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Intervista a Paolo Di Paolo

Creato il 11 novembre 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
Intervista  a Paolo Di Paolo

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro. Tra i vari ospiti c'era Paolo Di Paolo, con il quale sono riuscito a chiacchierare davanti a un caffè. Di Paolo era a Nemi per parlare di Mandami tanta vita, romanzo finalista al Premio Strega 2013, ispirato dalla figura di Piero Gobetti. Il risultato di questa chiacchierata lo trovate nelle righe qui sotto. (Sergio Vivaldi)

Sergio Vivaldi: Il romanzo è nato intorno al personaggio di Piero Gobetti. È un personaggio insolito, durante la presentazione spiegavi come sia stato sempre in secondo piano rispetto a Giacomo Matteotti, il cui omicidio ha segnato un punto di svolta del periodo fascista. Che valore vorresti dare al recupero della figura di un intellettuale antifascista degli anni '20 nel 2014, o 2013, anno di pubblicazione del romanzo?

Paolo Di Paolo: Tutti i personaggi storici finiscono in un pantheon, e anche Gobetti ne fa parte: quando studiavo alla Sapienza, quasi ogni mattina passavo da quella via che si chiama Piero Gobetti, è come se quasi tutte le mattine l'avessi avuto un po' nella testa. Ma non mi sono avvicinato a Gobetti a scuola né all'università, perché è una figura, non direi minore ma sicuramente più laterale, soprattutto perché muore molto giovane, e lo immagini solo come il nome di una via, come qualcosa di impolverato, di solenne. Allora lo sforzo doveva essere quello di riportarlo dentro una dimensione più affabile, più narrativa, per far capire che non sta su un piedistallo ma era un ragazzo di vent'anni. L'unico modo era non fare il saggio, perché sarebbe stato una cosa rivolta soltanto a chi già lo conosceva, ma un racconto. Questo racconto non doveva essere un romanzo biografico, perché ciò presupponeva seguire una diacronia, una biografia per intero, io invece volevo che ci fosse uno sguardo che portava il lettore a osservare quel personaggio, e lo sguardo doveva essere la mediazione narrativa. Lo sguardo, nello specifico, doveva essere quello di Moraldo, cioè di un anonimo, che guarda, che incrocia casualmente questa figura storica. In quel modo la avvicina, perché la vede, così, a un passo, come parliamo io e te.

SV: Spiegavi di non volevi fare un romanzo puramente biografico, e col non aver mai usato il suo nome hai tolto un importante elemento legato all'aspetto biografico, però la vita di Gobetti non poteva essere cambiata troppo. Ne consegue che solo Moraldo rende questo romanzo non interamente biografico.

PDP: Sì, l'immissione, dentro una storia calcata più o meno sulla realtà biografica, di un personaggio di finzione fa deflagrare l'impianto del romanzo biografico tradizionale, anche se c'è sempre un margine di invenzione. Immettere un protagonista, che è importante ai miei occhi tanto quanto quello storico, cambia completamente la prospettiva e anche il segmento di vita che scelgo è il segmento di vita dell'altro personaggio. Quindi tutti e due vengono raccontati su un piano di parallelismo, anche se a un certo punto si sfiorano, e tutta questa orchestrazione rompe l'equilibrio del romanzo biografico tradizionale, infatti dal romanzo, per esempio della nascita di Piero o dei primi anni, non sappiamo nulla, se non quello che appare qua e là perché viene recuperato in un flashback, ma è qualcosa di molto, molto meno massiccio di quello che sarebbe stato se avessi seguito una linea biografica.

SV: Il romanzo si muove su un piano storico, che è conseguenza dell'ambientazione, perché gli eventi che sono parte di quell'epoca hanno un'influenza enorme, e perché Gobetti è perseguitato dal fascismo. Ma tu durante la presentazione hai parlato di un'analisi anche psicologica dei personaggi, dicevi di volerli guardare da dentro la loro testa. È questo l'unico motivo per cui hai usato il flusso di coscienza o avevi anche qualche altra motivazione?

PDP: No, è esattamente questo. Ho usato molto il flusso di coscienza, perché mi interessava cogliere i pensieri di questi personaggi nel momento in cui si formavano quindi volevo dare proprio uno spessore psicologico. Questo è un romanzo di pensieri più che di azioni, un romanzo di idee e sentimenti, quindi credo che il modo di raccontare un po' fluido, liquido, dove conta tantissimo quello che il personaggio sta pensando, molto più di quello che fa, dava la percezione al lettore che fosse un'immersione nelle psicologie dei pensieri dei personaggi. Ma c'è anche un altro aspetto, legato al clima letterario di quegli anni. Ho voluto fare un gioco sfruttando l'impianto del romanzo modernista, sullo stile di Virginia Woolf, che esattamente in quegli anni emerge. Ho ambientato il libro tra il 1924 e il 1926, con il '26 come centro della narrazione, e Mrs Dalloway esce nel '24, Gita al faro nel '25: siamo proprio in quegli anni e volevo simulare stilisticamente certe attitudini del romanzo modernista proprio nel periodo in cui il romanzo modernista stava emergendo. Il flusso di coscienza che ho usato è molto Woolf-iano, e voleva essere un omaggio implicito a una narratrice che io amo molto e che proprio in quegli anni stava dando i suoi frutti più interessanti.

