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ITALICA NOIR - Südtirol ist nicht Italien!

Creato il 19 aprile 2015 da Redatagli
ITALICA NOIR - Südtirol ist nicht Italien!

Una scritta a caratteri cubitali di vernice bianca su un muro di pietra grigia, ringhia: SÜDTIROL IST NICHT ITALIEN!
A Caldaro, in Alto Adige, il 90% della popolazione è di madrelingua tedesca. Il nome completo del comune è bello e musicale, mette sete. Caldaro sulla Strada del Vino per noi, Kaltern an der Weinstraße per altri.
Nell’immediato dopoguerra, il vecchio sindaco si chiama Attilio Petri, ingegnere settantenne stimato da tutti in paese. 
Da quasi tutti.

Il quattro novembre si festeggia la vittoria italiana nella Prima guerra mondiale, e quel giorno del 1946 il sindaco osa issare sul balcone del comune il tricolore.
Verde, bianco e rosso: son colori che se cuciti assieme piacciono poco da quelle parti. Di notte la bandiera sparisce.
Una settimana più tardi, a cento metri dalla sua casa, una banda di teppisti salta addosso all’anziano ingegnere. È un agguato coi bastoni. Le randellate sulla testa lo mandano al creatore.
I responsabili vengono scoperti solo dopo anni, sono tre ragazzi altoatesini che hanno agito per punire quell’insopportabile affronto del sindaco italiano.

Dieci anni dopo. Ferragosto, di sera tarda, in montagna. Il vento fresco spazza la strada di Fundres, una frazione del comune di Vandoies. L’unico disturbo al canto monotono dei grilli nei prati e al sonno profondo in cui è immersa la valle viene dagli schiamazzi dello spaccio alimentare Enal, ancora aperto, e dove si beve forte.
Alle 11, i finanzieri Raimondo Falqui, 22 anni, e Francesco Lombardi, 20 anni, escono dalla piccola caserma a ridosso del paese in abiti civili. Fanno due passi per andare a comprare le sigarette allo spaccio, sotto un cielo che pulsa stellato. Seguono la luce giallastra che viene dalla porta aperta del locale e le voci alte e straniere degli avventori che ci danno dentro con vino e grappa.
È l’inizio della notte più brutta della loro vita, e per uno dei due militari, l’ultima.

Si fermano più del dovuto nel negozio-osteria, s’intrattengono a bere, e altri clienti si avvicinano al bancone. Volti paonazzi dalle bevute e dal sole, facce da austriaci; una dozzina di sudtirolesi di lingua tedesca ronza attorno ai due.
Una brigata ubriaca e molesta.
I giovinastri si fanno invadenti, insistono a tracannare liquori assieme a loro. Si intendono poco tra finanzieri e valligiani, ci sono evidenti barriere linguistiche.
Dialoghi sconnessi, i locali parlano male l’italiano, incespicano nella lingua che dovrebbe essere anche loro, ma che loro stessi non sentono propria. Lo spaccio Enal di Fundres non è più l’Italia, ma un’ambasciata di un altro stato, forse l’Austria o la Germania, o inesistente, o esistito come Impero austro-ungarico e morto decenni prima.
Finanzieri e ubriachi sono connazionali solo sulle carte d’identità; lì, in quella dimensione parallela ed estera, appartengono ora a due paesi diversi.
I due giovani appuntati, arrivati laggiù ai confini da altri confini opposti, dal mare della Magna Grecia e dall’entroterra sardo, sono stranieri tra le cime alpine del Sud Tirolo.
Terroni, maccheroni, baffo nero, mafiosi, negri.
Walschen!

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Tornano verso le brande i due malcapitati, escono pure gli altoatesini, fradici e incattiviti. Si appiccicano ai militari, li seguono, li affiancano, li provocano, sbraitano insulti ostrogoti con fetidi aliti caldi alcolici.
Diventano coraggiosi grazie al bicchiere e al numero. Dodici contro due, non è duello difficile per i contadini xenofobi.
Il branco di lupi li accerchia, puntano le torce sugli occhi dei soldati, compaiono mazze nodose. Lombardi riesce a svicolare dal cerchio che si chiude, corre verso la caserma, a perdifiato, ma si blocca sul sentiero.
Non può lasciare dietro il suo collega in balia di quei tèutoni, fa dietrofront.
Le urla s’interrompono di colpo, c’è solo il rumore del vento tra i pini. Il silenzio è improvviso. Gli aggressori si sono dileguati. Scomparsi nel bosco, coperti dalla notte.
Francesco raccoglie la camicia di Falqui, abbandonata in terra, ridotta a brandelli e insanguinata.
I lupi hanno lasciato il segno dei morsi.

“Raimondoooooh!”
Francesco chiama il commilitone ma dalla valle buia gli risponde solo l’eco. Raimondo è sparito.
Accorrono altri finanzieri e quattro carabinieri.
“Raimondoooooh!”
Lo cercano tutta la notte, ma non lo trovano fino alle prime luci dell’alba, tra le rocce di un torrente, alla fine della sua vita.
Raimondo, privo di sensi e bagnato dall’acqua gelida, sta morendo.

Ebner, Unterkircher, Weissteiner, Knollseisen, Huber, Bermeister… gli assassini hanno cognomi alieni. Hanno assalito Falqui, a pugni e bastonate. Quando era in terra lo hanno preso a calci, gli sono saliti in testa con gli scarponi da montagna. Il cranio è rotto, in pezzi.
La vittima riesce disperata a risollevarsi da terra, e a passi storditi cerca di allontanarsi dal branco eccitato.
Lo afferrano per le spalle e lo scaraventano nel greto del torrente, dove agonizza per tante ore, sotto le stelle di Fundres, tra le pietre umide, incapace di rispondere ai camerati che gridano il suo nome.
L’hanno lapidato. 

L’Alto Adige per noi, Südtirol per loro, è insofferente. Una parte della popolazione non si sente italiana; taluni si spingono ad odiarli, gli italiani. Vecchie incomprensioni e diffidenze tornano ad essere aperte ostilità. Mangiapatate e mangiaspaghetti, non vanno d’accordo.
Si mette in mezzo il clero locale, i giornali in lingua tedesca, il partito SVP - Südtiroler Volkspartei, l’Austria.
Roma colonizzatrice, viene accusata di favorire l’immigrazione di meridionali, e un’industrializzazione forzata a scapito della minoranza di ceppo austro-germanico.

Marcia della morte –  Todesmärsche  – esagerano preti dall’accento alemanno e giornalisti filo-viennesi, denunciando l’oppressione italiana nella regione, il trasferimento forzato di genti, le ipotesi di ingegneria etnica, la volontà di snaturalizzare i popoli, di mutare la geografia demografica a tavolino, di strappare le radici, mischiare il sangue, italianizzare.
Sulle colonne del quotidiano Dolomiten, dal pulpito delle prediche domenicali, nei comizi SVP, nei raduni delle compagnie Schützen in costumi tipici, s’immaginano carte geografiche delle periferie alpine dello Stato, su cui infami dita democristiane spostano pedine, da laggiù, nei palazzi barocchi dell’Urbe puttana usurpatrice.

