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Intervista con Federico Marri (prima parte)

Creato il 15 giugno 2012 da Marcolenzi

Federico Marri, docente di Storia ed Estetica musicale presso l’Istituto di Alta Formazione Musicale “P. Mascagni” di Livorno, mi ha fatto una lunga intervista che metto qui in versione integrale (una sintesi è stata pubblicata in: Livorno Cruciale. Quadrimestrale di arte e cultura, IV/8 (gennaio-aprile 2012), Pisa, ETS, pp. 26-29). Vi si parla di Livorno, di Clementi, Cardini, Feldman, Cage, di Darmstadt, di pittura, di tappeti, di composizione e di tante altre cose.

***

Dunque, intanto di’ un po’ chi sei, quanti anni hai, da dove vieni.

Ho quarantaquattro anni. La mia famiglia è a Livorno dalla metà del Settecento: nove generazioni. Sono nato a Livorno e ho vissuto sempre qui, a parte sette anni durante i quali ho vissuto a Rosignano, venti chilometri più a sud. Poi sono rientrato.

E fra i tuoi antenati ci sono musicisti o sei il primo della serie?

No, musicisti no. Grandi appassionati, musicofili. Mio bisnonno aveva un grammofono e una discreta collezione di dischi già negli anni Dieci.

Cosa ascoltava? Melodrammi?

Musica classica: melodrammi, certo, ma anche musica sinfonica. Frequentava i concerti. Era commesso viaggiatore e quindi girava per l’Italia. Ha trasmesso l’amore per la musica a mio nonno, il quale a sua volta l’ha trasmesso ai suoi figli. Però nessuno dei miei antenati, a parte le consuete lezioni di pianoforte che presero mio nonno e i suoi fratelli da piccoli, si è poi dedicato seriamente alla musica.

E quindi a un certo punto ti sei messo a suonare.

Sì, la chitarra.

Perché hai scelto la chitarra?

Sono nato come ascoltatore e lo sono rimasto a lungo. Quando avevo tre o quattro anni i miei mi regalarono un piccolo giradischi Lesa e i 45 giri erano già allora tra i miei regali preferiti. Li cercavo, li chiedevo. Ho quindi cominciato a farmi una collezione personale di dischi da quando ero molto piccolo. Poi verso i sei-sette anni mio padre iniziò a portarmi ai saggi del Mascagni: ci andavo volentieri ma mi intimidiva un po’ l’atmosfera del Conservatorio, per cui non volevo saperne di fare l’esame di ammissione per qualche strumento. Preferivo rimanere ascoltatore. Finché la chitarra non mi fece cambiare idea.

Eri già abbastanza adulto?

No, avevo dodici anni. Siccome amavo molto anche la musica pop, vedevo nella chitarra uno strumento che mi offriva la possibilità, come si dice, di tenere i piedi su due staffe.

Cosa ascoltavi a dodici anni?

Ero fissato con i Kiss. Mi piaceva l’hard rock.

Già a dodici anni, l’hard rock?

Sì. Amavo molto il suono della chitarra elettrica. Ma amavo anche la musica classica. Non ho però iniziato a studiare al Mascagni, poiché all’epoca non c’era ancora la cattedra di chitarra, ma a Montenero con Roberto Sbolci, chitarrista e compositore, il quale, a sua volta – come quasi tutti i chitarristi classici – aveva avuto una formazione sia classica che pop. La chitarra fu una scelta felice anche per il mio temperamento di allora, poco incline al dovere e alla disciplina severa del Conservatorio. In quella scuola vi era un clima di assoluta serenità, che mi giovò moltissimo. Lì vi conobbi subito anche Marco Gammanossi, che a quattordici anni già suonava benissimo la chitarra e componeva e improvvisava con assoluta scioltezza. Mi innamorai così della musica di Tarrega. I Kiss e Tarrega erano i miei idoli musicali dell’epoca.

D’altra parte il repertorio chitarristico, specialmente quello novecentesco, è molto vicino alla musica popolare e quindi è abbastanza facile raccordarsi con quella musica. Ma, a proposito di ambito classico: hai fatto il classico?

