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Intorno alle Lezioni americane di Italo Calvino

Creato il 29 luglio 2014 da Martinaframmartino

Intorno alle Lezioni americane di Italo CalvinoQuanti collegamenti fa la nostra mente senza che ce ne rendiamo neppure conto? E quanti avvengono solo per una casualità, perché accostiamo per caso due cose che sarebbero dovuto essere molto distanti e invece finiscono per legarsi inestricabilmente fra loro? Nelle due settimane di vacanza che ho appena fatto mi ero portata dietro una manciata di libri. Lo stesso ha fatto mia mamma. Lei è rimasta colpita dal fatto che in due libri consecutivi che ha letto due bambini, uno di tre anni e uno di otto, sono affogati nello stesso fiume. A me era capitata una cosa analoga anni fa, quando ho letto due libri consecutivi – non faccio i titoli, ma scommetto che molti di voi sono in grado di riconoscerne uno – in cui un tizio che sembrava il grande eroe della situazione viene invitato a un matrimonio e finisce ammazzato.
Quando capitano queste cose io non posso non pensare ad Adso da Melk e alla sua constatazione che i libri parlino fra loro, anche se ora non ho voglia di cercare la citazione precisa.
Un libro intorno a cui ronzavo da anni è Lezioni americane di Italo Calvino. Però mi sono resa conto che non riesco più a leggere questi libri senza fare collegamenti a opere che gli autori dei saggi in questione non conoscevano e non potevano assolutamente conoscere. Per dire, fra le altre cose sto leggendo L’ombra e il male nella fiaba di Marie-Louise von Franz, una dei più importanti esponenti della psicologia analitica e colaboratrice di Carl Gustav Jung, e mi ritrovo a prendere sul libro appunti con riferimenti ai romanzi di Robert Jordan e George R.R. Martin. In realtà questo testo non è esattamente su Calvino, anche se cito diverse frasi sue, ma lo uso come scusa per parlare di altro. Perché allora c’è il suo nome qui in cima? Semplice, perché se avessi scritto quello di Guy Gavriel Kay lui lo avrebbe notato e sarebbe venuto a leggere il mio blog. Ormai lui lo ha fatto troppe volte per pensare che non lo avrebbe fatto, ma visto che io non ho intenzione di fare quella che è sempre lì a rompergli le scatole allora faccio in modo che non mi possa notare.
4cd82-riverofstarsPerché Guy Gavriel Kay? Un primo collegamento lo ha creato lui, visto che so che ha appena letto e apprezzato Se una notte d’inverno un viaggiatore, il romanzo di Calvino che preferisco. E poi fra i libri che mi sono portata in vacanza c’erano River of Stars e Lezioni americane. Come potevo non vedere collegamenti? Incidentalmente vi comunico che la recensione di River of Stars l’ho già scritta ma che la pubblicherò più avanti visto che ora che l’ho ultimata Cristina Donati mi aveva già consegnato quella di Il sapore della vendetta di Joe Abercrombie, e che visto che probabilmente per i lettori italiani è più interessante la sua recensione, se non altro perché il romanzo di Abercrombie è stato tradotto e quello di Kay no, ho scelto di dare a lei la precedenza. E se io non la pianto di divagare prima di arrivare al punto i miei articoli diventeranno sempre più lunghi… e sempre meno numerosi.

“dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica d’una forza speciale” (pag. 37).

I riferimenti legati ai molteplici oggetti magici che si trovano nei romanzi fantasy potrebbero essere molti, anche se in questo caso il mio primo pensiero è andato al fucile di Cechov. Pensiero su cui non intendo soffermarmi ora, mi limito a scagliare la pietra.

“il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo” (pag. 39).

