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Intervista alla poetessa Antonella Bukovaz

Creato il 30 ottobre 2012 da Temperamente

a cura di Alessandro Vetuli

Intervista alla poetessa Antonella Bukovaz
Oggi nel nostro salotto letterario ospitiamo la poetessa italo-slovena Antonella Bukovaz, della quale abbiamo recensito la raccolta al Limite e che così gentilmente ci ha concesso questa intervista. Ma dato che anche le parole hanno un "limite" lasciamo che sia lei stessa a parlare.

Che cos'è il "Limite"?

I romani chiamarono Limiti quelle pietre che segnavano i confini. Le pietre erano sacre, intoccabili. Io sono cresciuta su un confine, quello tra mondo slavo e latino. A pochi chilometri da casa c'è Caporetto/Kobarid, in Slovenia. Le montagne delle mie scorribande infantili sono una terra piena di Novecento da non poterne più. Una terra che ti sta addosso con il suo carico di storia ma che è anche un groviglio di fascinazioni. Cercare di guardare al confine, geografico e metaforico, come a una soglia, come a luogo di passaggio e di nuovo sguardo è uno dei migliori progetti che ha l'Europa. Il Limite, con la maiuscola, è il padre di tutte le domande che mi sono fatta sulla mia identità e sulla mia origine. È il padre della questione linguistica della minoranza slovena in Italia. È il problema e la sua soluzione. Lì dove tutto si addensa. Dove tutto si confonde.

in nessun altro luogo è così chiaro che non esiste la realtà ma solo la sua interpretazione. La forza della sua poesia sta nella sinergia tra parola, immagine e suono. Com'è nata l'idea di fare videopoesia?

Il motivo che meno volentieri ammetto è che avevo paura a stare da sola con la mia voce davanti a un pubblico. Ho sempre istintivamente saputo che ci vuole una forza, una sincerità potente e allo stesso tempo mite per dire la poesia. Questa consapevolezza mi intimoriva ed è stato il moto iniziale. Progettare la videopoesia è invece una volontà performativa che viene dal desiderio di passare un limite, quello tra le arti e soprattutto tra la poesia e le altre arti. Cerco una mescolanza e mi interessa lavorare con video artisti, musicisti e rumoristi. Mi interessa lavorare sui miei versi attraverso la lingua di altre arti e la lettura che ne fanno altri artisti. È una sorpresa assistere allo spalancarsi di una dimensione a volte impensata della propria poesia. E poi... mi diverto!

Il video di Storia di una donna che guarda al dissolversi del paesaggio si apre con l'immagine di una stanza in penombra con una finestra aperta, dove la lunga tenda bianca si pone come un sipario di luce dietro cui traspare l'evanescente sagoma della vita: il paesaggio. Quanto conta la natura e di conseguenza il paesaggio, in questa raccolta?

Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio è il testo dal quale nasce il libro al Limite. Quando ho cominciato a scrivere mi sono immaginata seduta in cima a una montagna nelle Valli del Natisone, dove sono cresciuta, e sono rimasta lì tutto il tempo che è durata la scrittura del libro. Ho bisogno di stare con i piedi sulla terra. Però il paesaggio al quale guardo non è composto solo da elementi naturali e materiali e particolari ma anche e soprattutto da fenomeni incorporei e universali come la presenza del confine, l'appartenenza a una minoranza linguistica, le guerre mondiali, l'incuria e l'abbandono, la lotta, la gioia e l'orrore della differenza... tutto questo è paesaggio e mi serve per dare un senso alla mia vita e alla poesia.

Quali sono le "linguesconfinate"?

Le lingue sconfinate sono lingue che hanno sconfinato e che non hanno confini, occupano luoghi immaginari, della memoria o reali, sono lingue madri e lingue sorelle, lingue evasive, abrasive, invadenti. Sono un limite e il suo superamento. Io sono cresciuta con tre lingue, quella italiana, quella slovena e il dialetto beneciano che è rimasto la mia sonorità di riferimento. I luoghi sono per me il suono del dialetto e nei nomi dei luoghi, diceva Thoreau, c'è tutta la poesia del mondo.

Gli scenari di queste poesia sono dominati dalla desolazione: case disabitate, muri scrostati, alberi spogli, brandelli di pietra e di tronchi abbandonati nell'acqua; però, "tra le macerie un senso" . Quanto si può imparare dalla maceria?