No, ho fatto studi tecnici all’Iti fino alla prima metà circa della quarta a indirizzo informatico. Poco prima delle vacanze natalizie abbandonai la scuola, mi misi a studiare il latino dieci ore al giorno e nel giugno successivo presi la maturità magistrale da privatista.

Sintomo di un’adolescenza difficile?

No, avevo scelto l’Iti perché mi piaceva la matematica e mi attraeva l’informatica (erano i primi anni Ottanta, gli anni pionieristici del Commodore 64), ma fondamentalmente perché a tredici anni si è perlopiù degli incoscienti. Mi accorsi di aver sbagliato scuola solo quando, tra la seconda e la terza, mi innamorai follemente della letteratura e della filosofia, ma era un po’ tardi per cambiare. Resistetti un anno e mezzo vivendo di rendita e studiando poco (invece di fare i limiti e gli integrali leggevo Rimbaud e Nietzsche), poi crollai. Ero un tipo un po’ strano: la mattina andavo all’Iti e il pomeriggio frequentavo l’ambiente del classico. Molti di quelli che poi sarebbero divenuti i miei amici più cari andavano infatti al liceo.

Tra questi amici c’è qualcuno che ha fatto carriera?

Certo. Simone Lenzi, per esempio, che con i Virginiana Miller si è distinto come uno degli autori più interessanti nell’attuale scenario pop italiano. Poi Nicola Perullo, professore di Estetica all’Università di Pollenzo e autore di interessantissimi libri sui rapporti tra filosofia e gastronomia, un ambito di ricerca del quale è un po’ un pioniere. E molti altri che oggi sono rinomati professori, giornalisti, magistrati o galleristi. Simone e Nicola sono ancora oggi tra i miei amici più cari.

Quindi, in sostanza, ti muovevi fra la matematica, la filosofia e la musica…

Sì. Be’, la musica l’ho sempre amata moltissimo; come dicevo ho iniziato a studiarla seriamente a dodici anni, finché poi a diciassette non sono entrato al Mascagni.

Si possono quindi vedere già qui i fondamenti di questo tuo interesse da adulto maturo, il desiderio di associare la musica con la filosofia, la letteratura, le arti in generale.

Sì. Io ho avuto un percorso di studi irregolare, da autodidatta. L’unico corso di studi che ho seguito regolarmente dall’inizio alla fine è stato quello chitarristico. Anche gli studi universitari di filosofia sono stati un po’ saltuari: ho avuto due o tre battute d’arresto, dovute all’attività concertistica, e mi sono perciò laureato tardi, a trentacinque anni.

La chitarra l’hai studiata quindi al Mascagni con Flavio Cucchi.

Sì. Entrai al quarto anno, quando fu istituita la cattedra nel 1985, e mi diplomai sei anni dopo, nel 1991. 

Ed è qui che ci siamo incontrati. Hai frequentato i corsi di Storia della Musica, con me, e quelli di Armonia…

…con la mitica Maria Rachele Ripoli, che mi voleva bene…

…E che era una persona… come la potremmo definire? 

La Ripoli? Una donnina amabilissima con tutte le sue regoline, molto rigorosa. Ci faceva fare questi bassi del Tissoni molto, molto scolastici. Ma sai qual è la curiosità? Fu lei a farmi conoscere, prima ancora di te, la Seconda Scuola di Vienna. Mi doppiò delle cassette col Wozzeck di Berg e con altre opere di Schönberg e di Webern quando iniziai a manifestare un certo interesse per le avanguardie storiche. Come ti dicevo, infatti, io amavo la musica classica ma le mie conoscenze si fermavano dove si fermavano quelle di mio nonno, i dischi del quale rappresentavano la mia principale fonte di conoscenza, e quindi grossomodo a Stravinskij. Non sapevo dunque niente né di Schönberg né tantomeno delle seconde avanguardie.

E quando studiavi la chitarra pensavi di fare il chitarrista?

Non proprio. Più che alla chitarra ero interessato alla musica. Diciamo però che amavo suonare. Oltre all’attività concertistica nell’ambito classico suonavo in alcuni gruppi rock sperimentali.

