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Intervista a Alessandro Fedrigo di Corde Alterne con Andrea Aguzzi

Creato il 09 gennaio 2015 da Empedocle70
Intervista a Alessandro Fedrigo di Corde Alterne con Andrea Aguzzi

Alessandro Fedrigo Website: http://www.alessandrofedrigo.com/ 
Quando avete iniziato a suonare la chitarra e perché? Con che strumenti suonate e con quali avete suonato?

Alessandro Fedrigo: Avevo 16 anni, ero al Liceo, ricordo che una notte su Rai 3 vidi un concerto che nell'1985 Miles Davis fece a Umbria Jazz, rimasi folgorato e iniziai ad acquistare dischi di jazz mosso più che altro dalla curiosità di "decrifrare" una musica che mi sembrava incomprensibile. Poi di seguito mi comperai un basso usato (un vecchio Ibanez) ed iniziai a suonare e a porendere lezioni.

Che studi avete fatto e qual è il vostro background musicale? Quali sono state e sono le vostre principali influenze musicali? 

A. F.: Il mio strumento (basso elettrico) non si insegna al Conservatorio, dunque all'inizio presi lezioni private da bassisti vari, ed iniziai subito a frequentare delle scuole di musica dove si faceva musica d'insieme. Da li ho iniziato a suonare praticamente in qualsiasi band mi capitasse, rock, funk, fusion, jazz, musica brasiliana, improvvisazione radicale. Dunque la mia formazione è essenzialmente da autodidatta, o comunque abbastanza casuale, nel senso che solo dopo qualche tempo ho iniziato a frequentare i seminari di jazz e di improvvisazione, e da ogni esperienza ho imparato qualcosa devo dire. Solo più recentemente mi sono iscritto al Conservatorio per laurearmi in Jazz, ma tutto sommato come musicista ero gà formato. Le mie influenze? Direi che Pastorius e Steve Swallow sono i bassisti elettrici che ho ammirato di più, poi Dave Holland sicuramente. Tra i "giovani bassisti" apprezzo molto Stomu Takeishi e Tim Lefebvre. Ma davvero ci sono moltissimi msicisti fantastici in circolazione.

Quale significato ha l’improvvisazione nella vostra ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc? 

A. F.:Penso che l'improvvisazione sia un elemento molto importante della mia ricerca. Ragiono più o meno in questi termini: c'è un improvvisazione che svolge all'interno di composizioni, o che usa come materiale di partenza una composizione già scritta, e una tipo di improvvisazione che chiamerei "libera". Nel primo caso il mio approccio è quello di approfondire la composizione, i  materiali di cui essa è composta, la sua forma e cerco per quanto sia possibile di interiorizzarla per poterla poi "trattare" o interpretare col massimo della libertà possibile, cercando di collegare il mio "gesto" musicale al momento, ai musicisti che stanno suonando con me, tenendo a mente che l'obbiettivo è rispettare la musica, la composizione e le individualità che attraverso di essa si esprimono. Nel secondo caso, ovvero nel campo dell'"improvvisazione libera" l'obbiettivo è quello di produrre estemporaneamente una struttura narrativa efficace e percepibile, quale che sia il materiale utilizzato. In questo senso, e tornando alla tua domanda, l'improvvisazione si può mettere in campo con qualsiasi materiale musicale, ovviamente il risultato dipende dal musicista e dalla sua capacità di comprendere, analizzare ed interiorizzare il materiale dal quale prende spunto. 

Una domanda un po’ provocatoria sulla musica in generale, non solo quella contemporanea o d’avanguardia. Frank Zappa nella sua autobiografia scrisse: “Se John Cage per esempio dicesse “Ora metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prendere o lasciare, ora Voglio che questa sia musica.” È davvero valida questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha ancora senso parlare di “genere musicale”?

A. F.: Cage a parte (compositore si cui sono un ammiratore e che ha aperto per me molte porte e mi ha dato grandissimi stimoli) credo che parlare di generi musicali non abbia più alcun senso, fose ci poteva aiutare a cercare rapidamente i cd in un negozio di dischi, ma ora mi sembra piuttosto inutile. Certo anche io alla domanda "che musica suoni?" Rispondo che suono Jazz, per comunicare spesso è necessario semplificare. Ma pensando ai miei ascolti, agli artisti che ammiro ci sia un filo che li lega, il filo della creatività, dell'onestà artistica e della volontà di ricercare, dunque non vedo "divisioni di genere" tra Stravinsky, Wayne Shorter, Derek Bailey e Aphex Twin. Sono tutti artisti che si esprimono attraverso i suoni, questo per me è sufficiente.


Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea, per non parlare del successo nella musica leggera, dove chitarra elettrica è ormai sinonimo di rock ... in quanto musicista polivalente e trasversale…  quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?

A. F.:Penso che se si scrive appositamente per uno strumento si debba conoscerlo. La chitarra è uno strumento per cui io fatico a scrivere, perché mi rendo conto che ha delle possibilità espressive e tecniche che non conosco, e che non riesco a "controllare" sullo spartito. Anche per questo motivo i pezzi scritti in modo "convenzionale" di questo duo sono composizioni di Roberto, che ben conosce la chitarra e che scrive in un modo polifonico che ritengo molto interessante e che deriva in gran parte dai suoi studi classici. Se scrivo qualcosa per chitarra, accade sempre che poi il chitarrista debba adattarlo al suo strumento, per renderlo più efficace ed espressivo. Di fatto credo che la chitarra sia uno strumento in grande crisi d'identità, sopratutto nel jazz. La chitarra ha avuto una formidabile evoluzione tecnica e sonica dagli anni sessanta, con grandi personalità innovative, anche sul piano strumentale, cito abbastanza a caso Hendrix, Fripp, Frisell, Holdsworth, Torn ora mi sembra che si sia tornati un po' tutti a soluzioni più tradizionali. E forse la stessa cosa sta accadendo per il basso, dove la tecnica, la velocità, il funambolismo hanno perso di vista la capacità di fare musica in modo interessante. Vedremo cosa accadrà.

Luciano Berio ha scritto “la conservazione del passato ha un senso anche negativo, quanto diventa un modo di dimenticare la musica. L’ascoltatore ne ricava un’illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla”, che ruolo può assumere la ricerca storica e musicologica in questo contesto?

A. F.: Credo che la frase di Mahler, citata da Roberto sia la risposta più efficace ed illuminante a questo tipo di quesito. Tutti gli artisti che ammiro/ammiriamo non hanno avuto paura di sfidare le convenzioni e le tradizioni per spingersi più in là, per soddisfare le proprie esigenze creative. E questa per me è la qualità che ammiro di più in un artista, anche trascurando i risultati a cui egli arriva. Mi sembrano sempre più importanti i processi.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

A. F.: Mi piace l'idea di una "Musica Terrestre", dove culture diverse, tradizioni, tecniche differenti confluiscano e si fondano e si pieghino alle necessità espressive. Qualche anno fa ho fondato un quartetto con Achille Succi, Giancarlo Bianchetti e Carlo Canevali che ho chiamato appunto "Quartetto Terrestre" con la volontà di produrre una musica che soddisfacesse questa pulsione. 

Una sorta di "esperantismo musicale terrestre", che permetta di costruire una nuova musica, da esportare su altri pianeti.

Ci consigliate cinque dischi per voi indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta..

A. F.: 

"Kind of Blue" di Miles Davis, un classico, inarrivabile.
"Night Passage" dei Weather Report, un buon esempio di Musica Terrestre a 360 gradi.
"Come to Daddy" di Aphex Twin, la musica elettronica, tante potenzialità per uno degli artisti più interessanti degli ultimi anni.
"La Sagra della Primavera" di Stravinsky, in una qualche incisione, ce ne sono tantissime di pregevoli. Non c'è nulla da dire per me su questa composizione, è meravigliosa.
"I, Claudia" Claudia Quintet, qualcosa di più recente e molto interessante. John Hollenbeck scrive della bellissima musica, e questo disco mi sembra uno dei più riusciti della loro produzione.

Quali sono invece i vostri cinque spartiti indispensabili?.


A. F.:
Ecco a parte ovviamente "Come to Daddy", dei disci che ho citato si possono trovare le partiture, anche la trascrizione dei soli in qualche caso. 
Mi sembra molto bello poter ascoltare e vedere le partiture.
E' un modo per entrare nella musica da un altra porta, per questo motivo mi piace molto che sul sito di nusica.org le partiture dei pezzi siano visibili e scaricabili.

Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli vi sentite di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?

A. F.:Suonare qualsiasi musica, senza preconcetti e preclusioni, cercando di incontrare persone interessanti e creative. Sperimentare sempre e con rigore.

Ricordarsi che nell'arte non esiste "giusto" e "sbagliato" ma cercare di trovare la propria voce mettendosi sempre in discussione.
Ricordarsi che quando suoniamo stiamo suonando per il pubblico che abbiamo davanti, e che qualsiasi cosa vogliamo comunicare abbiamo il dovere di provare a farlo in modo comprensibile.
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