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Imperdibile Festival Ferré. Almeno per due sere abbiamo anarchicheggiato.

Creato il 19 giugno 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti

Imperdibile Festival Ferré. Almeno per due sere abbiamo anarchicheggiato.

Foto di Rosita Spinozzi (grazie)

Perché uno va al Festival Ferré? Perché ama Léo è scontatissimo. Perché ama i salti mortali palco-platea di Pino Gennari? Di solito si vede di meglio, basta andare sulla A24 dove ci si butta giù per davvero e si muore sul serio. Perché c’è bella gente? Forse. Perché ci vado da anni e non mi sognerei mai di mancare a un concerto? Anche. Ma non solo. Il Festival Ferré è una delle sane abitudini che ho preso nel corso del tempo e, soprattutto, avec le temps. Mi piace la figura di Marie-Christine, la donna che Léo ha cantato, e poi mi piace l’aria che si respira, anarchica vivaddio e non sembri un controsenso lessicale né politico-esistenziale. Mi piace la gente che ci va, non tutta per carità altrimenti qualcuno potrebbe non riconoscermi e accusarmi di buonismo senile. Anzi. C’è chi mi sta letteralmente sulla punta del naso e da buon acrobata non cade mai, ma il mondo è fatto così e non posso pretendere che tutti mi stiano simpatici né che io sia simpatico a tutti. Prima sera. Peppe Voltarelli, ex “Parto delle nuvole pesanti”, rapper a modo suo, attore nel mockumentari gioiello “La vera leggenda di Tony Vilar”, calabrese nel midollo e si sente, soprattutto si gode, specie quando canta i “Marinai”, brutta gente i marinai, più anarchici del mare. Ma omaggia anche Ferré e non sceglie a caso, lui razzia proprio “Les anarchistes”, una goduria. Arriva Mr. Wella: Giulio Casale. La prima battuta che faccio con gli amici è: “Madonna quanto se lo tira! Ma se fossi come lui me lo tirerei anche io”. GiulioCasaleè uno "splendido quarantenne" . Punto. Il resto lasciamo stare. Dilania Geordie e potrebbe bastare, poi però impazzisce e decide di farlo anche con “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. È allora che la mia pur paziente tempra di ex critico teatrale rotto a tutte le peggiori compagnie, non regge più. Mi verrebbe voglia di saltare sul palco e azzannarlo, ma ho una certa età e non sono fisicamente dotato come Gennari, ergo, resto sulla poltrona, guardo Sara dietro di me e non commento. Però volano capelli biondi freschi di shampoo e pettinati ciuffo dopo ciuffo pronti a esibirsi, loro mica Casale. L’agonia estetica termina quando sale sul palco Dori Ghezzi, ancora bella come il sole. È venuta a ritirare il premio per Faber. Ci aspettiamo almeno un ricordo del “poeta” ma nulla, l’unico aneddoto è legato alla conoscenza di Léo quando lei cantava “Un corpo e un’anima” con Wess. Poi dicono che un giornalista in grado di fare domande sul palco non ci sarebbe stato bene. La signora Ghezzi si porta appresso Faber e scusate se è poco. Mi emoziono un po’ (molto contenuto però) e penso che all’improvviso, su quel palco, possa materializzarsi De Andrè tanto per far sentire a Casale come si suona e si canta Geordie. Seconda serata. In apertura Gli zingari felici, un sestetto abruzzese ancora troppo giovane e inesperto per cimentarsi su un palco come quello del Ferré. Poi ricordo di aver sentito di peggio e allora, largo ai giovani, anche se un po’ “grezzi”: devono lavorare molto. Ancora un sestetto, questo direttamente da Parigi, il vero concerto del 17° Festival Ferré. YvesRousseau Sextet. E un po’ deliro. Perché sono bravissimi, strumentalmente inappuntabili, stilisticamente implacabili. Non è jazz, non è pop, ma il tutto e il nulla sì anzi, il massimo livello della musica sofisticata sentita da queste parti negli ultimi 150 anni. “Pieni” vocali stordenti e altro che jazz narrativo, siamo in presenza dello sperimentalismo puro e di una ricerca musicale filologica che lascia senza commenti anche chi i commenti è abituato a farli a prescindere. Yves Rousseau (e il suo sestetto) è una delle mille ragioni per le quali continuo a frequentare indefessamente il Festival Ferré. Un appuntamento che sa di cultura alta in un posto che solitamente preferisce l’odore del fritto e il sapore di cioccolato, poco faticosi e soprattutto più appaganti. Almeno per lo stomaco. E ci chiamano radical-chic.

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