Gruppi livornesi, immagino. Qualche nome?

Gli Avvocati, Saghe Islandesi…

In questi gruppi c’era qualcuno che poi si è distinto?

Nelle Saghe Islandesi c’era Luca Brunelli Felicetti, fondatore con Federico Maria Sardelli e Roberto Sbolci del gruppo di musica antica Modo Antiquo, oggi una celebrità internazionale. Ora è il direttore della Bonamici di Pisa e incide musica medievale per case discografiche importanti.

Di te Cucchi cosa diceva?

Credo fosse contento di me. A Cucchi devo molto. È stato un insegnante rigoroso ma anche molto permissivo, cosa abbastanza rara nei Conservatori. Non solo non mi ha mai criticato per il fatto che coltivassi altri studi e interessi, ma anzi li approvava e ne era interessato lui stesso. La mia formazione è stata segnata perciò da questa interdisciplinarità e molteplicità di interessi. L’anno dopo che entrai al Mascagni mi iscrissi alla facoltà di lettere e filosofia dell’università di Pisa e in seguito cominciai a interessarmi anche di arti visive, in particolare di pittura.

Quindi intorno ai diciotto-vent’anni si è definito un po’ l’ambito dei tuoi interessi.

Sì, a parte la composizione, che arriverà comunque poco dopo. 

Parliamo dunque dell’incontro con la composizione.

Anche l’interesse per la composizione non è sorto in seno a studi regolari e accademici. Ho preso qualche lezione di contrappunto e di armonia da Pietro Rigacci, a Firenze, ma sono fondamentalmente un compositore autodidatta. È stato l’incontro con la musica moderna e contemporanea che mi ha stimolato a comporre, unito ovviamente a una sempre più impellente esigenza espressiva. Nel 1984 ascoltai per la prima volta un pezzo di musica radicale, Nuits di Xenakis, magistralmente eseguito dal Groupe Vocal de France durante un concerto a Villa Mimbelli, e ne rimasi sconvolto. La traccia che mi lasciò fu profonda ma rimase sopita per qualche anno, finché verso i ventun’anni cominciai a sentire il forte desiderio di scrivere qualcosa. Fu fondamentale in questo senso l’incontro con Alessandro Amoretti e la frequentazione assidua della sua casa.

Chi è Alessandro Amoretti?

Un pianista, compositore e direttore d’orchestra livornese che aveva studiato a Lucca e si era perfezionato a Mosca. Ha poi girato un po’ il mondo: Russia, Stati Uniti, Paesi Scandinavi e Germania. Era l’unico all’epoca, a Livorno, che componesse in un linguaggio radicale e che possedesse molti dischi di musica contemporanea (Stockhausen, Boulez, Nono, Maderna, Clementi). Ovviamente nei negozi di dischi non si trovava praticamente nulla di queste cose, e quindi per me fu un po’ come la manna dal cielo. Ho imparato tante cose da lui e dalle infinite conversazioni che abbiamo avuto. La sua musica mi affascinava molto: erano pezzi brevissimi ma molto pregnanti, meditati a lungo e sofferti. Riuscii a organizzare al Mascagni, nel 1990, un concerto monografico a lui dedicato che ebbe uno straordinario successo di pubblico. Oggi vive e lavora in Germania come pianista accompagnatore presso diversi enti lirici e come libero professionista.

Quindi un altro livornese in esilio, insomma. E lui che ne pensa di Livorno?

Mah, credo ne pensi male. Ci torna raramente.

Torniamo a noi. Quindi, Amoretti ti ha consolidato questo interesse per la musica contemporanea. E intanto erano cominciati gli studi di filosofia.

