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Impulso magnetoacustico colto sul fatto

Creato il 19 febbraio 2015 da Media Inaf

Era l’8 ottobre del 2013, un martedì, quando alle 20:21:35 UT (tempo universale) la sonda Probe A della NASA, in orbita a circa 3200 km/h tra le fasce di Van Allen, registrò un repentino aumento del campo elettrico. Venti secondi più tardi, lo stesso segnale fu rilevato dalla sua sonda gemella, Probe B. Appena cinque minuti prima, a essere investita dal flusso improvviso erano state le due sonde della costellazione THEMIS in orbita attorno alla Luna. All’origine di tutto, un brillamento solare: un’eruzione violenta di materia dalla superficie della nostra stella i cui effetti si erano rapidamente propagati nel Sistema solare interno sotto forma di onda d’urto.

Niente d’eccezionale, a dire il vero. Onde di particelle di portata paragonabile s’infrangono sulla magnetosfera terrestre in media due volte al mese, e questa dell’ottobre 2013 non fu certo una tempesta particolarmente intensa, tutt’altro. A fare la differenza furono le due sonde NASA, la coppia di Van Allen Probes, appunto: al posto giusto e al momento giusto per consentire agli scienziati d’osservare in dettaglio, per la prima volta, gli effetti di un’onda d’urto elettromagnetica dall’inizio alla fine. Le due sonde viaggiano sulla stessa identica orbita a un’ora di distanza l’una dall’altra. Ebbene, quel giorno d’ottobre del 2013 Probe A stava osservando le fasce di Van Alllen dal lato esposto al Sole proprio un istante prima che l’onda d’urto investisse il nostro pianeta. E la sorella, Probe B, passando nello stesso punto un’ora più tardi, ha potuto registrarne gli effetti a posteriori.

Quali effetti? L’impulso magnetoacustico generato dall’impatto dell’onda d’urto con la magnetosfera, durato circa 60 secondi, ha riverberato lungo le cinture radioattive che circondano la Terra, le fasce di Van Allen, accelerandone alcune particelle fino a energie elevatissime. «Particelle molto leggere, ma ultrarelativistiche: elettroni killer», dice John Foster del MIT, primo autore dello studio, appena pubblicato sul Journal of Geophysical Research, che riporta i risultati dell’osservazione, «elettroni che possono attraversare dritti un satellite. Il numero di queste particelle accelerate è salito di dieci volte in nemmeno un minuto, e noi abbiamo avuto la possibilità di cogliere l’intero processo proprio mentre era in atto. È stato emozionante: abbiamo visto qualcosa di davvero assai veloce, per la fascia delle radiazioni».

In effetti la stessa ricostruzione dell’evento, se non emozionante, è piuttosto avvincente. Pur essendosi trattato d’una “mazzata colossale” – così Foster – per il campo magnetico terrestre, l’onda d’urto non ha sfondato. È rimbalzata, dando origine a un’onda in direzione opposta: un impulso magnetoacustico – una potente onda acustica di particelle cariche che si è propagata attraverso il plasma magnetizzato raggiungendo l’altra estremità del pianeta nel giro di pochi minuti. Un intervallo durante il quale, scrivono gli scienziati, il campo elettrico presente nell’impulso magnetoacustico ha accelerato alcune delle particelle a bassa energia incontrate lungo la strada fino a 3 o 4 milioni di elettronvolt, decuplicando così di colpo la quantità di elettroni ultrarelativistici in zona.

In queste impetuose accelerazioni, come osservato in precedenza e ora confermato, giocano un ruolo fondamentale i meccanismi di risonanza: le particelle che hanno maggior probabilità d’accelerare sono infatti quelle in orbita attorno alla Terra a velocità uguale a quella dell’impulso magnetoacustico. Le due sonde, in orbita all’interno della fasce di Van Allen dall’agosto del 2012, hanno l’obiettivo di caratterizzarne l’ambiente, per progettare satelliti e navicelle spaziali più resistenti. Uno dei compiti che devono affrontare è proprio quello di aiutare gli scienziati a comprendere a fondo il processo che porta gli elettroni a raggiungere velocità relativistiche, attorno ai 1000 km/s, trasformandoli in proiettili in grado di causare danni irreparabili all’elettronica di bordo dei satelliti.

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Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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