Le razze rimangono volontariamente separate, a scuola, nei matrimoni, negli uffici pubblici, nel lavoro. La gente di lingua tedesca si occupa di agricoltura e di turismo, la gente di lingua italiana lavora nell’impiego pubblico e nell’industria.
Lo sviluppo economico della zona corre, il benessere arriva in Alto Adige, il reddito pro capite è molto alto, ma è un fatto non sufficiente alla pacificazione etnica, anzi si accentuano differenze e invidie.
Nell’assegnazione delle case popolari e dei posti di lavoro nell’amministrazione pubblica, venogno privilegiati i cognomi italiani.
Piccola segregazione, soft apartheid.

L’accordo De Gasperi – Gruber, siglato dai ministri degli esteri di Italia e Austria nel 1946 sulla questione altoatesina, prevede numerosi interventi a tutela della minoranza linguistica tedesca. Vengono ristabiliti diritti che erano stati cancellati dal fascismo e dal suo progetto di completa italianizzazione dell’area.
Uno di questi inteventi è una delle cause di rinnovata tensione.
Nelle valli d’origine fanno ritorno migliaia di famiglie che nel 1939, in seguito a patti italo-tedeschi, avevano optato per il Terzo Reich, lasciando la Penisola.
Sono gli “optanti"; adesso hanno la possibilità di scegliere ancora, tornando a casa diventano “rioptanti.”
Alcuni di loro sono veterani della guerra e sono stati - come quasi tutti gli austriaci e tedeschi - seguaci di Adolf Hitler. Sembrano rientrare non per adattarsi all’Italia (loro Patria nuova e vecchia allo stesso tempo) ma per agitare.
Di nuovo italiani, per scelta; ma subito insofferenti nell’esserlo.
Guardano al di là delle Dolomiti, all’Austria, come loro faro culturale. E razziale.

(qui sotto, il meraviglioso borgo di Fundres)

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FASE UNO – PRIMI FUOCHI – STIELER GRUPPE
Negli anni ’50 Hans Stieler è il tipografo del Dolomiten di Bolzano.
È un acceso separatista, molto critico nei confronti del SVP, il partito guida delle rivendicazioni sudtirolesi. I politici son troppo molli per lui.

Sulle pagine dell’Alto Adige, ci spiega:
“È successo in occasione del ballo della Fiera. Il maestro, durante le prove, disse che mancavano una ventina di elementi e bisognava cercarli tra gli italiani.
Nella sala scese il gelo.
Mio fratello Sepp si alzò e disse no. Quel ballo faceva parte della tradizione sudtirolese, non si potevano accettare intrusioni.
Noi non eravamo i soli a pensarla così e da li cominciarono gli incontri con altri che condividevano le nostre idee.
La SVP, trattando con Roma, stava calando le brache, bisognava intervenire con azioni di forza”
.

Non si balla con gli italiani, che si tengano le loro balere e le loro tarantelle. Rosario non indosserà l’abito tirolese né danzerà lo Schuhplattler, il ballo delle mani che battono sulle gambe e sulle suole delle scarpe.

Hans può contare su una decina di seguaci. Nasce il Gruppo Stieler – Stieler Gruppe. La libertà la si ottiene con le bombe.
A Settequerce di Terlano, borgo bolzanino di vigne e meleti, un botto scuote il fondovalle dell’Adige.
Sono le 23.30 del 20 settembre 1956 e la prima bomba separatista, poco più che un petardo, manda in frantumi le finestre di un magazzino distaccato della caserma Ottone Huber di Bolzano.
È la sveglia del Südtirol.
Seguono cariche di dinamite a cantieri, macchinari e tralicci. Prendono di mira la ferrovia del Brennero, facendo esplodere tritolo sui binari per danneggiare le rotaie e interrompere il traffico.
Azioni dimostrative, rumore, fumo e danni a cose, non a persone.
La sovversione anti-nazionale è in una fase pioneristica, un embrione bombarolo, arrabbiato ma non ancora assassino.
I combattenti-contadini per la libertà tirolese della banda Stieler vengono arrestati, tutti quanti.
Sono i primi fuochi.

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FASE DUE – ESCALATION – BAS
Nel novembre 1957, a Castel Firmiano, ha luogo la più grande manifestazione di protesta dell’Alto Adige. Accorrono più di 30.000 anime sotto le bandiere della SVP.

“Los Von Trien! – Via da Trento!” : è lo slogan del raduno autonomista.

Tra la folla, compare un volantino.  

“Südtirol, svegliati! Preparatevi alla battaglia!”

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Il BAS - Befreiungsausschuss Südtirol – Comitato per la liberazione del Sud Tirolo, si presenta ai tedeschi d’Italia. Il capo dell’organizzazione clandestina è il locandiere Sepp Kerschbaumer (foto), cattolico osservante e convinto indipendentista del Tirolo meridionale. Ad Appiano sulla Strada del Vino, oggi, c’è una via a lui intitolata.
Sepp fa proselitismo, incontra molte simpatie.
È ora di smettere di cianciare, e di passare ai fatti: tritolo e miccia.
Passano solo cinque giorni dall’adunata di Castel Firmiano e una cellula del BAS entra nel cimitero di Montagna per compiere la prima azione a carattere dimostrativo.
È il baccano necessario per attirare l’attenzione sulla causa.

Minano la tomba di Ettore Tolomei, geografo, nazionalista, senatore irredentista e anti-tedesco e per questo deportato nel 1943. Fu l’autore della topomastica italiana in Alto Adige voluta dal quinto governo Giolitti, fu cioè uno dei protagonisti dell’operazione volta a italianizzare dal punto di vista linguistico, geografico e politico quei territori settentrionali dove da sempre risiedevano popolazioni tedesche, e che dopo la Prima guerra mondiale, con la vittoria sugli austriaci, erano passati all’Italia.
Con Mussolini, il processo, quasi colonialista, fu ovviamente accellerato, fino agli accordi del ’39 con il nuovo alleato Hitler.
L’eterno riposo del Tolomei "Il becchino del Sud-Tirolo - Totengräber Südtirols”, è disturbato dal tritolo.

Gli uomini del BAS, possono contare su concreti appoggi logistici e finanziari a Innsbruck, dove sorge l’organizzazione irredentista austrica BIB - Bergisel-Bund, Schutzverband für Südtirol - Lega del Monte Isel per la tutela del Tirolo del Sud.
Il primo obiettivo che si prefigge il gruppo BIB è quello di sostenere attivamente ogni sforzo per l’indipendenza del Sud Tirolo dalla Repubblica italiana.

