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Imputato

Creato il 01 marzo 2011 da Renzomazzetti

 

giochi.

Il pensiero del processo non lo abbandonava più. Già più volte si era chiesto se non sarebbe stato meglio redigere una difesa e inoltrarla al tribunale. Voleva anteporvi una breve descrizione della sua vita e chiarire, riguardo a ogni evento in qualche modo importante, le ragioni del suo comportamento e se, secondo il suo giudizio attuale, il suo modo di agire era da riprovare o approvare e quali motivi poteva addurre in un caso o nell’altro. L’avvocato raccontava di aver già vinto, in tutto o in parte, processi simili. Aveva già cominciato a lavorare e la prima memoria era già quasi finita. Questo era molto importante, perché la prima impressione che fa la difesa spesso determina tutto l’andamento del procedimento. Mai attirare l’attenzione. Starsene tranquilli, anche se si va contro ragione. Bisogna cercare di capire che il grande meccanismo in un certo senso restava sempre in sospeso e che, se si fosse cercato di mutare qualcosa in modo autonomo, c’era il rischio di scavarsi il terreno sotto i piedi e di precipitare, mentre il grande organismo anche per il piccolo incomodo trovava facilmente la soluzione e restava immutato, quando non diventava, cosa probabile, ancora più chiuso, ancora più attento, ancora più forte, ancora più malvagio. Quindi era meglio lasciar lavorare gli avvocati. Tutti concordano sul fatto che non si sporgono denunce avventate e che il tribunale, se fa una denuncia, è fortemente convinto della colpevolezza dell’imputato e può essere dissuaso da questa convinzione solo con difficoltà. (meditazione su Avvocato in Il processo di Franz Kafka).

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CIRCE

Andavano intanto su e giù per le stanze le ancelle,

quattro, che in casa ella tiene a servire:

nacquero esse dai boschi e dai fonti

e dai fiumi divini che scendono al mare.

Una stendeva sui troni coperte

belle e per terra tappeti di porpora;

un’altra le mense d’argento traeva davanti

ai troni e su quelle poneva aurei canestri;

la terza un cratere d’argento colmava di vino

dolce qual miele e i calici d’oro apprestava;

la quarta veniva con l’acqua e di sotto

a un tripode grande il fuoco attizzava a scaldarla.

E poi che il lucido bronzo l’acqua bollì,

mi pose nel bagno seduto e attingendo

dal tripode l’acqua e mischiando la fredda alla calda,

dolcemente lavava il mio capo e le spalle,

finché la stanchezza penosa mi tolse dal corpo.

Lavato ed unto che m’ebbe con olio abbondante,

una tunica addosso mi mise e un bel manto,

sedere mi fece su un trono d’argento

adorno di fregi, con sotto un gradino pe’ piedi.

E venne un’ancella versando dell’acqua purissima

da un’anfora d’oro in un vaso d’argento

per lavarmi le mani, e una mensa polita

mi trasse vicino; la ninfa preposta a curar la dispensa

veniva del pane portando e molte vivande

porgeva sollecita al pranzo; ma voglia

non aveva il mio cuore di cibi; sedevo

d’altro pensoso con animo triste.

Ma Circe vedendomi stare così senza prendere cibo,

assorto in cupo dolore, mi venne accanto e mi disse:

Perché, Ulisse, tu siedi a guisa di un muto

rodendoti il cuore, e cibo e bevanda non tocchi?

Di un altro inganno hai forse paura? Non devi

temere: ho fatto per te quel gran giuramento.

Questo mi disse; ed io le risposi parlando così:

Circe, quale uomo assennato oserebbe

saziarsi di cibo e di vino prima di avere

liberato e veduto con gli occhi i compagni?

-Omero-

 


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