Magazine Psicologia

Invidia, il sentimento che non ci piace

Da Renzo Zambello
Invidia

Invidia

Ogni persona ha ciò che non vuole, e ciò che vorrebbe l’hanno gli altri.

(Jerome Klapka Jerome)

 L’ invidia nella letteratura psicoanalitica

L’ invidia è forse uno dei sentimenti più sgradevoli che proviamo.  Nessuno ammette di essere invidioso e sono  pochissime le persone che ne parlano  apertamente riferendo l’ invidia a se stesse. Ammettere di provare invidia sarebbe  rivelare al mondo la parte più meschina  di sé ed è una  cosa difficilissima per tutti. Perfino le persone che tendono  ad autodenigrarsi  e a svalorizzarsi difficilmente si autodefiniscono invidiose.  Scattano  meccanismi di difesa di tipo transferale e ci proteggiamo osservando e  analizzando l’invidia negli altri, provando magari anche un profondo fastidio.

La verità è che l’invidia è un sentimento universale che nessuno riconosce tanto facilmente,  ma del quale difficilmente ne siamo totalmente scevri. Mi vengono in mente due detti popolari, il primo è danese e dice: “Se l’ invidia fosse una febbre, tutto il mondo sarebbe ammalato”, il secondo “Ci sono cose che un individuo non confessa né al prete, né allo psicanalista, né al medium dopo morto e  fra queste cose  la prima è senza dubbio l’ invidia”. Sapienza popolare. Infatti in analisi  riconoscere di essere invidiosi è sempre una tappa difficile ma significativa verso la soluzione.

Il problema che ci poniamo è perché è così universale l’ invidia e perché è così difficile riconoscerla.

Per farcene un’idea, rimanendo nel campo che ci compete,  la psicoanalisi, dobbiamo ammettere che forse sul piano dell’ invidia ci battono in pochi. Eppure  non dico che dovremmo essere  superiori,  ma almeno un po’ consapevoli,  smaliziati, forse si.  Invece no, anche all’interno della psicoanalisi stessa, “tra gli addetti ai lavori”, rimoviamo e ci difendiamo come possiamo da una invidia un po’ onnipresente. Non  solo a livello personale,  quello è un campo dove  ognuno se la  vedrà  per conto suo, ma sui concetti stessi, le basi  della psicoanalisi.

Credo non ci sia persona che si è avvicinato,  anche poco, solo per curiosità,  alla psicoanalisi e  non abbia sentito parlare di “invidia del pene”.

Scriveva Freud: “le ragazze sentono profondamente la mancanza di un organo sessuale di egual valore a quello maschile, esse si considerano inferiori e l’ invidia del pene è il motivo principale di un certo numero di caratteristiche reazioni femminili“. (Tre saggi sulla teoria sessuale .1905)

Per Freud sono le donne che  provano  invidia nei confronti degli uomini. Per lui,  l’invia del pene è il motore  dello sviluppo della psicologia femminile. Tale invidia infatti lascerebbe nel carattere della donna  condizionamenti incancellabili che sarebbero la traccia per la  formazione  e lo sviluppo psico-sessuale.

Oggi nessuno dà più a questa teoria un credito che va oltre il riconoscimento storico dello sforzo di  collegare i loro comportamenti sessuali all’isteria.  Nella Vienna fine ‘800 la donna era  fortemente subordinata all’uomo e appariva come  il capro espiatorio di una società dove la libido era quasi totalmente negata, sia per gli uomini che per le donne.

In realtà sintetizzare questo disagio nell’ invidia del pene era un meccanismo,  da parte dei “maschietti”, di difesa dalle loro invidie che chiaramente negavano.

Ad esempio, lo sapete  che per gli antichi ebrei la prima moglie di Adamo non fu Eva ma Lilith che fu ripudiata e cacciata via da Adamo  perché si rifiutò di obbedirgli?  Adamo  pretendeva di sottometterla   sessualmente e Lilith,  per non essersi completamente assoggettata a lui viene cacciata. Diventerà la  madre dei demoni, povera Lilith.  Da quel momento nella sua evoluzione assumerà le  varianti di  tutte le Dee più negative  come  le Arpie, le Erinni e poi le Streghe. Tutte queste  non sono altro che il frutto di un’identificazione proiettiva negativa della coscienza maschile nei confronti del femminile.

Vi sembra strano, una esagerazione mitica che però poco ha a che  vedere con la realtà?

Non è vero. Quando ero piccolo  e facevo il chierichetto, anni fa ma non secoli, negli anni ’60, ricordo che quando c’era un battesimo e la famiglia portava in chiesa il bambino per il battesimo, prima che si aprisse la porta centrale  per fare entrare il battezzando con il padre e i padrini, il prete andava nella porta laterale dove l’attendeva la madre  con in testa il velo nero. Il prete l’accoglieva con la stola viola dei penitenti, la esorcizzava e la accompagnava all’altare laterale della chiesa dove doveva restare in ginocchio e in preghiera. Poi, senza la madre,  si apriva la porta centrale ed iniziava il battesimo. La madre, la grande seduttrice, se ne stava là in disparte,  col capo chino a chiedere perdono.

E’ evidente quanto l’archetipo femminile nel corso della storia, ma soprattutto nella storia delle religioni,  sia stato,  con questo meccanismo di identificazione proiettiva,  deturpato dalla coscienza maschile. Da che cosa si difende l’uomo? Evidentemente dall’invidia per le prerogative fecondatrici del femminile. La donna è vissuta come potenza assoluta di vita e di morte.

Quindi, la donna invidia il fallo, l’uomo invidia la possibilità creatrice della donna. Possiamo quindi sintetizzare che gli attacchi invidiosi hanno tutti un comune multiplo denominatore: la potenza creativa.

Scriveva Aldo Carotenuto  che “l’ invidia è la grande antagonista della creatività”. (Trattato di Psicologia Analitica)

E’ questa di Carotenuto la lettura dinamica che più mi convince anche da un punto di vista clinico: l’invidia come sottrazione, incapacità a riconoscere la propria  capacità creativa.

Invidia e creatività

Invidio la capacità creativa dell’altro, dell’altra e nel contempo non riconosco e uso la mia.

E’ sempre verde l’erba del vicino” e magari, non ho mai calpestato quella del mio giardino.

E’ anche vero che a questo punto si apre un’altra questione che evidentemente è un tutt’uno con il meccanismo dell’invidia: la difficoltà ad abbandonare fantasie onnipotenti. Se voglio riconoscere e usare la mia parte creativa, devo riconoscere di essere limitato. Ho bisogno dell’altro, dell’altra per creare ed è evidente  che non mi riferisco solo alle capacità  di ordine biologico.

E’ vero quindi che l’invidia è  un sentimento universale, primario e antico  che svela l’incapacità ad accettare di essere limitati e nel contempo l’impossibilità ad utilizzare ciò che abbiamo.

Ora si capisce perché tanta ritrosia a riconoscerci invidiosi ma forse, più che vergognarci faremmo bene ad impegnarci a scoprire come utilizzare le nostre capacità creative.

Di  Renzo Zambello

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Tags: ADAMO, Eva, invidia, Lilith, religione


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