I colleghi bombaroli del BIB agiscono anche in modo autonomo dai nuclei guerriglieri in territorio italiano: non si limitano a far propaganda e raccolta fondi dalle retrovie ma vogliono dire anche la loro sul campo.
A Ponte Gardena prendono di mira il monumento mussoliniano dedicato al lavoro italiano. La statua equestre viene gravemente danneggiata, il cavallo è decapitato.
Gli attentati s’intensificano, contro bar, case di italiani, caserme e tralicci.
Nonostante l’alto numero di esplosioni, nessuna persona viene ferita o uccisa. La linea strategica del movimento è chiara. Bisogna attirare l’attenzione sulla questione altoatesina dell’opinione pubblica non solo austriaca e italiana, ma di tutta la comunità internazionale, senza però versare una sola goccia di sangue.
Danni a cose, non a persone.
Per adesso.

C’è però chi vorrebbe radicalizzare la lotta. Gli elementi più estremisti guardano con ammirazione le guerriglie del FLN - Front de Libération Nationale di Algeria contro i francesi, e pure quelle dell’ EOKA - Ethniki Organosis Kyprion Agoniston di Cipro contro gli inglesi.
Sono lotte armate decisamente militarizzate ed estese, e che ammazzano.
Gli animi tedeschi più accesi sognano la guerriglia, lo stato d’assedio, la guerra civile con gli italiani.
Nella notte tra l’11 e il 12 giugno 1961 c’è l’occasione per combinare il guaio.

Giugno è un mese importante per la comunità. Nel 1796 Napoleone stava arrivando, la  Francia si sarebbe mangiata pure il Tirolo. Per avvertire la popolazione del pericolo imminente, centinaia di falò brillarono sulle cime, tante lucciole notturne di guerra.
La tradizione vuole che da quell’anno vengano accesi fuochi sui monti ad perpetuam rei memoriam. Per i germanofoni, sono date cariche di significati religiosi e storici.
È la commemorazione della promessa rinnovata al Sacro Cuore di Gesù e per ricordare le vittorie delle milizie asburgiche Schützen, capitanate dall’eroe tirolese Andreas Hofer, contro le truppe napoleoniche durante la grande insurrezione del 1809 per cacciare gli occupanti francesi.
Falò per ricordare le invasioni del passato; falò per ricordare le occupazioni odierne.
E quell’anno i separatisti, invece di usare legna e fiammiferi, optano per timer e dinamite.

L’Alto Adige è scosso da un terremoto artificiale. 300 ordigni in quattro ore. Sono tante, 300  bombe. È un progetto eversivo molto ambizioso, condotto con coordinamento, precisione scientifica e accurata pianificazione

Booooooooom! Feuernacht! La notte dei fuochi!

Un ripetuto boato come sotto un bombardamento intensivo d’artiglieria fa tremare la notte e l’Italia intera.
Il Sud Tirolo s’è arrabbiato.

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Cadono quaranta tralicci dell’alta tensione, vengono giù come stuzzicadenti. L’esplosivo al plastico ha la tacita benedizione di Vienna: in un incontro con i terroristi, il ministro degli esteri Kreisky dice che non può istigare l’uso delle bombe in Italia ma allo stesso tempo non può vietare tali iniziative sovversive al di là della frontiera, perchè condotte a fin di bene, e fa insomma l’occhiolino ai terroristi del BAS.
L’azione è spettacolare.
Nelle valli, nei paesi, a Bolzano, fragori di scoppi si susseguono senza sosta e coprono le sirene di autopompe e delle jeep della polizia, che sciamano impazzite per l’Alto Adige, senza bene sapere cosa fare.
Le forze dell’ordine corrono dove boati di dinamite hanno appena buttato giù un traliccio, ma ecco un’altra esplosione, quindi verso la nuova emergenza a tavoletta, ma poi ancora un’altra laggiù, e un’altra ancora alle spalle!
Senza sosta, senza prendere fiato!
Feuernacht!
I guastatori della libertà tirolese sono ovunque, spettri sabotatori.
L’eco delle bombe rimbalza giù verso sud, in Pianura Padana, lungo l’Appennino, fino a Roma, fino a infrangere le finestre dei papaveri della Repubblica.  

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Il BAS e il BIB, uniti nell’attacco, mirano a combinarla grossa, per interrompere l’approvvigionamento energetico che dalle centrali idroelettriche alimentano le industrie del settentrione e il motore economico della Nazione intera. L’apparato energetico sbanda sotto i colpi, ma non si guasta, le fabbriche continuano a produrre.
Il giorno dopo la notte dei fuochi (nella foto, le celebrazioni odierne della ricorrenza tradizionale), nonostante la direttiva di Sepp Kerschbaumer, ci scappa il morto.
Il capo cantoniere Giovanni Postal è sulla bici, pedala lungo la strada che conduce a Salorno, al confine con il Trentino.
Nei pressi di una piazzola, dove solitamente è appostata una pattuglia dei carabinieri, l’uomo nota che attorno al tronco di un pioppo è legato un cinturone nero.
Incauto, decide di slegarlo.
Muore dilaniato da una bomba.

Con il peggioramento progressivo della situazione, crescono dal pantano maleodorante dei segreti nazionali i funghi tossici delle doppie verità e dei sospetti di deviazione.
Il comandante del IV corpo d’armata, il generale Aldo Beolchini, poco tempo prima dell’azione eclatante dei separatisti, informa i vertici dell’esercito di un pericolo imminente.
Viene trasferito.
Il controspionaggio sa, ma l’intelligence tace, le spie lasciano fare.

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FASE TRE – REAZIONE – NAZIGUERRIGLIA – CONTROGUERRIGLIA
La Repubblica reagisce subito, muscolosa e dura. È la reazione italiana, che a differenza di altre gravi e reiterate emergenze mafiose-brigantesche nel Mezzogiorno, questa volta si fa sentire pronta e immediata.
Lo Stato, mentre a sud rimane agnello, si fa leone a nord.
Le misure sono eccezionali, severissime e quasi da stato di polizia. Il Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, è per la linea dura. Il Ministro degli Interni Mario Segni ordina visti d’ingresso per tutti i cittadini austriaci.

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Ordina anche il coprifuoco, come in guerra. Dalle 21 alle 5, in quell’inizio d’estate tirolese, si sta a casa. La presenza militare si irrobustisce, arrivano a Bolzano i reparti della Celere della polizia, in colonne di fuoristrada con a bordo elmetti e manganelli.
Giungono anche squadre anti-sabotaggio e di artificieri delle forze speciali. Vengono requisiti alberghi per far alloggiare soldati e da usare come basi avanzate in territorio ostile.
Nelle installazioni ritenute sensibili, lungo le arterie e i sui valici in quota, spuntano sentinelle di leva, poco esperte ma molto ben armate.
Giovanissimi, ma con la baionetta innestata.  
La notte altoatesina si increspa di Alt! Chi va là?!? Fermi o sparo!

La tensione è molta, i soldati avvertono l’ostilità del territorio che non vuole essere Italia. Le dita nervose sui grilletti dei mitra MAB e dei fucili americani M1 Garand crivellano per errore un contadino e un muratore che non hanno risposto al chi va là in italiano.
Da un elicottero in perlustrazione sulle Dolomiti partono raffiche che gambizzano per sbaglio un guardiacaccia.
Garitte, posti di blocco, autoblindo, filo spinato, artificieri, perquisizioni e retate!
Calci di stivali neri sfondano porte di baite, nelle battute di caccia alpina al crucco cattivo.
I primi arresti producono nuovi ammanettati che forniscono informazioni per ulteriori fermi. Chi finisce nelle caserme, parla.

