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Impara a dire NO – 7° parte

Creato il 02 febbraio 2012 da Copywriter @copywritermilan

Impara a dire NO

Continua dalla sesta parte

Il libro da cui è stato estratto questo articolo si occupa di fornire soluzioni concrete a tutte quelle persone, e sono tantissime, che si ritrovano troppo spesso a fare cose che non vogliono fare solo per  l’incapacità di dire di NO. In tutti i campi: coppia, famiglia, lavoro, amicizie… L’autrice, Silvia Minguzzi, grazie ai tantissimi seminari che tiene proprio su questo argomento, analizza a fondo il problema, fa chiarezza e ti offre risposte concrete, efficaci e sperimentate.
Leggerlo può davvero cambiarti la vita.

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Silvia Minguzzi è da anni un punto di riferimento in Italia e nel mondo nel campo della formazione e dello sviluppo personale, è coach, ha co-fondato dell’Accademia dell’Intelligenza Emotiva, èMaster Trainer AIE, docente e molto molto altro.

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Differenza tra avere un problema e lamentarsi

“Ogni problema contiene in sé il seme della sua soluzione”  Brian Tracy

Rispondere sempre “si” accontenta, ma solo temporaneamente, tutti tranne noi stessi e porta a costruire relazioni affettive scarsamente gratificanti dove, invece di amarsi lasciandosi liberi, si attuano continui ricatti sottintesi.
Si pretendono prove e dimostrazioni d’affetto attraverso richieste che, se esaudite, non sono comunque sufficienti a dare sicurezza. Più assecondiamo questi meccanismi, dove uno fa il bisognoso d’aiuto e l’altro si trasforma in “croce rossa”, più facciamo credere, a colui che chiede sostegno, di non esser effettivamente in grado di sostenersi da solo. Questo crea un “handicappato emozionale” che impara a misurare l’amore che gli altri hanno per lui attraverso le loro risposte ai suoi più o meno velati ricatti.
Una persona, chiusa in questa trappola, non percepisce di essere amata se non attraverso l’aiuto a risolvere i suoi problemi, attraverso l’attenzione ai propri disagi e sofferenze. Raggiunge così un temporaneo e illusorio senso di certezza riguardo al fatto di essere amata e ottenere attenzione.
Dare soddisfazione a simili richieste è un comportamento complice nel mantenere il problema.
Avere un problema significa sapere che la sua situazione attuale non va bene, sapere anche come si  vorrebbe che questa si modificasse, ma non conoscere ancora un modo per passare dalla condizione attuale a quella desiderata. Si può anche soffrire per questo e chiedere aiuto con l’intenzione di trovare una soluzione.
Lamentarsi invece vuol dire esprimere disagio per la situazione in cui ci si trova e desiderare solo parlare del proprio disagio, non voler parlare di soluzioni o cambiamenti, non essere disposti a fare quasi nulla per modificare lo stato attuale delle cose: desiderare di sfogarsi attraverso la lamentela.
Se un amico è disperato e non lo ascoltiamo mentre si lamenta, se non ci offriamo come muro del pianto, porgendo una spalla sulla quale disperarsi con noi fino all’esaurimento delle lacrime di entrambi, lui può pensare che siamo “cattivi” o “egoisti”, essendo di solito inconsapevole di attuare questa dinamica.  E’ probabilmente in confusione perché deluso o risentito per un’aspettativa disattesa.
Se ci facciamo coinvolgere in questo ricatto, se in quel momento ci facciamo prendere dalla sua confusione, diventiamo complici del suo gioco. Siamo così in due in uno stato emozionale negativo, nel quale abbiamo poche risorse a disposizione. Parliamo del problema, con una sensazione, solo nell’immediato, di esserci un po’ alleggeriti.
Lo stato emozionale negativo ci impedisce di concentrarci sulla ricerca di soluzioni.
Quando ci stupiamo di come ha fatto ad accadere qualcosa di così scomodo, triste, ingiusto, ci comportiamo come se non ci fosse niente da fare. Pensiamo “oramai è successo”. Sarebbe più utile pensare invece “stando così le cose che non posso cambiare, cosa posso fare io, adesso, per migliorare la situazione attuale?”.
Se ci facciamo prendere dal meccanismo del “dai sfogati, poverino”, ci troviamo entrambi nella condizione di avere poche risorse a disposizione. Questo non aiuta nessuno.
L’angoscia, il compianto e l’auto-commiserazione sono comportamenti nei quali le persone tendono a specializzarsi: quando uno si accorge che, lamentandosi di qualche problema, trova un contatto profondo con le persone perché viene ascoltato e coccolato, impara che c’è una modalità “facile” di ricevere attenzione, ascolto, energia, risorse e compagnia da parte del prossimo. Quindi, chi ascolta queste lamentele, fa da complice a questa persona e contribuisce alla sua pigrizia nel costruire relazioni affettive sane.
Quando una persona si vuole lamentare, senza essere disposta a trasformare la sua lamentela nella ricerca di una soluzione sai, infondo, che stare ad ascoltarla sarebbe tempo investito male per entrambi. Nel momento in cui non acconsenti, fai un favore a te stesso e stai facendo un favore anche a lei, spingendola ad orientarsi verso un atteggiamento più utile e costruttivo.

