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INTERVISTA A FRANCESCO DALESSANDRO (di Carmelo Pinto) (prima parte)

Creato il 18 aprile 2011 da Fabry2010

Testo introduttivo di Marino Magliani. Intervista di Carmelo Pinto.

Francesco Dalessandro è nato a Cagnano Amiterno (AQ) nel 1948; dal 1958 vive a Roma. Ha pubblicato: I giorni dei santi di ghiaccio (1983), L’osservatorio (1998), Lezioni di respiro (2003), La salvezza (2006), Ore dorate (2008), Aprile degli anni (2010), Gli anni di cenere (2010). È stato uno dei fondatori e redattori (dal 1984 al 1987) della rivista di letteratura “Arsenale”. Ha tradotto testi di Shakespeare, Marvell, Byron, Keats, Barrett Browning, Hopkins; gli americani Stevens e Rexroth; gli spagnoli Alvarez, Chica, Pujante, Gimferrer, Sanchez Rosillo; dal latino, Giovenale, Orazio, Ligdamo e Sulpicia.

Carmelo Pinto, traduttore e studioso di letteratura latinoamericana ha intervistato per La poesia e lo spirito Francesco Dalessandro. Ne è uscita un’intervista importante e lunga. Al sottoscritto, malgrado le interviste a rate non piacciano, l’idea di dividerla in due parti. Grazie.

- Hai scritto: “… nutrimento / letale dei poeti memoria e dolore…”. È da questo che nasce la Poesia?

Sì, e non sono il solo a pensarlo, naturalmente. (Montale, per esempio, lo scrive in una lettera a Clizia del 1933, pubblicata di recente). Aggiungo (e correggo) che una poesia nasce anche dal desiderio (e dolore e desiderio possono essere perfino sinonimi, come sappiamo): dal balsamo della memoria e dal castigo del desiderio; ovvero – facile ribaltare la definizione –, dal castigo della memoria e dal balsamo del desiderio.

- A proposito di Montale… Diceva che il poeta è un uomo necessitato…

Sì. Difatti, pare che avesse sempre le tasche piene di foglietti su cui aveva appuntato dei versi, che scrivesse ovunque: sui margini dei giornali, sulle scatole dei fiammiferi…

- Anche tu?

No. Io, benché non meno necessitato, scrivo poco e lentamente: una volta, per mancanza di tempo; ora, forse per pigrizia o perché la vena va esaurendosi; non porto foglietti in tasca, né appunto versi qua e là. Per scrivere ho bisogno d’essere a mio agio, di sedermi allo scrittoio, di disporre di buona carta, della penna o della matita giusta, del tempo sufficiente, di concentrazione e di solitudine; insomma, di quegli strumenti di lavoro ai quali Cavalcanti fece dire:

Noi siàn le tristi penne isbigotite
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

La fonte dei miei versi è sempre in un accadimento (reale o immaginario o, a volte, soltanto emozionale) e solo più tardi su quello si costruisce la poesia. La vita normale (riciclo le parole di Citati a proposito dell’Ivan Il’ič di Tolstoj) possiede una terribile forza sovrapersonale: una compattezza e una sicurezza quasi anonime; fatta com’è di abitudini, di ripetizioni, di rimozioni, di come sempre, di ottusità, e di una quasi incomprensibile leggerezza. Non so spiegarmi come la poesia possa introdursi dentro questo munitissimo sistema di difese. Ma quando ciò accade, cioè quando l’idea (una sensazione, un’impressione, cioè l’ispirazione), dopo essere riuscita a far breccia nelle mie difese, e dopo avermi abitato a lungo, inizia a prendere forma e a vestire l’emozione, diventando lentamente ritmo, respiro (ispirazione – inspirazione: la radice delle parole è la stessa, per questo, per me, una poesia è legata al ritmo del respiro), insomma, diventando poesia, entro in uno stato d’animo che direi, francescanamente, di “perfetta letizia”.

- E il poeta invasato dal dio?

Non ho mai creduto a quella storia. Preferisco pensare a un rovello interiore imbrigliato dalla necessità della forma. La nascita di una poesia somiglia all’evento raro della neve sulla campagna romana, sui colli del Lazio: quando sui versanti dell’Appennino tirreno, sottovento – cielo terso, poche nuvole sparse, aria secca e fredda, bassa temperatura –, spira qualche sbuffo di più umida e mite aria marina, si ha una rapida condensazione e nevica. Per la poesia è lo stesso: nasce quando nel cielo sereno della mente, all’aria secca e tersa del pensiero, alle sue basse temperature, si mescola l’aria più mite del sentimento, l’umore di un’emozione. Perciò niente è più lontano dal vero come credere che una poesia nasca per divina ispirazione, se non si è convinti ancor oggi che ogni evento atmosferico sia la manifestazione della volontà degli dèi.