I sudtirolesi accusano le forze dell’ordine, sospettano di metodi brutali per ottenere veloci confessioni. Accusano di sigarette spente sulla pelle nuda, di botte da orbi, di umiliazioni.
Folternächte - notte di tortura.
I sostenitori del BAS si spingono addirittura oltre, avanzando l’ipotesi che le morti dietro le sbarre di Franz Höfler (17 novembre 1961) e di Anton Gostner (7 gennaio 1962) siano state provocate dai continui maltrattamenti e volute deliberatamente.
Esagerazioni, questa non è l’Algeria.
Sberle forse son volate, fasci di luce di lampada sparati in faccia pure; difficile credere oltre.

Carabinieri e polizia acciuffano 150 terroristi. Il BAS è pressoché smantellato. Ma è una vittoria effimera, l’infezione è al momento arginata ma non debellata, basta poco che torni ad espandersi per far incancrenire l’Alto Adige, e causare così l’agognata amputazione territoriale dall’odiata Penisola.
Intano in Austria fanno i furbi.

“Nulla ci obbliga a prestare il nostro aiuto all’Italia trattandosi di azioni ispirate da movimenti politici e che avvengono fuori dei nostri confini.”

Queste le parole del loro ministro della giustizia Broda.
Gli austriaci non intervengono a casa loro su chi fa danno da noi, lasciano libertà di movimento e forniscono protezione ai nostri nemici.
Le ferite lasciate aperte dalla Prima guerra mondiale non sono ancora del tutto rimarginate.

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Non tutti gli attentori finiscono nella rete della polizia italiana. Luis Amplatz e Georg Klotz (foto), due figure di spicco del vertice del BAS, riescono a riparare in Austria e qua riorganizzare le fila. La lotta clandestina viene rimpolpata da nuovi elementi, austriaci e bavaresi.
Il fronte diviene più politicizzato, si tinge di neonazismo.
La svastica torna di moda con Norbert Berger, assistente universitario alla facoltà di scienze politiche di Innsbruck.
È un esaltato, annusa che dalla faccenda sudtirolese può trarne vantaggio personale, vuole strumentalizzare la causa.
Cospira, cerca finanziamenti, scrive articoli al tritolo, fa il cattivo maestro con studenti che sbavano dinnanzi a nuove visoni pangermaniche, parla a riunioni nei circoli irridentisti e nostalgici dei bei tempi uncinati che furono.

Alzare il tiro è il diktat, il terrorismo ora mira alle persone. Con valige cariche di molotov partono spedizioni di giovani delle associazioni nazionaliste studentesche Burschenschaften.
Vengono in gita al di qua del Brennero in un’improvvisata e fallimentare “crociata dei ragazzini”, dove gli stronzetti si bruciano da soli.
Per questa azione cretina, i dirigenti Burger e Klotz vengono alle mani, il secondo rimprovera al primo la pessima organizzazione e di non averlo informato.
I dissidi interni sono accesi.

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Il movimento separatista paramilitare è composto da tre frange.

  • C’è il gruppo nazionalsocialista austro-bavarese riconducibile a Burger e al suo braccio destro Peter Kienesberger, chimico e mastro bombarolo.
  • C’è la vecchia guardia BAS di Klotz e Amplatz, spalleggiata dai più oltranzisti della tradizione Schützen.
  • C’è infine il commando dei quattro “bravi ragazzi della Valle Aurina”, cacciatori di montagna, maestri nel mordi e fuggi, abilissimi nello sconfinare mimetizzati e invisibili. I guerriglieri delle Dolomiti.

Il termine guerriglia non è fuori luogo. Ai soliti attacchi ai tralicci si aggiungono spedizioni dinamitarde fuori dai confini regionali.
All’operazione “terrore sui treni”, ordinata da Burger, prende parte il fido Kienesberger a capo di un gruppo di fuoco.
Il 19 ottobre 1962, tre valigie esplosive vengono lasciate nei depositi bagagli delle stazioni di Verona, Trento e Bolzano.
Quella di Verona, contenente un ordigno incendiario, arde un uomo e ne ferisce diciannove.
Nell’aprile successivo, sempre gli stessi banditi si occupano di tralicci lungo le ferrovie lombarde, piemontesi e liguri.

Di notte, escono dalle tane nelle valli dei Molini, Pusteria, Sarentina, Aurina, Tures i commandos partigiani di Klotz e Amplatz armati di carabine e mitra tedeschi MP40 residuati dell’ultimo conflitto, ma ancora perfetti per far la guerra.
Capita in quel decennio “basco” sentire gli echi di suoni di battaglia. Sparatorie furibonde si accendono nei paraggi di  avamposti militari isolati, assalti con il piombo vengono tentati contro centrali elettriche e dighe, cecchini sforacchiano le finestre delle caserme di frontiera, esplosioni fracassano le opere italiane, nei sentieri compaiono mine, pale di elicotteri sfiorano le guglie dei campanili dei villaggi... sono visioni storiche che fanno sfumare lo scenario idilliaco di cime innevate e baite in un’assurda versione, alpina e mignon, di guerriglia indocinese.

Le misure italiane di controguerriglia assumono una duplice forma di reazione. La reazione ufficiale è concreta e ben visibile nel dispiegamento di carabinieri, poliziotti, soldati sul territorio in rivolta. Ma c’è anche la reazione occulta, mascherata in abiti civili, non ortodossa.
Entra in scena il SIFAR e poi il suo erede SID, il servizio segreto militare con i suoi uffici chiamati con lettere dell’alfabeto e i suoi lunghi tentacoli negli ambienti militari, politici, polizieschi.
Le nostre amiche spie, puntuali come in tante altre storie nazionali del XX secolo, mettono il becco.

Quattro estremisti italiani compiono attentati di rappresaglia in Austria. Nella salina di Ebensee alcuni operai scoprono due cariche di dinamite collegate ad un sveglia che fa tic tac tic tac.
Un gendarme accorre, tocca.

“Qui c’è qualcosa che non quadra!” , dice prima di finire disintregato.
È un’esplosione che si ode da chilometri di distanza.

Il gruppo della spedizione punitiva, di milieu neofascista, può essere stato aizzato, armato e addestrato dai nostri servizi affinché facessero il lavoro sporco, ovvero colpire l’Austria, ritenuta essere fiancheggiatrice del movimento insurrezionale in Alto Adige.
Chi la fa l’aspetti, pare essere il proverbio ispiratore della strategia sommersa.
Gli apparati degli Stati comunicano anche in questi modi, con colpi bassi, non si limitano alle diplomazie educate e civili per salvaguardare i propri interessi.
Le spie, dopotutto, servono anche a questo.