Sì, a Pisa. All’inizio ne ero molto assorbito. Frequentavo assiduamente i corsi, che erano molto interessanti. A quell’epoca la facoltà era animata da figure di eminenti studiosi come Nicola Badaloni, Francesco Barone, Remo Bodei e Aldo Gargani, col quale poi mi sono laureato. Ma gli esami andavano un po’ a rilento non solo a causa degli studi musicali, ma anche perché mi soffermavo e approfondivo oltre il dovuto gli autori e i libri che mi affascinavano di più, che fossero o meno inseriti nei programmi d’esame. Diciamo che nei primi due anni sono riuscito a tenere il passo, poi la musica mi ha richiamato perché dovevo diplomarmi e poi perché ero entrato a far parte della Guitar Symphonietta di Firenze, un ensemble di ventisei chitarre diretto da Leo Brouwer col quale facemmo concerti in tutta Italia e incidemmo un cd. Ho rischiato di non laurearmi e devo al sostegno di Gargani, il quale credeva molto nei miei studi su Feldman e sui rapporti tra musica e pittura che allora andavo approfondendo, se sono riuscito a portare a compimento gli studi universitari.

Amoretti dunque ti ha consolidato l’interesse per la composizione musicale. Però ovviamente ci sono state anche altre figure, fuori di Livorno, che successivamente ti hanno indirizzato stilisticamente.

Certamente. Gli anni della prima gioventù sono, com’è noto, intensissimi: in pochi mesi passi attraverso esperienze significative e diverse che in età adulta si estendono invece per anni. Morton Feldman e Aldo Clementi furono per me la vera, definitiva rivelazione nel cammino verso la composizione.

Di Feldman parleremo dopo, quando parleremo del tuo libro. Clementi tu l’hai conosciuto e frequentato anche personalmente. Anche Cardini, se non ricordo male. Sono due figure importanti.

Quando mi imbattei nella musica di Feldman il compositore era morto da poco (morì prematuramente, a soli sessantun anni, nel 1987, e le sue cose le vidi e ascoltai per la prima volta verso la fine dell’anno dopo). Ho sempre cercato di conoscere e di frequentare personalmente coloro che sentivo più vicini alla mia sensibilità: quindi in primis Aldo Clementi, che era già un mio idolo e che sentivo, forse per il comune ascendente pittorico, molto vicino alla poetica di Feldman.

Per facilitare la comprensione di chi legge si può forse accennare al fatto che siamo alla fine degli anni Ottanta e quindi in un periodo in cui lo sperimentalismo dell’avanguardia era già finito da tempo e aveva lasciato il posto a un riflusso.

Sì, era l’epoca dei ‘neo-qualcosa’: neoromantici, neostrutturalisti…

C’era un po’ di confusione, insomma, ma quella di Clementi è una figura con una sua precisa identità, non scalfita da mode o riflussi.

Per me infatti Clementi è stato in tutti i sensi un modello, non solo musicale ma soprattutto etico. Ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente e di diventare suo allievo quando venne a Firenze per due anni di seguito a tenere dei seminari di composizione presso la sede staccata del Conservatorio ‘Cherubini’, nell’ambito dei corsi di perfezionamento del Gamo (Gruppo Aperto Musica Oggi, storica associazione musicale fiorentina per la promozione della musica contemporanea).

E se tu dovessi spiegare ai profani com’è la musica di Clementi in due parole?

La musica di Clementi, al di là di un primo impatto spesso ostico per la sua freddezza, per la sua apparente disumanità, se ascoltata e penetrata nel giusto modo, con la giusta umiltà, rivela universi sonori fantastici, straordinari. È una musica diversa da tutte le altre, che emana un fascino severo, è fondamentalmente statica e quindi più vicina all’immagine pittorica che non al flusso discorsivo della musica.

Quindi forse in questo si può trovare una congiunzione con la musica di Feldman.

Assolutamente sì, proprio in questa staticità di fondo. Un altro dei pochi compositori italiani che condividono questa estetica è appunto Giancarlo Cardini, col quale ho stretto una profonda amicizia che dura ancora oggi.

Diciamo anche, sempre per i lettori, chi è Giancarlo Cardini.

Cardini è stato ed è uno dei protagonisti dell’avanguardia musicale italiana. Grande pianista, oltre che compositore, stupefacente interprete della musica di Bussotti, Chiari, Cage, Feldman, Clementi. Una figura straordinaria. Un punto di riferimento.