coaching

R. : “Qualche volta qualcuno mi ha dato della “stronza” per come mi sono comportata, però a lungo andare queste persone le ho ritrovate. Non sono più l’ “ambulanza della domenica”. E non mi telefonano più per lamentarsi ma per fare qualcosa di costruttivo, divertente, perché dall’altra parte trovano un muro. Se per un ‘no’ hai un amico che ti giudica male, forse quell’amicizia è piuttosto superficiale. Coloro che reputo miei amici non cambiano il loro giudizio su di me sulla base di un no”.

Se pensiamo, inoltre, che rifiutare una proposta voglia dire essere pigri, con l’intenzione di fare un favore a qualcuno ci faremo caricare come un muletto. Forse ci si allargheranno le spalle, ma in molte occasioni saremo la stampella che consente all’altro di non rendersi autonomo.

D.: “A volte ho avuto difficoltà a decidere cosa rispondere quando si è trattato di richieste dei miei genitori. Ad esempio mi chiedevano di aiutarli a sbrigare burocrazie complesse, tipo le registrazioni di contratti, per cui c’è molto da sbattersi. Gli ho spiegato che non è che non lo faccia volentieri, se ho tempo lo faccio. Ho detto :-Mi piacerebbe allo stesso tempo che anche voi imparaste a farlo perché se io non ci sono, per qualsiasi motivo, non devo essere l’unica a sapere come si fa, dove bisogna andare, solo perché voi non vi volete impegnare adesso-. E dicendo così ho cominciato a portare con me i miei genitori in giro per uffici, quando capitavano queste occasioni e loro mi chiedevano aiuto. Adesso spesso sono fuori città per lavoro, non posso sbrigare le loro pratiche per uffici e si sono trovati, per fortuna,ad essere già in grado di farlo da soli”.

Fare il bene degli altri non sempre vuol dire fare ciò che loro chiedono o desiderano.
Tra i modelli di pensiero che una persona può utilizzare per stabilire se effettivamente fa il bene dell’altro dicendogli di si, nella maggior parte dei casi il buonismo accondiscendente, detto scherzosamente “comportamento dello zerbino”, non porta nella giusta direzione.  Chi acconsente sempre ad ogni richiesta, chi nasconde il proprio dissenso, non si comporta da persona molto gentile, buona e disponibile, piuttosto non rispetta se stesso e, nel lungo tempo, non fa il bene neppure degli altri,  creando dipendenze e ponendo basi errate per le relazioni.

Conoscere meglio cosa vuol dire veramente “amare”, cioè amare senza condizionamenti, ci può aiutare a scegliere di dire di no, quando serve, proprio perché desideriamo il bene dell’altro oltre che il nostro.

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