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Come nel settembre del ’64. Che storia misteriosa quella di Luis Amplatz e Georg Klotz, famosi briganti anti-italiani. Hanno la tana a Innsbruck, al sicuro, protetti, e da cui partono per le loro veloci scorribande al di là del confine.
Son ribelli che conoscono come le loro tasche i monti e i sentieri; camosci lesti e invisibili. Sulla testa di Klotz, volontario nella Wehrmacht, reduce di guerra, capo bandito e “martellatore della Val Passiria”, c’è una taglia di 10 milioni di lire.
Luis e Georg, amici per la pelle, veterani di mille botti, sono in forte contrasto con il resto del movimento, sempre più fanatico, violento e neonazista.
Burger, il Führer del Tirolo (foto), li odia, sono d’ostacolo alle sue ambizioni di totale egemonia sulla lotta armata.

I due vengono avvicinati dai fratelli Kerbler, Christian e Franz, austriaci. Christian conosce alcuni giornalisti italiani, che dietro compenso rifornisce di informazioni affidabili e notizie fresche sui gruppi paramilitari e terroristici, essendo lui stesso ben introdotto nell’ambiente.
Stop, si sa pochissimo d’altro sul personaggio.
La proposta di girare un documentario sulla guerriglia, da usare a scopi propagandistici, è il cavallo di Troia che permette ai Kerbler di entrare in confidenza con Luis e Georg.
E qui Amplatz e Klotz cadono in una trappola, congegnata da altre menti machiavelliche e nascoste.

A fine agosto i due stanno rientrando in Sud Tirolo, mitra a spalle. I Kerbler insieme ad un terzo uomo si offrono di scortarli in Val Passiria. Attraversano il confine in quota, da vie segrete. Luis e Georg scendono a valle, i Kerbler salgono verso monte, per ricongiungersi in un unico gruppo.
I guai incominciano appena mettono piede sul versante italiano.
Quando raggiungono il luogo convenuto con i fratelli, a notte fonda, invece dei compagni trovano ad aspettarli un plotone di finanzieri che tentano l’accerchiamento. Non alzano le mani, ma sparano all’impazzata per sganciarsi e fuggire nei boschi.
Una guardia di frontiera cade ferita grave.
Anche al gruppo che sta salendo capita uno strano imprevisto. Fermati da una pattuglia, i due fratelli vengono inspiegabilmente lasciati andare, mentre il terzo, un certo Anton, viene portato via e ingabbiato a Merano.

Menzogne, sospetti e i doppi giochi continuano nei giorni seguenti. I quattro si rinuiscono. Procedono cautissimi verso San Martino, rifugiandosi nelle baite ritenute sicure.
Occhi aperti, gli italiani sono ovunque e inferociti.
La notte tra il 3 e il 4 settembre 1964, Franz Kerbler e Georg Klotz lasciano il buco in cui si erano riparati per andare a cercare viveri in un maso sottostante (maso: abitazione tipica del Trentino-Alto Adige).
Al rientro Franz è agitato, Georg sente puzza di bruciato.

“Vai avanti tu”  ordina il capo terrorista.

Ma il ragazzo non vuole. Dal buio spunta qualcosa.

“Teufel!” . Sono canne di mitra! Giù!

Nell’oscurità lampeggiano gli spari a raffica. Proiettili traccianti segnano l’aria e fischiano sulle teste. Le pallottole alzano la terra che brucia gli occhi.
I razzi bengala accendono la luce sulla pietraia, sui pini e su cinquanta militari della guardia di finanza che fanno fuoco indemoniati. Georg si guarda indietro, Franz Kerbler è sparito.

Klotz, con un nuovo miracolo, riesce a fuggire e tornare dai due compagni. Sono rimasti in tre. La sera del sei settembre si fermano per la notte in una capanna sulle pendici meridionali del Monte Sella.
Nel fienile della malga Brunner si svolge la scena di un film di spionaggio. I tre uomini dormono sulla paglia, da qualche ora. Sono le due di notte.
I sogni di Georg s’interrompono bruscamente! Sveglia violenta! Uno sparo! Il fascio di luce di torcia sobbalza nella capanna.

“Scheiße!”

Altri tre spari, in sequenza veloce. Klotz grida a Kerbler:

“Spegni! Spegni! Cosa fai ?!?”

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In quei primi istanti, crede che l’attacco sia esterno. Ma è interno. Il nemico non è fuori, ma dentro il fienile, sotto quel tetto di legno, con lui. Una sagoma nera fa fuoco dal fondo della baracca.
Christian Kerbler ha appena ucciso Luis Amplatz (foto). Tradimento! Il fascio di luce si sposta dal cadavere dell’amico sul volto di Georg. Ora tocca a lui.
Altri tre spari.
Una pallottola va a vuoto, una gli graffia il labbro sfiorandogli la faccia, una gli buca il petto ed esce fuori trasversalmente, senza toccare nulla di vitale.
La pellaccia del montanaro è robusta e fortunata. Rotola fuori, lontano dal traditore, a piedi nudi e sanguinante. La fuga è rocambolesca, giù da pietraie e ripidi canaloni cespugliosi, coi piedi aperti ma senza pensarci, a rotta di collo, il vento nelle vene.
Scalzo, percorre sedici chilometri in percorsi di montagna. Non è un uomo ma uno yeti. Ancora una volta quella volpe dinamitarda, riesce a farla franca.

Christian Kerbler, spaventato per aver lasciato il lavoro a metà, raggiunge tremante il paese di Saltaus, entra nella pensione alle prime luci dell’alba, si sgola i fondi di cinque bicchieri di vino abbandonati sul bancone dalla sera precedente e si consegna agli alpini. Chiede del “dottore”.
L’omicida viene prevelato dal vicequestore e capo dell’ufficio politico di Bolzano, Dott. Giovanni Paternel, accompagnato dall’ufficiale della DIGOS Luigi Compagnone. Che cosa singolare, non viene ammanettato durante il tragitto verso Bolzano. Inscenano un incidente automobilistico e successiva fuga del fermato per campi e meleti.
Nessuno crede a quel bluff.
Kerbler è stato fatto fuggire. Il giovanotto è un mercenario, ha tradito per soldi ed è un confidente del questore Bonanno nonché dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni.

L’arma con cui Christian ha fatto fuori Amplatz e tentato di ammazzare Klotz è una Beretta, riconducibile ai carabinieri della compagnia di Bressanone. Siamo di fronte ad un’operazione speciale, sporca ed illegale, dei servizi segreti italiani.
La trappola ai due guerriglieri è stata orchestrata ad arte dall’intelligence di casa nostra, per neutralizzare una volta per tutte una seria minaccia alla sicurezza interna e per lanciare un monito severo a Vienna. Se le cose fossero filate lisce e senza intoppi, si sarebbe poi confezionato un finto scontro fuoco tra militari e terroristi su alla malga Brunner, oppure un regolamento di conti intestino tra fazioni guerrigliere, con gli attori già morti stecchiti, dei silenziosi manichini da spostare a piacere.
Le spie coprono la ritirata di Kerbler con denaro e un nuovo passaporto: finisce in Libano e poi a Londra, dove nel 1976 le autorità inglesi offrono la sua estradizione; offerta non colta dall’Italia.
Voci dicono che sia a Durban, in Sud Africa. In Alto Adige si combatte una guerra di superfice ed una sommersa.