È interessante questa cosa dei tuoi rapporti con i compositori, musicisti in generale. Prima mi hai detto: “Mi sarebbe piaciuto conoscere Feldman ma purtroppo non ce l’ho fatta”. Quindi, mi sembra di capire, anche da quello che hai detto prima su Amoretti, che tendi ad allacciare non solo rapporti di docenza-discenza normali.

Ci dev’essere un’empatia umana. Per me è molto importante. Più importante anche dello studio vero e proprio, che ho comunque fatto studiando sui tradizionali manuali di armonia e contrappunto, ma soprattutto analizzando le opere dei compositori che mi interessavano di più.

Raccontandoci la tua evoluzione umana e artistica abbiamo percorso più o meno vent’anni dalla fine degli anni Ottanta, nei quali si viene a formare, a delineare un po’ la tua personalità artistica. Hai parlato di avanguardia, di Feldman, di Stockhausen, di Boulez. Ecco: vivendo in una città come Livorno, nella quale credo pochissimi abbiano avuto la percezione di quello che stesse accadendo nel mondo di questa certa musica, cosa significa tutto ciò?

Certo, questa è indubbiamente una caratteristica negativa della città: la sua chiusura cronica, dovuta perlopiù al suo narcisismo, alla sua inestirpabile autoreferenzialità.

Vorrei sapere come ti sei trovato tu stando a Livorno e frequentando però una dimensione artistica diversa: tu vai a Firenze una settimana per fare lezione con Clementi, vivi in un mondo tutto fatto di modernità, di attualità, di presente insomma, creativo, torni qua e ti imbatti nella solite cose.

Be’, in realtà non è proprio così. La situazione di Livorno è sempre stata un po’ paradossale. C’è sempre stata una Livorno invisibile, una Livorno sotterranea, ‘underground’, come si diceva un tempo, molto ricca e vivace. Le persone non mancano, il materiale umano non manca: di contro non c’è mai stata a Livorno una cultura ‘ufficiale’ degna di un reale interesse.

Stai dicendo che non esistono interlocutori validi.

Nel senso che le stagioni concertistiche, teatrali, che si fanno a Livorno sono tutte o quasi tutte riempite di cose importate di seconda o terza mano: nulla di originale. Non c’è mai stato un pensiero originale a livello istituzionale a Livorno. Non c’è mai stato un ricambio e questo ha favorito anche un certo irrigidimento, una sclerosi, diciamo così, una continuità di mediocritas nel senso etimologico del termine, nel senso cioè di un qualcosa che non prevede colpi o sussulti. Una copia sbiadita e tardiva di quello che passa nei centri ‘importanti’.

Tu dici che anche oggi in questo underground livornese ci sono personaggi interessanti?

Ecco, questo non lo so, ho perso un po’ i contatti. Vivo a Livorno ma vivo prevalentemente nel mio studio, esco raramente. Quello che all’epoca passava dal Goldoni, dalla Gran Guardia, da I Quattro Mori non era nulla di particolarmente stimolante. Erano perlopiù gli Uto Ughi che, tra un concerto a Roma e uno a Milano, venivano acciuffati e fatti passare per Livorno. Non c’è mai stato un pensiero vero dietro queste cose, quanto un ‘seguire la scia’. Poi, devo aggiungere, quello che manca e che è sempre mancato è una seria valorizzazione delle competenze, delle conoscenze, della dimensione più intellettuale e progettuale. È sempre mancato un qualsivoglia progetto, una lungimiranza, in una parola: una vera idea.

Comunemente quando si fa un’osservazione di questo genere si dice: “Eh, però, se facessimo queste cose non ci verrebbe nessuno a sentirle”.

Si deve creare una tradizione. Non si può pensare che le cose funzionino o non funzionino fin da subito, di punto in bianco… manca appunto il progetto e la lungimiranza: si inizia con poche persone, con poco pubblico ma si cerca di creare una continuità, ci si dà un tempo per coltivarsi un pubblico.

Però è un fatto che, a parte alcune cittadelle che hanno una loro storia specifica, in Italia (ma non soltanto in Italia) la musica non dico contemporanea ma nemmeno del Novecento storico abbia grande seguito.