Qui faccio violenza a Calvino, lui stava parlando di altro e la mia mente ha letto nelle sue parole anche quel che ha voluto leggervi e non solo quel che c’era scritto. Purché se ne sia consapevoli penso che anche questa possa essere un’operazione legittima. Prendiamo Robert Jordan. Emanuele Manco mi ha detto più volte che non riesce a leggere La Ruota del Tempo perché Jordan è troppo prolisso visto che una volta, sfogliando a caso uno dei suoi libri, ha visto un personaggio che si stava alzando e che invece è caduto, e che la descrizione dell’inciampo e della caduta duravano una buona pagina se non di più. Onestamente io non ricordo l’episodio, non l’ho minimamente notato. Se la caduta è stata così lunga – e non ho motivo di dubitare delle parole di Emanuele – secondo me Jordan aveva le sue ragioni. A volte anche piccoli episodi meritano attenzione. Magari c’era in atto una bolla di male, magari qualche Amico delle Tenebre stava combinando qualcosa… Ecco, per me Jordan è descrittivo ma non trovo le sue parole inutili, i suoi libri troppo lunghi. Lo so, sono un caso irrecuperabile di fan sfegatata. Riconosco però che la saga, con i suoi quattrodici libri più un prequel, sia un tantino lunga. Non che non intenda rileggerla, solo che ora ho iniziato la rilettura integrale di Kay e Jordan deve aspettare. Quanto a George R.R. Martin, fra l’inizio del Trono di spade e la fine della Danza dei draghi sono trascorsi, se non sbaglio, due anni. Per i lettori ne sono trascorsi un po’ di più, io ho fatto in tempo a cambiare lavoro, conoscere mio marito, sposarmi e avere due bimbe durante la lettura della saga, e la stessa cosa è capitata pure all’editor di Martin, Anne Groell, giusto per dire quanto George sia rapido a scrivere, ma la storia, anche se le pagine scorrono che è un piacere, ha un ritmo lento nel senso che in Westeros trascorre poco tempo. I due tempi non sono conciliabili, e prima o poi dovrò fermarmi a rifletterci sopra.

Intorno alle Lezioni americane di Italo CalvinoKay è diverso. Ricordo, la prima volta che ho letto A Song for Arbonne, come mi avesse coinvolta con le vicende di Blaise. C’era voluto un po’, in fondo era solo il terzo libro che leggevo in inglese, ma alla fine volevo davvero sapere cosa avrebbe combinato. Solo che dopo che lo vediamo arrivare in quella che dovrebbe essere la sua nuova dimora, a pagina 135, Kay lo abbandona senza dirci nulla. Non vediamo come si relaziona con gli altri, come trova il suo spazio, sono tutte cose che dobbiamo immaginarci da soli. La prima parte è finita e fra la prima e la seconda parte trascorrono diversi mesi. Non solo, Kay cambia pure la focalizzazione e ci concentriamo su un nuovo personaggio, di cui all’inizio non ci importa nulla. Solo più avanti le due storie si riuniscono, ma i salti di tempo sono un’abitudine di Kay. Lui narra solo l’essenziale. Mentre Jordan e Martin narrano tutto – ma quel tutto che narrano è sempre interessante e importante – Kay sceglie gli episodi. Noi non abbiamo davvero bisogno di sapere come Blaise venga accolto, lo possiamo capire da quello che è il suo rapporto con gli altri personaggi in seguito. Kay riesce a essere altrettanto chiaro e ancor più incisivo di Jordan e Martin, anche se amo ugualmente i personaggi di tutti e tre. Contrae il tempo, mentre gli altri due lo dilatano.

In River of Stars questo avviene all’ennesima potenza. In quanti anni si svolge quel romanzo? Non ne sono sicura, ma sono parecchi. In 600 pagine Kay fa trascorrere molti più anni che Jordan in 13.000. Non che sia un’abitudine solo sua, il romanzo che ho letto fra River of Stars e Lezioni americane è La signora dei fiumi di Philippa Gregory, e se non ve ne ho ancora parlato è perché l’ho prestato a mia mamma e devo aspettare che me lo restituisca prima di poterne scrivere. La signora dei fiumi è un romanzo storico incentrato su Giacometta (Jacquetta) di Lussemburgo che si espande per una trentina d’anni in quel periodo che comprende le premesse e l’inizio della Guerra delle due rose. Per certi versi la cadenza dei romanzi è simile, anche se la narrazione della Gregory è in prima persona e quindi si concentra solo sulla sua progtagonista mentre Kay ci fa seguire le vicende di parecchi personaggi. Però il fatto di far vedere un avvenimento e poi di far trascorrere parecchio tempo, magari anche anni (Kay), per narrare cosa accade dopo è un comprimere il tempo di lettura dilatando quello narrativo che accomuna i due libri.

“Il piacere infantile d’ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi, formule. Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono avvenimenti che rimano fra loro” (pag. 39).