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FASE QUATTRO – STRAGI – ESPERIMENTI DI GUERRA
Il rischio di una deriva basca o nordirlandese, cioè di ritrovarsi invischiati in un conflitto etnico violento e longevo, e di odi fratricidi senza soluzione, c’è e non è fantastoria.
Il triennio 1964-67 vede un pericoloso intensificarsi dell’incendio. L’estate 1964 è terribile. Il carabiniere Vittorio Tiralongo cade in una trappola alla caserma dei Selva dei Molini, e freddato a colpi di Mauser.
Si susseguono agguati a camionette cariche di soldati, scontri a fuoco, imboscate che causano un altro carabiniere ammazzato e diversi feriti.
Per un momento sembra che i militari perdano il controllo reagendo isterici: proprio quello che i terroristi vogliono, ovvero alzare lo scontro, la repressione, il sangue.
Il terrore si nutre di escalation, ambisce alla guerra civile.

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Il comando di zona, l’11 settembre, ordina un grande rastrellamento sulle alture sopra il comune di Gais, su un fronte di cinque chilometri, dal basso verso l’alto fino a duemila metri di altezza. Partecipa una forza mista di carabinieri ed alpini. Setacciano i boschi di pini, i pascoli, i masi, le frazioncine arrampicate sopra la Val di Tures.
A Montassilone (foto), da dove qualcuno ha fatto fuoco contro le pattuglie in avanzata ferendo un carabiniere, saltano i nervi. I soldati, armi in pugno irrompono nelle quattro case. Gridano, sembrano animati da desiderio di vendetta.
Rivoltano le abitazioni, spaccano le quattro cose della gente a pedate e coi calci dei fucili. Trascinano tutti fuori, uomini, donne, vecchi e bambini. Alcuni vengono messi contro un muro e obbligati a tenere le mani alzate per diverse ore. Altri sono ammanettati e fatti accucciare nell’acqua gelida di un ruscello.
Un elicottero dell’esercito atterra sull’alpeggio, scende sul prato il colonnello Francesco Marasco, furibondo. Ha intenzione di trattare la frazione di montagna come in una rappresaglia in stile Vietnam, con case bruciate ed esecuzioni sommarie. L’intervento del tenente colonnello Giancarlo Giudici evita il peggio.

“Hai fermato quindici persone? Bene. Mettili al muro e fucilali”  sbraita Marasco a Giudici.

L’ufficiale Giudici dice no.

“Li devi fucilare, hai capito? Mettili al muro e, dopo, brucia tutto il paese. Radilo al suolo”  insiste l’altro, schiumando.

“Ma tu sei pazzo! Questa cose non le hanno fatte neanche i tedeschi durante la guerra!”

In quell’angolo di confine, sembrano per un giorno ribaltate le sicurezze insegnate dalla storia ufficiale: ora gli italiani sono i cattivi e i tedeschi le vittime.
Davanti a tutti gli uomini del reparto che guardano allibiti la scena, Giudici afferra per un braccio l’altro ufficiale imbestialito e lo ricaccia sull’elicottero.

“Ti denuncio per insubordinazione!” urla Marasco, furioso.

Il pilota del veivolo, obbedisce a Giudici e porta via l’apprendista fucilatore.
Dopo l’episodio, il tenente colonnello Giancarlo Giudici è immediatamente allontanato da Bolzano per ordine del Comandante dell’Arma, il generale De Lorenzo. 
Il tenente colonnello Giudici ha evitato un massacro. “Il tenente colonnello Giudici non vuole combattere”.

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Nei mesi successivi, la tensione sale ancora. 

  • Caserma di Sesto Pusteria, agosto ’65. Un commando di quattro uomini si avvicina ad una finestra. Svuotano i caricatori dei mitra all’interno, uccidendo due carabinieri.
  • Rifugio del Passo di Vizze, maggio ’66. Una trappola esplosiva sistemata sulla porta dilania un finanziere.
  • San Martino di Casies, luglio ’66. Tre fiamme gialle sono in libera uscita, passano il loro tempo nell’unico bar dello sperduto villaggio alpestre ad uno sputo dal confine austriaco. I militari escono dal bar, salgono la rapida salita verso la caserma. Manca poco alla mezzanotte. Dal bosco di abeti, partono sventagliate di piombo. Muoiono in due, il terzo riesce a buttarsi al riparo in un fosso, decine di pallottole gli fischiano sulla testa. 
    I sospetti sugli autori dell’imboscata cadono sui quattro “bravi ragazzi” Siegfried Steger, Sepp Forer, Heinrich Oberlechner e Heinrich Oberleiter, “i quattro apostoli della Valle Aurina.”
  • Malga Sasso – Steinalm, a due passi dal Brennero, settembre ’66. A 1.800 metri d’altezza, c’è un distaccamento della GdF in una casermetta recintata da filo spinato. Un fortino isolato. Arrivano gli indiani.
    Striscia il nemico la mattina del 9 settembre, elude le sentinelle, supera la barriera di filo spinato e incredibilmente nessuno lo vede.
    In uno sfiatatoio di un gruppo elettrogeno infila un pacco di trenta chili di tritolo, collegato ad un congegno a tempo. Tic tac tic tac.

    “Un boato terribile, il finimondo, sembrava cadessero proiettili di mortaio”

    L’edificio si sbriciola, muoiono per la tremenda esplosione tre finanzieri.
    Tutt’oggi rimangono diversi dubbi sull’episodio, non si è certi che si sia trattato di attentato o di incidente. Oppure che si sia trattato di attentato a firma del BAS o di attentato senza firma, una bomba anonima con scopi perversi, come altre peggiori che verrano negli anni a venire in Italia.

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Nervosismo alle stelle. Ad un soldato cade il mitra di mano, che fa fuoco accidentalmente ammazzando un alpinista. Un sudtirolese non risponde all’alt intimatogli da un alpino e viene centrato in piena da testa da un proiettile.
La situazione sta degenerando.
Reparti speciali affiancano la truppa nelle operazioni antiterrorstiche. Nasce in seno alla Compagnia Speciale Antiterrorismo del 7° Battaglione Carabinieri, già attivo nello scenario fin dal dopoguerra, un reparto speciale a composizione mista.
È un manipolo di uomini addestratissimi, il fiore all’occhiello delle Forze Armate. Professionisti fuori dal comune, sono uomini del reggimento dei carabinieri paracadutisti “Tuscania”, parà incursori del “Col. Moschin” (foto), finanzieri di montagna della Guardia di Finanza.