No, non so se si può imparare dalle macerie. Giacciono fuori e dentro di noi senza rifondare alcuna bellezza. La maceria semmai nasconde un senso e lo rivela a chi sa cercare e mettersi in ascolto. Ho voluto, con i versi "tra le macerie un senso" legare più strettamente a me un poeta molto caro, Antonio Neiwiller, regista di teatro, drammaturgo, attore.

Da "Per un teatro clandestino"

È tempo di mettersi in ascolto. È tempo di fare silenzio dentro di sé. È tempo di essere mobili e leggeri, di alleggerirsi per mettersi in cammino. È tempo di convivere con le macerie e l'orrore, per trovare un senso. Se fare poesia è "disegnare una traccia verticale alla terra", come possono oggi i poeti, combattere l'idea che la poesia sia solo "un arto fantasma"?

Forse dovremmo occuparci meno di poesia e cercare di fare in modo che sia la poesia a occuparsi di noi.

Leggendola e ascoltandola, le avevo già scritto, mi ha ricordato moltissimo Mariangela Gualtieri e per questa domanda vorrei rifarmi proprio a dei suoi versi: "Adesso fa notte - fa preghiera. / Apre le serrature del silenzio / fa apparire la mappa siderale / e ci inginocchia per quello spazio immenso / fra qui e l'orlo / del cominciamento / quando le spine dorsali / stanno tutte stese." Dove l'ha portata la "mappa siderale", "la geografia" che porta "tatuata sotto la pianta dei piedi"?

La "geografia che porto tatuata sotto la pianta dei piedi" è un verso che porto in tutte le mie poesie. È la mia bussola, il mio orientamento. Mi ricorda che io sono il calco del mio cammino, del peso del mio corpo. Sono le tracce che lascio. Sono i segni che mi lascia lo "spazio immenso tra qui e l'orlo". Sono molto gratificata dalla prossimità che più persone mi riconoscono con Mariangela Gualtieri. Il mio lento e cauto incedere nel mondo della poesia mi ha portato anche a lavorare, in una sola occasione, nel teatro. Il progetto era fondato sul suono e il mondo che lì si apre è una vertigine. Ma quello su cui maggiormente mi concentro sono le performance con suoni e immagini e la recitazione a memoria. Raccontare la poesia tenendo un contatto visivo con chi ascolta esalta la passione delle parole, crea un luogo sospeso... per tornare alla sua domanda il fatto è che io non voglio andare da nessuna parte, mi piacerebbe riuscire a stare qui, dove sono. Essere il mio sguardo e non dove si posa.

La sua poesia è piena di vita, un continuo climax ascendente che parte dall'assenza per arrivare all'essenza. Specialmente leggendo un suo verso ho sentito una forte carica di speranza e un'oggettiva, spesso ignorata, constatazione: "Se allungo la mano invano - tento di afferrare il mio pane / scopro tra le mani certezza di scorte inesauribili". L'opinione di un poeta a mio avviso è molto importante, perciò le chiedo: cosa consiglierebbe ai giovani che oggi cercano di "allungare le mani" verso la poesia, scrivendola, proprio per "afferrare" il proprio "pane" di uomini ?

Che la poesia sia pane! Pane quotidiano. Che sia nell'agire disinteressato. Non è un consiglio ai giovani, i consigli non funzionano. Lo so come insegnante e come madre. Cercare di vivere la poesia e non di poesia è invece un'azione che travalica la letteratura e diventa etica di vita. Io credo nella poesia come comportamento in relazione al mondo, quasi come un dovere morale, l'espressione del sentimento civico, di un impegno nella collettività. Dopodiché la poesia si può anche scrivere. E si può scrivere di fabbrica e di fiumi, di nostalgie e di attualità, si può lavorare sulla forma, sulla sonorità, sulla multimedialità. Ma sono passi successivi al nostro essere uomini e donne aderenti al senso di umanità e di civiltà che richiede impegno, pulizia, coerenza, attenzione, ascolto... come scrive Eliot "Per noi non c'è che tentare. Il resto non ci riguarda.".

Ringraziamo Antonella Bukovaz per la sua cortesia ma soprattutto per il suo vapore poetico che esala dalla parola per liberare.

Alessandro Vetuli


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