2f111-970182Bruno Bettelheim con Il mondo incantato e Marie-Louise von Franz con L’ombra e il male nella fiaba non sono tanto lontani da quest’affermazione, ma anche qui non mi soffermo. Il piacere della ripetizione però non è solo infantile, o riesce a far emergere il lato infantile di ciascuno di noi. Non si spiegherebbe altriimenti perché, anche da adulti, proviamo piacere nel rileggere un libro che abbiamo già letto o nel rivedere un film che abbiamo già visto. Conosciamo la storia, la suspance non c’è più, o non dovrebbe esserci. Eppure ogni volta che io arrivo a quella pagina di The Lions of Al-Rassan non posso fare a meno di piangere. E neppure a quella pagina del Sentiero della notte, se è per questo. Il ritmo. Kay, che è anche poeta, mi ha confidato che gli spiace di non conoscere l’italiano perché questo gli impedisce di leggere la Divina commendia nella lingua in cui l’ha scritta Dante. Immagino che di Dante tutti abbiamo ricordi scolastici che si avvicinano di molto all’incubo, ma se viene letta senza la paura dell’interrogazione la Divina commedia è un’opera straordinaria, e il ritmo e le rime vi giocano una parte importantissima.
La scrittura di Kay, anche nella prosa, è poetica. Lui gioca molto sul ritmo delle frasi, e sulle ripetizioni che alterano il significato. Gli avvenimenti delle sue storie rimano fra loro. A volte rimano fra loro anche fra un libro e l’altro.

Intorno alle Lezioni americane di Italo CalvinoC’è una poesia nella Rinascita di Shen Tai, scritta non da Sima Zian, che abbiamo il piacere di conoscere, ma da Chan Du, che ritorna anche in River of Stars. Nei due libri ha un valore diverso, ma li fa risuonare insieme creando un effetto straordinario. L’ho citata nella mia recensione, ma con una certa cautela perché non volevo fare spoiler.

“La relatività del tempo è il tema d’un folktale diffuso un po’ dappertutto” (pag. 41).

Qui sto male. Il tema in realtà è affascinante, ma io non posso non associarlo a Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, e da qualche tempo il pensiero della Bradley è fastidioso. Non so quanto ci sia di vero, ma da quando ho letto queste parole non riesco più a pensare a lei o ai suoi libri nel modo in cui vi pensavo prima. Probabilmente prima o poi cambierò anche la frase che si trova in alto sul mio blog. Lo so, un commento di questo tipo stona con il resto delle cose che sto scrivendo in questo articolo, ma il fastidio c’è.
Passiamo più avanti, abbandoniamo la Rapidità (chi, io?) per entrare in Cominciare e finire.

“Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo” (pag.123).

Sarà per questo che ho iniziato la recensione di River of Stars con quelle parole, e non altre, che leggerete più avanti. Potremmo scrivere tutto prima di iniziare, ma con l’inizio ci incamminiamo in una direzione ben precisa. Dobbiamo farlo, dobbiamo darci dei limiti, se vogliamo riuscire a scrivere qualcosa, anche se io a volte baro e divago spudoratamente. Ma “Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili” (pag. 124).

Stavolta ve la cito. È una frase che mi piace troppo, e che più di una volta sono stata sul punto di scrivere, ma che poi ho tralasciato perché mi avrebbe fatto divagare lungo sentieri che in quel momento non volevo seguire. Stavolta getto il sasso ma non seguo il sentiero, magari lo farò un’altra volta. Se ancora non sono partita è perché è un sentiero lungo, e per decidere di scrivere certi articoli devo davvero avere molto tempo a disposizione, o essere disposta a trascinarmeli dietro per mesi ignorando altre suggestioni importanti.

“di pietra in pietra scorre la linea dei se, fra i mondi che potrebbero essere”
Robert Jordan, La grande caccia, pag 262 (attenzione, i miei numeri di pagina si riferiscono alla prima edizione Fanucci).

Un’altra volta, ok?

“Nel teatro antico, la scena fissa rappresentava il luogo ideale in cui tutte le tragedie così come tutte le commedie possono svolgersi. Un luogo della mente, fuori dello spazio e dal tempo, ma tale da identificarsi con i luoghi ed i tempi d’ogni azione drammatica” (pag. 125)

Avete presente il “c’era una volta” delle fiabe? Eccolo che torna. Ma è anche l’universalizzazione di una storia fantasy di cui parla Kay, tema che ho approfondito qui: http://librolandia.wordpress.com/2012/07/18/guy-gavriel-kay-e-la-fantasy-storica/. Comunque se conoscete l’inglese più che leggere il mio articolo dovreste leggere le parole di Kay, io ho dovuto un po’ condensare per motivi di spazio. A proposito, se conoscete l’inglese leggete i romanzi di Kay.

“Il problema di non finire una storia è questo. Comunque essa finisca, qualsiasi sia il momento in cui decidiamo che la storia può consderarsi finita, ci accorgiamo che non è verso quel punto che portava l’azione del raccontare, che quello che conta è altrove, è ciò che è avvenuto prima: è il senso che acquista quel segmento isolato di accadimenti, estratto dalla continuità del raccontabile” (pagine 137-138).

Sarà per questo che non riesco a staccarmi dalla conclusione di River of Stars.



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