L’anno successivo i terroristi introducono le mine antiuomo come nuova tattica di morte. Cima Vallona, provincia di Belluno, giugno ’67. Un’azione terroristica, raffinata e crudele, si svuluppa in tre tempi e altrettante deflagrazioni.
Gli alpini del battaglione “Val Cismon” della Brigata Cadore, distaccati presso la casermetta-fortino di Forcella Vallona, sono tirati giù dalle brande dal fragore di uno scoppio. La prima esca è gettata.
I guerriglieri hanno fatto saltare in aria il traliccio numero 1 della linea elettrica Linz-Soverzene a Cima Vallona, quota 2.450. L’Austria è a esattamente cinque metri di distanza.
All’alba parte una squadra di alpini e finanzieri per ispezionare luogo e danni. Non è facile arrampicarsi sin lassù; cinque chilometri a traballare a bordo di campagnole che scalano mulattiere, un chilometro a piedi per sentieri nella desolazione di rocce aride e cumuli di neve.
Sono le sette.
Il drappello fa le sue prime rilevazioni, scattano foto, raccolgono rottami, usano i metal detector per scovare mine.
Le cautele non bastano. Esplosione numero due.
La seconda esca è gettata. L’alpino Armando Piva calpesta un ordigno antiuomo, mimetizzato tra le pietre. Gli parte una gamba intera, è coperto di ustioni, ha gli occhi scoppiati fuori dalle orbite. Il trasporto in elicottero del ferito verso l’ospedale è inutile, il giovane alpino muore dopo poche ore.

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L’unità antiterrorismo per “servizi speciali”, comandata dal capitano Francesco Gentile, carabiniere paracadutista ed uno dei massimi esperti di tecniche di sabotaggio e contro-sabotaggio, viene inviata d’urgenza a Cima Vallona. Nella pattuglia sono in sette, oltre al capitano Gentile dell’Arma ci sono il tenente Di Lecce e i sergenti Dordi e Fagnani, della Folgore.
Non sono di certo soldatini di leva, ma artificieri preparati, operano sul terreno minato guardinghi come se camminassero su uova.
Ne trovano una di quelle mine vigliacche per la guerra infame. La disinnescano e la portano via. Sono le 11 del mattino, il sole è alto, la bonifica è stata fatta, credono.
Si ritirano verso valle, per raggiungere l’elicottero. Sul sentiero, una brutta sorpresa. La zona è ancora infetta. Un anfibio tocca una mina antiuomo di potenza eccezionale.
Esplosione numero tre. Il lampo, il boato, la montagna in aria, pezzi di soldato lanciati a cinquanta metri di distanza. Cadono dilaniati Gentile, Di Lecce e Dordi; Fagnani se la caverà, seppur con ferite orrende.  
La mano della strage è di Peter Kienesberger, la mente è del nazista Norbert Burger, ideatore del piano.

Stazione ferroviaria di Trento, settembre 1967. Squilla il telefono della Polfer. Allarme: una donna ha notato una valigia sospetta sul direttissimo Alpen Express che corre dal Brennero. Un losco individuo, salito a Innsbruck, ha lasciato un bagaglio verde sul penultimo vagone.
La donna sente il rumore di  lancette di orologio provenire dalla valigia verde. Tic tac tic tac.
Il treno fa la sua fermata a Trento. Il brigadiere Filippo Foti e l’agente Edoardo Martini della polizia ferroviaria salgono sulle carrozze, individuano la valigia. Il pacco li parla: tic tac tic tac ... Scendono dal treno, il brigadiere ha sotto braccio l’ordigno. Sotto le pensiline c’è folla, bisogna trovare alla svelta un luogo senza anime vive.
Si dirigono di corsa con la palla avvelenata tra le mani, gocce di sudore bagnano le fronti. Svelti, cazzo! Tic tac tic tac.

Optano per il deposito bagagli, ma si rendono subito conto che se la carica di esplosivo fosse molto potente, tutta la stazione salterebbe in aria e sarebbe strage. Allora, via con le ali ai piedi, volano sui binari, oltrepassano i treni merci, milza in fiamme, non si curano di loro stessi, sono eroi.
Là, negli orti dietro ai magazzini senza finestre, è un posto sicuro e isolato dove abbandonare quella maledet ...

Botto!

La gente sulle banchine vede alzarsi una sinistra colonna di fumo nero.
Dieci chili di tritolo hanno fatto due nuove vittime.
Se non fossero intervenuti per tempo sarebbe stata una carneficina ben peggiore, una strage di Bologna ante litteram.

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FASE CINQUE – NUOVI FUOCHI – RAFFREDDAMENTO - STORIA
Il gruppo terroristico BAS - Befreiungsausschuss Südtirol è rimasto attivo fino al 1969, l’anno in cui Italia e Austria hanno siglato l’introduzione del “Pacchetto per l'Alto Adige”: la provincia di Bolzano gode così di un particolare statuto d’autonomia. Per alcuni membri dell’organizzazione, l’obiettivo è raggiunto; per altri estremisti, assolutamente no.
La situazione sotto le Dolomiti si è raffreddata anche perché l’Austria, dopo gli accordi con il governo italiano, ha attuato un cambio di rotta nei suoi rapporti ambigui con i terroristi, che per anni ha usato, spinto, protetto.
La polizia austriaca ha cominciato a darsi da fare, ammanettando chi avrebbe dovuto essere dietro le sbarre da anni.

Gli scontenti altoatesini negli anni ’70, anni in cui l’Italia è aggredita da altra violenza politica, tornano ad accendere micce contro monumenti-simbolo, come protesta radicale per la lentezza in cui i provvedimenti previsti dal nuovo stato d’autonomia vengono applicati nella regione.
Nel 1986 compare un’altra sigla, apertamente nazista. EIN TIROL commette attentati di minor gravità rispetto alle stagioni precendenti ma che comunque hanno l’effetto di gettare nuova zizzania tra le comunità etniche.
Tra le sue fila irriducibili del disciolto BAS, criminali pregiudicati, infiltrati dei servizi segreti che non smettono di combinare le loro torbide marachelle. Hanno sede a Norimberga, dove raccolgono fondi, arruolano nuove leve, stampano Der Tiroler  - il loro giornalino ossessionato dagli italiani, monotematico nell’odio razzista verso noi.
Non ho avuto il piacere di sfogliare il magazine, ma posso supporre che si possa trattare di carta igenica. I volantini rivendicativi di E.T. (Un Tirolo, non l’extraterrestre marrone) vengono firmati così:

DIE KAMPFGRUPPE
EIN TIROL
GOTT MIT UNS

Il motto scelto – Gott mit uns, Dio con noi – è la frase storica delle case regnanti di Prussia e utilizzata dagli eserciti germanici fino al 1945, quando era incisa sulle fibbie della Wehrmacht.
I terroristi minori degli anni’80 scelgono lo slogan per siglare le loro azioni nel tentativo di continuità con il passato imperialista della Germania e il sogno del grande Reich, patria ideale per tutti i tedeschi d’Europa.
Anche la banda LUDWIG, micro-ordine assassino composto da due inquisitori moderni, che lascia dietro il suo sinistro passaggio un fiume di sangue, usa lo stesso motto (ne abbiamo parlato qui) nelle sue rivendicazioni.
Ulteriore punto di somiglianza, seppur pallido, viene dal nome di battaglia che uno dei capi del BAS dei primi ‘60 utilizza alla riunioni di Innsbruck, per rimanere anonimo. Si fa chiamare “Ludwig”.