Mah, in Germania, lo sai meglio di me, i concerti di musica contemporanea sono pieni di giovani, sono frequentati. Almeno si sa che c’è, che questa musica esiste.

In Italia spadroneggia Allevi, il moderno è Allevi.

Il punto è creare un pubblico di duecento persone in una città di centocinquantamila. Almeno una persona su mille che si interessi a queste cose. Stante il fatto che la musica contemporanea non avrà mai platee da stadio. Il problema è quando di persone ne vedi tredici… il target dovrebbe essere un pubblico di un paio di centinaia di persone.

Be’, a Parma Philip Glass riempie gli stadi.

Sono eccezioni. Philip Glass è un fenomeno americano. Se va a suonare a Firenze c’è sicuramente anche la delegazione livornese che va a sentirlo. Si dovrebbe in generale, dicevo, darsi da fare per creare questo pubblico. E In realtà poi questo pubblico a Livorno, se si parla dell’underground, c’era effettivamente. Ricordo ad esempio che nei primi anni Novanta c’era uno spazio per queste cose – all’epoca si chiamavano ‘spazi alternativi’ – che era accanto a dove ora si trova il Teatro delle Commedie: si chiamava ‘Asilo Notturno’ ed era una un centro di promozione delle ricerche espressive. C’erano pittori, registi… io mi occupavo della musica contemporanea. Si sono fatti diversi concerti e la gente ci veniva, non mancava mai. C’era Paolo Migone, per esempio, col quale facevamo spettacoli totalmente surreali, c’ero io che facevo le mie cose, c’era Dimitri, grande jazzista livornese. A Livorno c’è sempre stato insomma un ambiente molto stimolante; anche nel pop, con Bobo Rondelli, Virginiana Miller e altri.

Quindi tu dici: creare un pubblico di cento persone che faccia un po’ da lievito nella società e che da cento possa portare a un numero superiore di interessati.

Sì. Per far questo bisognerebbe anche che ci fosse una figura istituzionale – che sia il direttore artistico di un ente importante o un assessore alla cultura del comune – che, invece di stare seduto alla sua scrivania ad aspettare che vengano le proposte dall’esterno e dare i soldi ‘a pioggia’, si alzi dalla sedia, esca dal suo ufficio e vada a conoscere e a incontrare artisti, frequentando gli studi dei pittori, andando a sentire i concerti, per vedere chi c’è a Livorno e se c’è qualcuno che meriti di essere promosso e coinvolto nella vita culturale della città.

Non soltanto pescando a Livorno. Se c’è qualcuno che viene da fuori va bene lo stesso.

Certamente. Volevo dire che, vivendo a Livorno, ci si farà innanzitutto la domanda: a Livorno cosa c’è? C’è qualcuno che fa delle cose interessanti? E quindi si comincia a saggiare il terreno, ci si informa… e poi ovviamente non per creare una cosa e cortocircuitarla subito dopo. Cominciare a farla per i livornesi, ma anche appunto mettendo insieme le due cose. Qualcosa in questo senso si era anche mosso, ma pochissimo; mi ricordo per esempio che organizzammo ai Bottini dell’Olio 25 + 8 caratteri: arti visive e musica a Livorno 1985-2000, che fu una mostra con dei concerti dedicati a otto compositori livornesi.

Al di là del fatto di far conoscere che cosa producono i livornesi di talento, in certi luoghi (adesso forse molto meno) fino a non molto tempo fa, in certi teatri e società di concerti si era tentata anche un’altra strada, che forse andrebbe praticata di nuovo: cioè quella di inserire in stagioni concertistiche o anche operistiche normali qualche elemento di modernità. Per esempio un pianista che suona Chopin e che nello stesso concerto ‘costringe’ il pubblico tradizionale ad ascoltare anche qualcos’altro.

Ci vogliono le idee. Bisogna sapere chi è il pianista che fa queste cose, crederci, esserne interessati, trovarlo. Darsi da fare, Insomma.

Come dire? Un Pollini, tanto per fare un esempio, ti può fare tranquillamente Chopin e poi una sonata di Boulez.

Certo.



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