- Valery diceva: “Il primo verso me lo dà Dio…”.

Non amo Valery. La sua battuta – se è vera – dev’essere stata una benevola presa in giro, non priva di consapevole ‘esprit’, nei confronti di qualche sprovveduto postulante. Ma naturalmente è vero che a volte un verso, o un’immagine, nasce spontaneamente e indirizza lo sviluppo di un’intera poesia.

- Questo volevo chiederti, infatti… La poesia non dovrebbe nascere spontaneamente? Come le foglie su un albero, dice Keats (che, per averlo tradotto, tu conosci bene).

Certo. Ma le foglie su un albero non nascono da un momento all’altro. Pensa quanto tempo e lavoro sono necessari alla natura per quel miracolo di spontaneità.

- Per questo lavori lentamente, com’hai detto?

Sì, sono lento e quel che scrivo lo sottopongo continuamente a revisione. Procedo per accumulo e sottrazione: come un pittore nella sostanza e uno scultore nella forma. La poesia prende corpo per accumulo e accostamento di particolari, come il quadro dall’aggiunta e dall’accostamento dei colori. (In questa prima fase, scrivo a mano; successivamente c’è la battitura: una volta a macchina, ora al computer. Il mezzo meccanico permette di visualizzare nel modo migliore la partitura ritmica del verso). Poi, comincio il lavoro della revisione, che è fatta di sottrazioni, di spoliazioni, di riduzioni, di continue limature; come lo scultore che lavora il marmo, che sottrae pian piano materia…

- Permettimi una digressione. Oltre che poeta, tu sei anche traduttore di poesia. In una intervista, Javier Marías ha affermato che ha imparato moltissimo dall’attività di traduzione; “soprattutto a calibrare le parole”, dice, e aggiunge che se dirigesse una scuola di scrittura richiederebbe ai corsisti, come pre-requisito, la conoscenza di una o più lingue straniere e li farebbe tradurre. “Riscrivere e ricreare un grande libro (perché per me questo è il compito del traduttore), è il modo migliore per imparare a farne altri”, conclude. Sei d’accordo? Per te è stato così?

Certo che sono d’accordo: l’esperienza che si acquista è preziosa e spesso decisiva. Per me non è stato proprio così, ma solo perché io a tradurre ho cominciato tardi. Ho fatto, insomma, il percorso contrario.

- Per te, cosa vuol dire tradurre?

Significa compiere un servizio umile ma orgogliosamente espletato; ovvero, porsi di fronte ad un testo, pronti a fargli da specchio, impiegando tutte le risorse di cui si dispone, in termini di sensibilità, capacità, attenzione, conoscenza della propria e dell’altrui lingua. Porsi, cioè, orgogliosamente al servizio del poeta da tradurre e renderne lingua, idee, concetti, sentimenti e senso con il moderno nostro sentire, se si tratta di un poeta di un tempo precedente; non aggiornandoli, cioè, ma illuminandoli affinché tali aspetti di cultura e sensibilità siano all’occhio e al cuore moderno comprensibili e non (per quanto possibile) traditi; o, nel caso di un poeta contemporaneo, superino le – ormai deboli – barriere della diversità di lingua e di sentire e si offrano a modi di sentire altri. Poi, si sa, una traduzione è solo il riflesso del testo originale: più di esso è caduca ed effimera; destinata a cambiare col passare del tempo e col mutare della sensibilità; destinata ad essere ogni volta riscritta, aggiornata, rifatta…

- Torniamo alla tua poesia. Qual è la prima cosa di cui ti preoccupi, scrivendo?

La mia prima preoccupazione è quella della chiarezza, perché (sono parole di Stendhal) “soltanto la chiarezza può rappresentare ciò che un uomo sente”. Intendo chiarezza sintattica, non solo di senso. E chiarezza significa disporre le parole in un loro “ordine naturale”; detto altrimenti, significa non piegare l’ordine sintattico della frase ad esigenze metriche (milioni di eccezioni, se – dice san Girolamo – “anche l’ordine delle parole è un mistero”). Le convenzioni metriche, gli artifici, minacciano la naturalezza (del discorso e della lingua) e tendono continuamente a sopraffarla. Il metro è un codice culturale; se si sostituisce al ritmo, che è ontologico, si trasforma da strumento in fine. Ad ogni verso si aprono trabocchetti. Per non caderci dentro bisogna vigilare continuamente, essere sempre desti e concentrati. Per questo non credo alla spontaneità, se non come primo impulso.

- E qual è il momento migliore? All’inizio o alla fine di una poesia?

