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j. edgar

Creato il 16 gennaio 2012 da Alekosoul

j. edgarE’ un Eastwood decisamente crepuscolare e disincantato, quello che emerge dalle pieghe registiche di J. Edgar, monumentale biopic sulla vita e le gesta di Hoover, direttore dell’FBI (dal 1924 al 1972) tanto potente sulla scena pubblica quanto fragile e sottile nella vita privata. Questa, in estrema sintesi, la chiave di lettura di questa pellicola, che riporta l’attenzione del buon vecchio Clint alla storia della sua nazione, dopo l’anticonvenzionale racconto misterico Hereafter.

E come già in molti altri suoi titoli più o meno recenti (Million Dollar Baby, Mystic River, Gran Torino), anche in J. Edgar il meglio è contenuto nella grande capacità (innanzitutto umana, prima che artistica) del regista di illuminare, in modo profondo e molto sfaccettato, le dinamiche interpersonali che si creano fra gli individui, senza perdere mai di vista ne la direzionalità del racconto, ne la corretta prospettiva e distanza necessaria a evitare l’autoreferenzialità del melò.

In questo senso l’Hoover eastwoodiano, padre padrone dell’FBI, di cui resse le fila con pugno di ferro e volontà d’acciaio per ben 48 anni, trascinando di peso il Bureau dagli scantinati della politica ai vertici internazionali, è tratteggiato, con estrema dovizia di particolari, da un Di Caprio mai così maturo, al livello attoriale, e capace di uno studio del personaggio e di un’interpretazione corporea ed emozionale di alto livello. A lui va infatti gran parte del merito riguardante il lavoro di coesione di una trama che si dipana per oltre mezzo secolo, passando attraverso otto presidenti, da Coolidge a Nixon.

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Ma oltre la storia con la S maiuscola, ciò che emerge è in prima istanza la vita di un uomo, che si è relegato con le sue stesse mani in un’esistenza sacrificata, misera, nella sua estrema aridità affettiva. Un uomo prigioniero del potere e del prestigio che ne deriva, incapace di staccare il cordone ombelicale che l’ha legato alla madre (la sempre notevole Judi Dench), cosi come di comprendere e accettare la propria (omo)sessualità, gestita in modo tanto goffo e disordinato quanto commovente, nella sua incapacità di abbandonare le persone a cui è diretta (la segretaria di una vita, Helen Gandy, e il braccio destro Clyde Tolson).

La messa in scena è permeata da un certo classicismo di fondo, sia per quanto riguarda la gestione temporale e spaziale, sia rispetto a scelte estetico/scenografiche. Eastwood inanella in conclusione una serie di momenti efficaci e toccanti, ma anche alcune cadute di stile (make-up), dove emerge altresì una gestione della sceneggiatura più banale di quanto ci si sarebbe aspettati.

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La visione dei 137 minuti di cui si compone J. Edgar lascia un senso di amara, inquietante scomodità, come durante una passeggiata non autorizzata nelle stanze nascoste del potere, occupate da una gerontocrazia fuori tempo massimo, dapprima nei panni dell’Hoover ragazzo, ansioso arrivista carico di incorruttibili, discutibilissime idee, successivamente come non destituibile despota, canuto e senescente, coperto di rughe in volto come di macchie l’operato nascosto.

A fine proiezione Eastwood ribadisce ancora una volta il punto di vista che perdura per tutta la pellicola, John Edgar Hoover è stato e rimarrà per tutti un’enigma indecifrabile, un uomo che volle farsi re (parafrasando Kipling), che non volle farsi uomo.


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