzazione nel breve-medio periodo. Tuttavia proprio la firma dell’ASA, insieme con la pubblicazione del nuovo Progress Report (10 novembre) – decisamente più generoso rispetto al precedente e che conferma la strategia europea più flessibile nei confronti di Sarajevo – e con il Vertice congiunto con la Serbia dello scorso 4 novembre (il primo dalla conclusione del conflitto) [3], devono leggersi come primo importante contributo positivo allo sblocco dell’impasse dell’ultimo ventennio e all’avvio dell’atteso dialogo sistemico tra la frammentata società civile bosniaca e lo Stato.  

* Maria Serra è Responsabile OPI e Research Fellow (Head) area Europa

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[1] A riprova dell’impossibilità di superare la logica dell’organizzazione etnica, lo scorso luglio 2013 la Camera dei Rappresentanti ha approvato un decreto d’urgenza per la ripresa del rilascio dei Numeri di Identificazione Personale necessari all’ottenimento delle prestazioni sanitarie e sociali (il precedente dispositivo era stato invalidato dalla Corte Costituzionale per ragioni procedurali e ai nati dopo il 12 febbraio 2013 non erano stati forniti i documenti di identità). Sulla spinta del movimento di protesta un compromesso è stato infine raggiunto, sebbene, a differenza del passato, l’emissione dei nuovi numeri avviene su base etnica e territoriale.

[2] Con una lettera congiunta all’allora neo-insediata Commissione europea, i Ministri degli Esteri tedesco e britannico, Frank-Walter Steinmeier e Philip Hammond, hanno proposto una soluzione per sbloccare la situazione di stallo tra Bruxelles e Sarajevo circa il prosieguo delle trattative per il processo di integrazione europea.

[3] Uniti nell’intento di rafforzare le relazioni bilaterali, di contribuire alla stabilizzazione dei Balcani (anche in relazione alla questione immigrazione) e di puntare all’ingresso nell’UE, i Primi Ministri Aleksandar Vučić e Denis Zvizdić hanno siglato alcuni accordi di cooperazione, relativi in particolare alle ricerche dei dispersi durante il conflitto, allo sviluppo delle telecomunicazioni, alla tutela ambientale, alla Difesa e all’ammodernamento dei collegamenti infrastrutturali.

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