Scrivere è un piacere e un tormento (le due cose vanno sempre insieme, si sa). Per me, ripeto, i momenti piacevoli sono “nel tempo del comporre”, come lo chiama Leopardi, il quale commenta: “Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità a passarle”. Il piacere sta nel “gusto della craftsmanship”, come lo chiama John Berryman. Il termine vuol dire abilità, perizia, maestria. Una maestria – secondo il grande poeta americano – “di rado fine a se stessa, essenzialmente per come coglie e rende visibile il suo soggetto. La versificazione, la rima, la strofa, la forma, il tropo, sono gli strumenti. Forniscono il mezzo con cui lo scrittore può foggiare, da un’esperienza in sé di solito vaga, mero sentimento o frase, qualcosa di coerente, diretto, intellegibile”. Insomma, tutto quello che fa della scrittura un’avventura della mente. La fonte del canto è sempre nell’emozione, ma questa è destinata a restare “mero sentimento”, come dice Berryman, se le parole, che sono la trama e l’ordito della poesia, il tessuto del pensiero, non la vestono. E il tormento dove sta? mi chiederai. Il tormento, la dannazione, sta nel fatto che le parole per esprimere quel “fuggitivo istante” non sempre si fanno trovare, non sono sempre a portata di mano; a volte si fanno aspettare a lungo, altre si aspettano invano.

- Ti hanno accusato, mi dicevi, di sentimentalismo.

Un amico, di recente, dopo aver letto Aprile degli anni, mi ha scritto che, per lui, il sentimentalismo “nell’esercizio della scrittura (qualsiasi) è una colpa non lieve. O meglio, è un privilegio un po’ perverso che hanno solo i cercatori di radici, i costruttori di itinerari, gli osservatori di paesaggi e di ricordi, i donatori di destini e di amori”. Insomma, sarebbe una mia perversione. In realtà, egli confonde “sentimentale” con “sentimentalismo”. E nella mia poesia non c’è sentimentalismo. Robert Lowell disse una volta, a proposito di un poeta amico, che “se non avesse osato essere sentimentale, non sarebbe stato un poeta”. Ciò è profondamente vero, e vuol dire assecondare la propria ispirazione. La lingua dei sentimenti può essere “leggera, emozionata e semplice”, come la sintassi dell’infanzia di cui parlo in una poesia di Lezioni di respiro, ma questo non vuol dire fare del sentimentalismo; anzi, quella leggerezza e semplicità di partenza sono il tramite per raggiungere la profondità, le machadiane “gallerie dell’anima”.

- Si capisce che non ami la poesia d’avanguardia.

No, non mi piace. Anche se, a dire il vero, ho provato a scriverne, a un certo punto. Una volta scrissi una poesia che cominciava così: Divenire in complicanze ed assidua frequentazione /moto in circolo obliquo altro da sé / 24 minuti per sera… (inutile continuare). La lesse Caproni e storse il naso: rinunciai per sempre. No, la mia poesia non vuol essere d’avanguardia, ma vuole rappresentare ciò che l’uomo sente. Se, appena scritta, una poesia ha bisogno delle note a piè pagina per essere capita, allora vuol dire che è già nata morta, che non è destinata a durare, ammesso che sia poesia.

- Un’altra accusa che viene fatta alla tua poesia è d’essere elegiaca, oggi che l’elegia è ormai inutile.

Un’altra accusa che non trovo giusta. Nella mia poesia non c’è né intimismo elegiaco né esibizione narcisistica, ma solo la messa in atto nella scrittura di una metodologia di tipo husserliano: è necessario partire dalle proprie esperienze di vita per esprimere idee. Se poi certe esperienze richiedono il tono elegiaco, che c’è di sconveniente? Non mi piacciono le generalizzazioni. Ti faccio un esempio. Pare che un poeta molto intelligente non consideri più i gabbiani, e in genere gli uccelli, soggetti degni della poesia e che ad essi preferisca cose più attuali, come copertoni o chewing-gum. Che dire? Copertoni e chewing-gum possono essere benissimo soggetti di poesie. Quel che non capisco è perché non possano esserlo più gabbiani e altri uccelli. Se è vero che il poeta deve esprimere lo spirito del tempo, non è detto che debba partecipare alla sua confusione.

- Ora, vuoi parlarci de L’osservatorio?

