Magazine Diario personale

Intellettuali, traduzione e solidutine

Da Spaceoddity

[Schizzi] Ogni tanto, durante le lezioni, in specie durante il lavoro di traduzione, lascio soli i miei alunni. Non c'è richiesta di aiuto che tenga e si possono lamentare quanto vogliono: il lavoro intellettuale consiste nel fare i conti con le proprie risorse e, attraverso di esse, con il problema che si sta cercando di risolvere. Ovviamente, se dico lavoro intellettuale, mi riferisco a un ragionamento sulle cose, e queste cose possono rientrare nelle discipline scientifiche come in quelle cosiddette umanistiche.
È il ragionamento che conta. Un giovane avvezzo fin da subito a sbrigarsela da solo acquisisce una dimestichezza con sé stesso e con le proprie forze che gli strumenti ausiliari usati senza limite non consentono. Il malinteso sfruttamento di calcolatrici, repertori e indici vari non va solo a scapito della memoria (una delle perdite più insidiose, pandemiche e sconfortanti della nostra epoca), bensì anche della necessaria solitudine, del fare i conti con sé stessi e con la vita che l'aiuto altrui non consente (e anzi spesso ostacola), quando si tratta di abilità.
Il lavoro intellettuale, quello serio, al suo più alto livello è come una traduzione: frutto di un misterioso equilibrio tra disciplina e creatività. Tradurre significa conoscersi, trovare il proprio spazio nel mondo. Ricordare, significa abitare questo spazio. Non vedo come si possa rinunciare a crearsi quest'aura personale. Non vedo, soprattutto, con quale diritto la scuola fintodemocratica e buonista possa costringere i ragazzi a rinunciarvi, in nome della massificazione e della squalifica del titolo di studio a mera esperienza intercambiabile prelavorativa.
Semmai, il pericolo di un lavoro intellettuale, soprattutto nelle discipline umanistiche, è una solitudine che chiamerò di ritorno. Ma anche questa è un malinteso. Il culto dell'arbitrarietà, frutto di un'educazione "classica" fraintesa e stucchevole, relegata all'originalità degli aggettivi e al capriccio degli umori di insegnanti e allievi, porta a un'impossibilità di intendersi sulle parole e sulle cose. Ora, se c'è una cosa alla quale una formazione intellettuale seria non può e non deve rinunciare in nessun caso è proprio la ricerca di un'oggettività e di un fondamento reale nelle cose.
Noto che una delle difficoltà maggiori negli adolescenti d'oggi consiste nell'approccio alla Filosofia. La scambiano per astratta, non concreta, vaga, inattuale: ma falliscono proprio nella misura in cui la filosofia è una disciplina rigorosa, metodica e affamata di ingegneristica esattezza. Altrimenti sì che si tratta di discorsi vuoti assolutamente superflui. Se una procedura di lavoro o un ragionamento non maturano nel ragazzo, ogni atto è arbitrio incomunicabile e destinato a creare monadi.
Per questo sono inaccettabili le pretese di quei genitori che puntano sul genio del loro figlio e pretendono che la scuola si limiti a certificare ciò che la natura gli ha donato. La scuola non è un talent show: certi ragazzi offrono performances straordinarie di improvvisazione, ma una scuola che serva davvero deve dare sostanza e metodo a una qualità innata (e assolutamente pregevole). Tale dote è da sviluppare, da arricchire, da mettere a punto, ma non da lasciare intonsa. Non vale la pena sprecare anni e anni di scuola per rimanere identici, per farsi da sé.
Il vero lavoro intellettuale consiste nel rinnovarsi


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