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Intervista a Mary B. Tolusso

Da Leragazze

Intervista a Mary B. Tolusso

Autrice de L’imbalsamatrice, suo  primo romanzo (ci auguriamo di una lunga serie), che mi ha incantato la scorsa estate e del quale si parla dettagliatamente qui, Mary B. Tolusso ha scritto libri di poesia (Cattive maniere,  Campanotto ed.; L’inverso ritrovato, Lietocolle, Premio Pasolini 2004). Sue poesie sono uscite anche su varie riviste tra cui Nuovi Argomenti, Almanacco dello Specchio Mondadori, Daemon, Gradiva. Inoltre, scrive di teatro e letteratura su riviste e quotidiani.

Detto doverosamente tutto questo, a noi piace andare un po’ più a fondo. E così abbiamo rivolto a Mary B. alcune domande per i lettori del nostro blog a cui lei ha accettato di rispondere diffusamente con grande disponibilità. La ringraziamo molto per questo.  

Questa domanda te l’avranno posta in tanti: ci uniamo al coro. Come è nata l’idea di N., la protagonista de L’imbalsamatrice che fa l’apprendista in un’agenzia di pompe funebri? E da dove hai tratto le conoscenze per entrare nei dettagli del suo lavoro?

L’idea nasce semplicemente dal fatto che sono cresciuta in un’agenzia di pompe funebri. Un po’ di cose le ho apprese lì, ma per la maggior parte dei dettagli che riguardano la tanatoprassi, cioè l’arte del trucco e dell’imbalsamazione, mi sono impegnata in un lavoro di ricerca e di studio sostenuti da manuali e riviste italiane ed estere.

Come è stato per una bambina vivere così a contatto con la morte?

È una questione che ci riguarda tutti, non credo di aver subito alcuna formazione extra sull’argomento, anche perché la morte degli estranei non ci colpisce particolarmente. Se fossi cresciuta a casa di un fruttivendolo avrei giocato a vendere frutta e invece mi divertivo a giocare con le imbottiture dei cofani. Le stoffe sono bellissime, di raso azzurro, rosa, bianco. Bastava agghindarsi e stringere una cintura in vita e ne usciva un abito del ’700. Travestirsi forse era molto più divertente che giocare al bottegaio.

Il tema della morte, così come quello della vecchiaia, sembrerebbe oggetto di rimozione collettiva. È così secondo te? E quali possono esserne le conseguenze?

Soprattutto lo è oggi che viviamo in un mondo completamente “igienizzato”, dedito a rimuovere qualsiasi difetto, figuriamoci la morte. L’Imbalsamatrice è anche una risposta ironica a un’epoca in cui tutto deve essere bello, adeguato, perfetto. Quindi perché non rendere belli anche i morti? In più oggi tutto si estetizza, la politica nello spettacolo, il sesso nella pubblicità, insomma tutto perde la sua specificità. Però quando tutto è politico niente è più politico, quando tutto è sessuale niente è più sessuale, quando tutto è estetico niente è più bello o più brutto. Le conseguenze, a mio avviso, hanno a che fare con la rimozione dei contrasti, e se non c’è contrasto non c’è dinamica, insomma un tassello in più verso l’appiattimento.

Un altro tema de L’imbalsamatrice è l’amicizia tra donne, una rete solidale cui si può far ricorso in ogni momento, un porto sicuro. Quanto è importante, secondo te, che possa rappresentare anche uno spazio di leggerezza?