SV: Inserire il flusso di coscienza in un romanzo con una connotazione storica così forte è anche un elemento di dissonanza, perché è una contrapposizione.

PDP: Certo. Come ti ho detto prima, io non amavo molto l'idea di fare un romanzo storico tradizionale, con la solita terza persona, il solito sviluppo del fondale, mi sembrava un po' asfittica. Il romanzo doveva essere più breve rispetto al tradizionale romanzo storico, molto più intenso, molto più velocizzato, perché è una corsa contro la morte, quindi il monologo interiore aiutava ad accelerare. Era necessario dare questa accelerata forte che stringeva i tempi, li chiudeva, e questo, il flusso di coscienza aiuta a farlo.

SV: È stato definito da parecchie persone un romanzo per i giovani, anche durante la presentazione. La figura di Gobetti l'hai scelta perché era interessante, per tutti i motivi che hai detto prima, oppure perché speravi potesse anche diventare una sorta di ispirazione per le nuove generazioni?

PDP: Ho presentato tantissimo questo libro nelle scuole. Naturalmente non è semplice portare nelle scuole un romanzo che comunque ha a che fare con un tempo storico così lontano, però quando gli studenti hanno davanti una figura come quella di Gobetti, come un personaggio letterario e allo stesso tempo come personaggio storico, uno che ha l'età loro, in fondo, e fa questa quantità infinita di cose, secondo me funziona, li suggestiona. Se non lo si pone come la lezione sul personaggio storico, quindi qualcosa che, già di per sé, mette gli studenti nella condizione di pensare che non stiamo facendo un approfondimento del loro programma scolastico, allora si cominciano a chiedere come abbia fatto a diciassette anni a fondare una rivista. Questo attivismo, questo slancio, questa energia, comunque affascinano, così come quell'epigrafe che ho messo, che è di Dylan Thomas e recita «Vado avanti quanto dura il sempre», da una poesia che si chiama Ventiquattro anni, perché secondo me anche in una giovinezza che può apparire a tratti inerte, disincantata, ci sono sacche di resistenza e di volontà e un personaggio così, che sulla volontà basa tutto e sente che le cose si cambiano soltanto quando uno veramente vuole cambiarle, riesce ad avere ancora un'attrattiva. L'impegno non significa fare gli ammaestratori, però ho cercato di avvicinare una figura che secondo me ha un valore al di là della sua fine così drammatica. Non è tanto la sua condizione di esiliato o di vittima del fascismo, ma vedere come in un tempo che è ben più cupo del nostro è riuscito a scavarsi uno spazio di manovra. Allora nel momento in cui si dice, nel 2014, che non si ottiene niente, che in Italia fa tutto schifo e va tutto male, proviamo a pensare che cosa significava vivere nell'Italia del '24 con il questurino che veniva a casa e ti dava la diffida dal pubblicare qualunque articolo e ti bruciavano la tipografia. Fino a prova contraria siamo in un paese ancora libero, no? Poi le difficoltà sono oggettive, le esperienze all'estero sono formative e a volte anche necessarie, ma non mi piace questa idea per cui chi resta è inferiore. Sembra proprio che chi rimane è un perdente, ma non è così, bisogna anche ribellarsi a questa idea che chi resta è vittima di un paese senza speranza, non voglio fare politica però...

SV: Sì, e questa cosa non nasce soltanto da quelli che vanno all'estero e dicono che è meglio, nasce anche da chi rimane. Il concetto stesso di “fuga dei cervelli”, implica che se hai un cervello vai fuori...

PDP: E invece quelli che restano sono senza cervello...

SV: Esatto...

PDP: È allucinante, non è così, intanto perché le cose non sono così semplici neanche fuori, e poi il più delle volte ti accorgi che i nostri coetanei stanno fuori e lavano i piatti, allora se si vogliono lavare i piatti a Londra, benissimo, però li si poteva lavare pure a Nemi. Un conto è avere un orizzonte di vita in cui è possibile affermarsi, o esiste una necessità, per esempio per ragioni di studio, o in certi ambiti tecnico scientifici dove esistono più opportunità all'estero, però se si parte con una serie di ambizioni un po' confuse, perché si pensa che tanto in Italia non si ottiene nulla e lì si lavora come commesso o lavapiatti, non ho nulla contro questo, però non mi piace neanche che poi si dia la lezione a chi è rimasto. Allora mi sembra che questa figura ti dimostra che, fino a che le condizioni non sono quelle della negazione della libertà, a qualunque latitudine se si vuole veramente qualcosa si riesce a farla, il punto è quanta volontà hai. Poi questo non nasconde le difficoltà, che ci sono, e quando fai questi ragionamenti arriva subito chi ti dice che le difficoltà ci sono: è vero, ma c'erano anche allora le difficoltà, e molto maggiori.

SV: Grazie del tuo tempo.

PDP: È stato un piacere.

Piero Gobetti

Piero Gobetti


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