Se permetti, lo farò con le parole di Elio Pecora: “Diviso in quattro libri o canti, L’osservatorio si snoda dal mattino alla notte, in una giornata che accoglie in sé molte stagioni ed esperienze. Vi si percorre instancabilmente Roma, qui vista e raccontata con pacato e spietato amore. E se l’occhio – che indugia nelle strade e nelle piazze, nelle stanze della casa e nel chiuso della mente – non trascura aspetto e mutamento, è poi il continuo trepido trasalire dell’emozione e della percezione ad ampliare all’infinito il raggio di questo minuzioso osservare”.
La battuta in esergo al libro: “Raccontami quello che hai visto e che cosa potrebbe significare” (parole che Grace Kelly rivolge a James Stewart in una scena del film di Hitchcock La finestra sul cortile), serve a spiegarne perfettamente le intenzioni – e, in estrema sintesi, è la mia dichiarazione di poetica. Raccontare è significare, è dare un senso. Dall’accumulo dei dettagli (messi insieme, spiega Hitchcock, per disegnare un’idea) quali noi, secondo che ci colpiscono desideri e altri affetti, ce li figuriamo, nasce la visione. Le sequenze del poema rappresentano il tentativo di afferrare e di affermare il senso delle cose che (ci) accadono; il quale è davanti a noi, ma sfuggente, perciò noi non riusciamo a vederlo; o ci riusciamo solo a tratti, con gli occhi della mente. Il mio compito – il compito che mi ero dato – era quello di far “vedere, col potere della parola scritta”, la mia stessa visione e di darle un senso, il più semplice e chiaro, e obiettivamente possibile (proponendone, cioè, un possibile significato, uno fra i tanti, uno fra i possibili; al lettore, a chi vi era interessato spettava il compito di trovare il suo, di proporne un altro – alternativo e anch’esso possibile, il suo possibile). La poesia come un processo mentale esploso nella mente a partire dalla semplice visione.

- Perché hai sentito l’esigenza di riscriverne alcune parti e di ripubblicarlo?

La scrittura del libro – come spiego nella notizia finale che accompagna la nuova edizione – attraversò dodici anni cruciali, decisivi della mia vita; ne affiancò e accompagnò emozioni e mutamenti e ne registrò quasi in presa diretta realtà e visioni. Nonostante i dodici anni che impiegai a scriverlo, dal 1985 al 1997 (uscì in volume nel 1998, ma una prima parte era già uscita nel 1989 con l’amichevole avallo di Attilio Bertolucci); nonostante il lavoro così a lungo fatto, sentivo che c’erano ancora parti non realizzate, opacità o durezze sintattiche, asperità di sentire e di pensiero. Insomma, sentivo che il lavoro fatto non era stato sufficiente e che bisognava apportare correttivi e revisioni… E poi perché, quando uscì, se ne accorsero in pochi: ebbe il plauso – il solo che conti, è vero – di pochissimi amici; alcune lettere volonterose, accusandone la ricezione, espressero con poche parole imbarazzate un generico apprezzamento; guadagnò appena un paio di quegli “agrodolci gesti di tolleranza”, come li chiamò Fortini, che sono le recensioni dei colleghi-amici e niente altro. Siccome lo considero ancora un buon libro, mi è sembrato doveroso dargli una seconda possibilità.

- E di Lezioni di respiro, della sua forma così particolare, fatta di sonetti contrapposti, cosa ci dici?

Anche Lezioni di respiro è diviso in quattro parti, ognuna delle quali è composta da dodici sonetti (tali solo nella forma e nel numero dei versi) doppi, talora caudati, disposti a specchio, a rappresentare anche visivamente un incontro (confronto o scontro che sia). Le quattro parti stesse sono a specchio e i sonetti in corsivo all’inizio di ognuna (gli unici, si potrebbe dire, canonici) rappresentano un portale, sono un’indicazione di percorso.
Il libro continua in altra forma il teatro dei giorni e della natura, presente ne L’osservatorio; continua la mobilità della rappresentazione, anzi del racconto (perché raccontare, ripeto, non vuol dire solo rappresentare le cose che si sono viste, e che oggi è possibile conoscere meglio attraverso altri strumenti, più esatti delle parole, ma esprimere il senso di esse); la mobilità del racconto, dicevo, nel tempo naturale che macula e chiarisce, che ferisce e sana ogni cosa: i luoghi, reali o mentali, di una privata geografia, fondali del teatro sul quale si muovono le figure e le ombre che respirano o respirarono in quel tempo e dalle quali mi vennero i lacerti di conoscenza che la poesia tenta di lumeggiare. L’incontro genera comunque un dualismo. Il poeta e il suo doppio, conflittuali come Jekill e Hide eppure consapevoli della loro interdipendenza, si esprimono nell’affanno ansioso delle voci, senza trovare conciliazione; si volgono allora al passato: infanzia, adolescenza, prima maturità che sia, per cercarvi una possibilità di salvezza avvenire.

- Curiosa questa tua ripartizione – che torna quasi in ogni libro – in quattro parti e ogni parte in dodici testi…

Non è una ripartizione cabalistica, se è questo che vuoi sapere. Risponde più a suggestioni naturali, direi: le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, ecc., i dodici mesi, le dodici ore del giorno e della notte… Ma c’è anche un’altra ragione: darsi delle regole costringe a restare concentrati (e ciò vale nei due sensi: fisico e ideale).

(continua)



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