In realtà le donne dell’Imbalsamatrice assomigliano anche agli uomini, mi piaceva l’idea di creare dei personaggi ibridi, indebolendo il genere sessuale e mantenendo vivi i temperamenti. Lisa, N., Silvia, Beatrice potrebbero essere anche dei ragazzi, non hanno aneliti particolarmente femminili. La leggerezza invece è precisa e ambigua allo stesso tempo, com’è scritto a un certo punto nel romanzo: Gli escrementi sono l’unico indizio di una dimensione interiore degli uomini, credo l’abbia detto Lacan, non proprio con questa formula. Questo per dire che il profondo viaggia in superficie, ci conosciamo tramite l’esterno, non l’interno, ma la “profondità”, nel linguaggio comune, con tutte le sue derive moralistiche, è uno di quei miti che mi stanno sulle palle. Tutti vogliono essere profondi, interiori, spirituali senza capire che la “leggerezza” è ciò che di più profondo abbiamo a disposizione, anche perché dà per acquisite e superate tutta una serie di analisi introspettive. È un passo in più, non in meno.

“La vita può cambiare” afferma la protagonista al termine del romanzo. Un messaggio di fiducia e ottimismo. In questi tempi è possibile condividerlo?

Che succede di questi tempi che non sia già successo nel corso dei secoli? Non mi interessano le riflessioni politiche, i disagi economici, in qualsiasi epoca si muore, non è mio compito riflettere sulle modalità giuste o sbagliate, non scrivo romanzi storici o storico politici. La frase del romanzo sopracitata è il seguito di una precisa formula chimica: quanto tempo ci mettono le ossa a imbiancare. Se c’è un senso per me è quello di cogliere e guardare con lucidità al fatto che non siamo eterni e cercare quindi di “distrarci” nel miglior modo possibile. È una poetica alla Wislawa Szymborska, la morte come fonte di vitalità. Mettiamola così: se domani mi diagnosticano un tumore sai quanto me ne frega che devo pagare più tasse? Spesso sono stata accusata di individualismo, ma io credo che nessuno possa davvero interessarsi all’altro se prima non è interessato a se stesso. Altrimenti sarebbe martirio e io non penso che i martiri siano modelli da imitare. L’auto-repressione genera mostri, io la vedo così.

Milan Kundera ha scritto: “Essere un cadavere è il più insopportabile degli oltraggi. Ancora un istante prima uno era un essere umano protetto dal pudore, dal sacro rispetto per la nudità e l’intimità, ed ecco, basta che sopravvenga l’attimo della morte perché il suo corpo sia improvvisamente a disposizione di chiunque perché sia possibile denudarlo, sventrarlo, scrutare le sue viscere, chiudersi il naso davanti al suo fetore, sbatterlo in ghiacciaia o nel fuoco”. Forse questa è la preoccupazione di molti. Non credi che la protagonista del tuo romanzo mostri che invece si possa fare tutto questo con delicatezza e rispetto?

In un certo senso sì, anche se non è la sua reale preoccupazione. Talvolta N. non si fa scrupoli a buttare viscere umane ai topi e non vengono risparmiati alcuni effetti terrificanti che possono accadere dopo la sepoltura, ma nulla è gratuito, cause ed effetti cruenti vengono spiegati anche scientificamente. È vero però che nella maggior parte dei casi il rapporto con i cadaveri è lieve, talvolta quasi lirico, sempre all’interno di uno stilema in contrasto, tragicomico.

Tu vieni dal mondo della poesia, hai pubblicato libri e hai partecipato ad antologie. Ho trovato fulminante, seppure sconfortante, la descrizione che dai di quel mondo in Lettura poetica: “È una serata fortunata, la sala/ conta almeno otto uditori./Dalla finestra milioni di camere/vuote con le tv accese./[…]/ Nell’orlo di una sedia grigia una ragazza sfila/la fibra e un uomo chiude gli occhi/pensando alla partita./[…]/«Che ora è?» chiede un marito in prima fila.” Il grande pubblico è ancora così lontano dalla poesia?