Ludwig alle riunioni dice:

“Bisogna aggredire i carabinieri”
“È necessario attentare alla vita delle persone”

Gli informatori suggeriscono ai carabinieri che Ludwig altri non è che Gunther Andergassen, maestro di musica di giorno, cattivo maestro di notte. È uno dei cospiratori principali di tutta la storia del terrorismo sudtirolese. Ludwig in onore di Beethoven, nome preso in prestito senza permesso da capi terroristi e serial killer invasati da crociate nazi-moraliste.

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I continui attentati di EIN TIROL provocano la rabbia degli italiani. Non è un caso che a Bolzano in quegli anni ci sia un ottimo risultato del MSI. Nascono gruppi nazionalisti, segreti e illegali, e forse mossi da altre forze dietro le quinte, votati alla difesa dell’italianità nella zona contro le provocazioni e le prepotenze dei fanatici di madrelingua tedesca.

  • API – Associazione Protezione Italiani: attentati senza coinvolgere persone contro funivie di proprietà filo-austriaca; contro la casa del presidente SVP, contro uffici governativi, contro la sede della DC; avvelenano mele della Bassa Atesina, ma le contrassegnano con l’effige di un’aquila per evitare che facciano male sul serio.
    “Rivendichiamo la responsabilità degli attentati compiuti nella città di Bolzano. Questa autonomia non ci piace.”

 

  • MIA – Movimento Italiano Alto Adige: bomba a Merano contro il monumento all’eroe tirolese Andreas Hofer; rappresaglie agli attentati di E.T.
    “Chi non ha capito è un imbecille. Nulla contro Hofer o i tedeschi. Ma che l'Italia abbia concesso l'uso della lingua tedesca non significa che gli italiani debbano imparare il tedesco o debbano andarsene. Le ricchezze sono tedesche, l'unica risorsa della minoranza italiana è il pubblico impiego.”

La Storia sa essere curiosa e originale. In questo microcosmo nazionale, i fascisti possono definirsi antinazisti, e i nazisti dichiararsi antifascisti. Come nel 1934, durante la crisi austriaca successiva alla congiura di Hitler contro Dolfuss, quando Mussolini mandò su al Brennero quattro divisioni, venendo quasi alle mani con il suo futuro alleato.
Tradimenti, soffiate, arresti ... alla fine degli anni ’80 tramonta definitivamente la guerriglia in Alto Adige.
Dopotutto, quella è una delle zone più ricche d’Europa, a nessuno giova più giocare alla guerra, anche perché coccolati da tutti i vizi concessi dallo Statuto speciale, che ne fanno una regione privilegiata.
Sopravvivono alcune antipatie, arroganti e razziste, degli elementi più chiusi e ottusi.

Il distacco di qualche decennio ci permette di analizzare dal punto di vista storico cosa effettivamente sia successo ai piedi delle Dolomiti.
Tre sono state le diverse ambizioni dei terroristi sudtirolesi rappresentanti altrettanti anime all’interno del loro movimento sovversivo: staccare il Sud Tirolo dall’Italia e annetterlo all’Austria, sua madrepatria asburgica; rimanere in Italia con però una fortissima autonomia politica e culturale, impedendo a masse di italiani terroni baffo nero di trasferirsi nell’eden razziale altoatesino; far rivivere antichi sogni nazi-imperialisti per riunire nuovamente i popoli di lingua tedesca in un unico grande Nono Reich ultramillenario, o vaneggiamenti simili.

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È stato un lungo episodio di neo-brigantaggio settentrionale. L’Italia il nemico, patria da rinnegare, un piccolo Ulster a casa nostra.
Potrebbe sembrare un’esagerazione definire le agitazioni del decennio dei ’60 come guerriglia. No, invece: non è esagerato.
È stata guerriglia perchè:

  • C’è stata un’organizzazione terroristica con scopi ben precisi di sovversione.
  • C’è stata un’ideologia di irredentismo e separatismo che ha costituito la fede dell’organizzazione. 
  • C’è stato un terreno montagnoso, impervio, non sempre conosciuto dalle forze dell’ordine, ideale per un tipo di lotta partigiana o simile.
  • C’è stato il “nemico” della causa: le truppe italiane, il male.
  • C’è stata una buona fetta di popolazione di madrelingua tedesca, soprattutto nei primi tempi, favorevole, simpatizzante e fiancheggiatrice. L’habitat.
  • C’è stato un innegabile appoggio esterno da parte di una nazione estera. L’Austria, per anni falsa amica.
  • Ci sono stati i morti.

Dal canto nostro, l’esperienza di botti e raffiche in Alto Adige, rappresenta uno dei tanti scheletri nell’armadio della storia Repubblicana. Ormai possiamo dire che dentro quel cavolo di mobile abbiamo collezionato un ossario.
Per rami dei servizi segreti e branchie delle forze armate ad essi collegati, la guerriglia ha rappresentato un banco di prova, un motivo di addestramento speciale, un’occasione per esperimenti di strategie della tensione e prove di autoritarismo. Non può essere esclusa l’ipotesi di infiltrazione attiva nei ranghi terroristici al fine di alimentare lo stesso terrorismo - fino a spingersi a mettersele da soli, le bombe sui tralicci, per gettare benzina sul fuoco, scaldare gli animi.
E poi escalation, emergenza nazionale, leggi speciali, repressione, ed infine governo autoritario per ristabilire l’ordine.
Seguendo questa tesi, la chiave di lettura potrebbe essere un’anticipazione di quello che verrà da Piazza Fontana in poi. Strategia della tensione: prologo sudtirolese, palestra di devianze.

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Il Trentino Alto Adige, regione di panorami mozzafiato, è un tesoro di bellezza. Italia, odi et amo: la si ama orgogliosi, nonostante odiosi difetti. Patria non così grande, in termini di vastità di superfice, non paragonabile ad altre nazioni colosso della Terra; però allo stesso tempo così diversa e ricca di infinite sfaccettature, costumi, storie, paesaggi.
Dal blu del Mediterraneo alle vette tetto d’Europa; e in mezzo mille mondi diversi, secolari, unici.
Abitiamo in un affresco meraviglioso, anche se ce lo dimentichiamo.
I colori dell’Alto Adige, se Dio vuole, sono parte incancellabile e indiscutibile del nostro affresco. 
SÜDTIROL IST ITALIEN!

Federico Mosso
@twitTagli

Per approfondire

Note musicali

  • Südtirol Angelobung 2010 - Südtiroler Schützenbund
  • Danza tirolese - Schuhplatter
  • Ray Charles - Hit The Road Jack (1961)
  • The Trashmen - Surfin’ Bird (1963)
  • Nancy Sinatra - These Boots Are Made for Walkin' (1966)
  • The Rolling Stones - Paint it black (1966)

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