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Intervista a Elena Arvigo: al cinema italiano manca curiosità

Creato il 09 gennaio 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

9 gennaio 2014 • Interviste, Vetrina Cinema

Nata e cresciuta a Genova, diplomata all’Accademia del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler, Elena Arvigo è senza dubbio un’attrice dalla formazione classica, come si definisce lei stessa, ma in fondo di stampo assolutamente moderno, data la sua spiccata capacità di destreggiarsi con disinvoltura tra teatro, cinema e televisione. Un’artista poliedrica, che sul palco è stata diretta da maestri del calibro di Carmelo Bene e Bruce Meyers e che sul grande schermo si presta tanto a importanti progetti internazionali come Mangia, prega, ama con Julia Roberts quanto a film italiani indipendenti e coraggiosi, come ad esempio il nuovo lavoro di Vittorio Moroni Se chiudo gli occhi non sono più qui, recentemente visto al Festival di Roma.

Elena, che è esperienza è stata per te il Festival di Roma?
Sul festival non posso dire tanto, perché non me lo sono goduto come mi piace fare solitamente, e cioè guardando i film. L’ho vissuto solo per un giorno, quello della première, ed è stata un’esperienza di vertigine, è emozionante partecipare ad un grande evento cinematografico con un proprio lavoro.

Com’è stato lavorare al film di Moroni?
Un momento bellissimo per la mia carriera di attrice, soprattutto perché mi ha dato la possibilità di lavorare con attori bravi come Anita Kravos e Ivan Franek.

Ha già una distribuzione il film?
Non lo so con precisione, credo di no, ma sono comunque felice perché il film sta ricevendo tanti apprezzamenti e sta avendo una buona visibilità internazionale. Con Vittorio ci sentiamo spesso e l’ultima volta mi ha scritto che stava andando a presentare il film al festival di Santa Barbara.

Teatro, cinema, televisione, cosa prediligi?
Ho sempre visto questo mestiere come un luogo dove far confluire le cose. Io sono un’attrice, e ciò che mi contraddistingue è la mia formazione, che è classica, di tipo teatrale. La formazione è importante per un attore perché ti dà un senso di appartenenza e ti crea dei parametri. In ogni caso, anche se in questo paese si tende sempre a scindere le cose, io ho una certa formazione di attrice a prescindere dal mezzo, che sia cinema, televisione o teatro. Devo dire però che il teatro mi ha dato e mi sta dando tantissimo, perché è il luogo dove l’attore può essere integro e intero

Il teatro rimane la prima passione quindi?
Il mio mestiere si costruisce sugli incontri e diciamo che il teatro mi ha dato la possibilità di incontrare tanti maestri.

Il cinema ancora non ti ha dato questa possibilità?
Ancora no, ma spero succeda presto. Comunque anche il cinema mi ha fatto fare incontri importanti.

Elena Arvigo

Ad esempio?
Come dicevo, sicuramente Vittorio Moroni, con cui ho lavorato benissimo. E poi vorrei citare i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, con cui ho girato da poco Il ratto, un film indipendente. Loro mi hanno riconciliato davvero con il cinema. Abbiamo recitato molto a improvvisazione e mi hanno dato la possibilità di mettermi in discussione, cosa fino ad ora che mi era successa solo una volta sul set, nel cortometraggio di Lorenza Indovina tratto da Niccolò Ammaniti. Il lavoro con i fratelli D’Innocenzo mi ha permesso di ritrovare nel cinema quella vitalità e vivacità tipiche del teatro. Ci siamo molto divertiti, e per me il divertimento si raggiunge solo quando ci si rende conto che si sta creando qualcosa che non sia morto già in partenza.

Credi che il cinema italiano dovrebbe rischiare di più?
Credo che non ci sia tanta curiosità. E poi sì, sicuramente c’è paura da parte di chi deve produrre.

Ti riferisci più allo stato o ai produttori privati?
Mi riferisco più ai produttori privati, anche perché in questo momento è difficile parlare di stato. In Italia i professionisti veri non sono pagati e gli stipendi alti vanno ai soliti nani e ballerini. C’è tanta gente brava nel nostro paese e chi lavora lo fa faticando. E poi va cambiato il sistema. Prendete ad esempio i premi cinematografici. I premi in Italia non sono riconoscimenti, ma degli strumenti: se vinci premi hai punti per ottenere i finanziamenti pubblici. E così si rischia che si dia lo strumento sempre agli stessi. I David di Donatello di quest’anno sembravano quelli del 1992.

E la situazione del teatro italiano com’è? Anche lì c’è crisi di pubblico…
Non voglio sottovalutare la cosa, ma prendo in considerazione la mia esperienza. Ho portato e sto portando in scena 448 – Psychosis, un monologo sul suicidio, che in realtà è una lettura delicata, tenera sull’umanità, sulla donna. E’ un’opera complessa, ma non è vero che la gente non vuole determinate cose, perché spesso ho avuto il teatro pieno. Sono i teatri che si devono fidare di più. Una volta l’operatore culturale aveva un ruolo importante sul territorio, oggi purtroppo non è sempre così.

Tra i tanti che hai avuto, qual è il maestro che ti ha dato di più?
Il primo, Giorgio Strehler, il maestro dei maestri. Lui ha il passo del vero maestro: energia, forza, vitalità. Non mi scorderò mai il primo provino con lui. Ad un certo punto dovevo cantare. Io non sono molto intonata, ma mi sono messa a cantare a squarciagola, a ballare. Finita la canzone, lui mi chiede di rifarla, ed io la rifaccio con ancora più intensità: ormai mi ero persa nella mia esibizione, cantavo e piangevo allo stesso tempo. Alla fine lui è venuto da me, io tremavo, lui mi ha abbracciata e ha detto al resto della commissione: “questo è teatro, ha dato tutto quello che aveva”. Il teatro è stupendo anche per questo, perché il sapersi perdere diventa una qualità.

Nel futuro vorresti più cinema nella tua vita professionale?
Il cinema lo voglio fare, assolutamente, e ho sfiorato anche grandi cose, diciamo che mi sento pronta per degli incontri belli.

In Italia o all’estero, come hai già fatto in passato?
Ho lavorato in produzioni straniere ma ho sempre fatto provini qui in Italia. Ora, dato che parlo inglese, francese e tedesco, mi piacerebbe provare anche ad andare all’estero.

di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net

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