Il grande pubblico conosce a malapena Alda Merini e solo perché è andata in tv. Il grande pubblico non arriverà mai alla poesia, e io per poesia intendo un testo scritto per essere letto, escludendo tutte le modalità spettacolari, performatiche che stanno avanzando. Il testo scritto per essere esclusivamente letto, dunque, senza musica o altri sostegni multidisciplinari. È un genere destinato a rimanere isolato, anche se da dietro le quinte fa da apripista a tutti. È lì che pescano i grandi scrittori, è lì che si esercita la maggiore sensibilità al linguaggio e si impara a dominare la parola. Il grande pubblico vuole storie facili, e sempre di più, per cui escludo qualsiasi futuro avvicinamento al verso. Anche perché, per il discorso fatto poc’anzi a proposito della mancanza di contrasti e della costante scomparsa delle specificità, stiamo perdendo l’idea di metafora. Perché ci sia metafora c’è bisogno che una cosa ne rappresenti un’altra e le continue contaminazioni mettono fine a questa possibilità, alla possibilità che un lettore colga le metafore. Tuttavia non capirò mai le geremiadi di alcuni poeti per la mancanza di popolarità della poesia. C’è questa fissazione che la poesia possa rendere un individuo migliore. Ma dove sta scritto? Ma chi l’ha deciso? Prima che un individuo maturi una certa sensibilità al linguaggio artistico, deve maturare una certa sensibilità alla vita. Non è leggendo Leopardi che uno stronzo diventa meno stronzo. Se lo è, magari Leopardi le insegna ad esercitare meglio la sua meschinità. Non so se ricordi una delle scene de “Il silenzio degli innocenti”, l’ultimo incontro tra Hannibal Lecter e Clarice. Lui sta leggendo una rivista che si intitola Poetry, e non è che Hannibal fosse, come dire, una persona di cuore.

Come è nato il passaggio dalla poesia al romanzo?

Non mi sono posta il problema. A un certo punto volevo raccontare una storia e non stava dentro i 14 versi, così ho smesso di andare a capo prima della fine della riga.

Quali emozioni provi quando senti che un lavoro, che sia una poesia o un romanzo, è concluso?

C’è un senso di liberazione, ma anche un calo di tensione. Non è tuttavia paragonabile la fatica e la disciplina che impone un romanzo, rispetto a una poesia, anche se forse è più probabile scrivere un bel romanzo che una bella poesia. In ogni caso non c’è un’emozione precisa, piuttosto un calo emotivo, quindi da lì a poco so che cercherò qualcosa d’altro per rimanere in cima a una certa emotività.

Quali sono gli scrittori che ami maggiormente?

È difficile rispondere perché gli autori cambiano in base ai miei cambiamenti. Sicuramente Proust. Poi Philip Roth, Houellebeq, Welsh, Bernhard, Safran Foer, Eugenides, Franzen. Riconosco l’eccellenza tecnica di Ford, ma non mi coinvolge. Ultimamente sono sedotta da Hermann Broch.

Stai lavorando a un nuovo romanzo in questo momento?

Sì.

Che libro stai leggendo in questo momento?

Kalooki Nights di Howard Jacobson e ho ripreso in mano La prigioniera. Proust c’è sempre.

Quali sono le tue passioni oltre la scrittura?

Mi piace la moda, ma è difficile individuare stilisti in grado di inventarla. Forse Marc Jacob, Tom Ford e il giovane Antoine Peters mi sembrano gli unici creativi del momento. Ormai tutto è look, un puro effetto speciale senza volontà di significazione, questi invece fanno moda coniugando ironia e stile.

Quale musica ami ascoltare?

Musica pop e funky soprattutto, con qualche breve incursione verso la lirica e la sinfonica. Ma più della musica mi piace fare shopping.

Quali consigli daresti a chi volesse cimentarsi nel romanzo o nella poesia?

Non sono sicuramente in grado di dare consigli, l’unico suggerimento che mi viene in mente è di mettersi lì e scrivere senza parlare troppo di quello che si vorrebbe scrivere. Sai come la pensava Svevo: “è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente”.

Intervista a Mary B. Tolusso
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