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Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore

Creato il 25 giugno 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
1973_Herschdi Giuseppe Leuzzi.Il presepe ha il Guardincielo, che fa la bocca a O, pastore dello Stupore. Patrizia Cavalli (“Datura”, p. 108) si chiede: “Possibile\ che solo a noi sia dato lo stupore?” Jeanne Hersch aveva già concluso, qui alla prima pagina: “Stupirsi, è proprio dell’uomo”, lo stupore adottando come innesco della conoscenza (il titolo originale è “L’étonnement philosophique”).

Vico non sarebbe stato d’accordo, che voleva gli uomini “bestioni tutto stupore e ferocia”. Ma è indubbio: la filosofia nasce con esso, lo stupore è ciò che ha portato gli antichi greci a porsi “le loro strane domande”. A cominciare da Talete e la scuola di Mileto. Che posero la questione: che cosa persiste attraverso il cambiamento? La sostanza. E cos’è la sostanza? Ma a mano a mano, bisogna pure dire, lo stupore scema, la scoperta: le ultime domande, se non le risposte, sono sempre la prima.

Le ultime risposte, per quanto sofisticate, variano peraltro poco: il nominalismo, vedo il cavallo ma non la cavallinità, il realismo, la soggettività, da Descartes a Nietzsche, inclusa l’impossibilità del Cristo o della fede (Kerkegaard), e l’irriducibilità dell’essere (Begson), l’inconscio, la rimozione (Freud), la trascendenza, la temporalità – l’opera è del 1981, Jeanne Hersch si ferma a Heidegger e Jaspers. E non più risolutive che l’aria, l’acqua,  fuoco e l’infinito dei milesi, nemmeno tanto nuove. La capacità di stupire della filosofia è limitata? Specie nel mainstream, da Kant in qua, della filosofia sistematica, assertiva. “Che cos’è l’essere”, direbbe ancora Hume, o la scuola di Mileto.  La ricerca dell’“essere dell’esistente” è piena Mileto.

Curiosa opera, che in una prospettiva evolutiva, una storia della filosofia dal punto di vista della novità, della scoperta, finisce per metterla in surplace da 2.500 anni. L’esito è quello di Kant: il soggetto non può aggiungere nulla all’essere. Hegel, che pensava di aver quadrato il cerchio, col pensiero totalizzante in grado di fissare la verità, riduce il razionale al reale – neppure consolatorio. La libertà dell’etica (del pensiero) e la necessità della geometria vanno in simbiosi, direbbe Spinoza: la libertà è necessità, la necessità è libertà – promettente, ma Spinoza a 45 anni morì. Il resto è religione (il mondo creato), col problema insoluto del male, oppure vanità, nichilismo (materialismo), con la fine della filosofia. Siamo sempre al paradosso di Zenone: il moto e il mutamento dominano la nostra esperienza della realtà, ma noi siamo incapaci di pensarli.

Opera arguta, forse involontariamente. Montale, cronista maligno, che ha incontrato Jeanne Hersch nel 1949 a un convegno ginevrino delle Rencontres Internationales di cultura, la ricorda così nel quinto di una serie di servizi che scrisse sul”Corriere della sera” il 16 settembre (ora in “Ventidue prose elvetiche”, p. 88), dopo aver introdotto Karl Jaspers, l’oratore della seduta, un uomo altissimo, dai capelli bianchi un po’ a zazzera e dagli occhi chiari metallici e severi, che “parla in tedesco, un tedesco così scandito e aristocratico che tutti (anch’io) hanno l’illusione di capirlo”: “Lo accompagna la sua interprete, Jeanne Hersch, che registra ogni sua parola: una donna piccola, bruna, scuretta di pelle, coi capelli accercinati attorno alla testa, che passa per essere la più fedele depositaria del suo pensiero” – con un sussulto in fine: “Quando però la Hersch traduce il verbo del maestro, non dirò che le cose s’intorbidino, ma certo si fanno chiare fino all’evanescenza”. Una filosofa che di preferenza ha lavorato “sul terreno”, dei diritti civili all’Onu, la cui opera principale s’intitola “L’illusione della filosofia” – Abbagnano, che “L’illusione della filosofia” curò nel 1942, a guerra ancora vinta, lo sapeva già: “Certo, l’essere non può più costituire l’oggetto della filosofia, se questa ha perduto la sua ingenuità primitiva”.

Featured image, Jeanne Hersch.


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