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Jeff Nichols: down to the river

Creato il 26 novembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

 Jeff Nichols: down to the river

Andiamo a ritroso, partiamo dalla fine. “Well I got here following the southern star
/ I crossed that river just to be where you are
/ Only one thing I did wrong
/ Stayed in Mississippi a day too long”, canta Dylan ma è come se stesse parlando Mud, il protagonista dell’ultima pellicola di Jeff Nichols. Con un occhio al “Suttree” di Cormac McCarthy, assistiamo alle gesta dell’ultimo dei romantici, in un incrocio tra la più classica delle storie di formazione e una ballata sui beatiful losers.  Un’opera che conferma come il regista sia quello dallo spirito più schiettamente americano tra i giovani cineasti in circolazione. Un cinema dove si manifesta appieno lo spirito southern degli USA: su una riva la tradizione letteraria di Mark Twain mentre su l’altra il cinema indie di John Sayles e David Gordon Green, in mezzo scorre il fiume Mississipi. Un film piccolo, per alcuni addirittura un passo falso, ma che invece è il miglior biglietto da visita per questo giovane dell’Arkansas. Lo spirito elegiaco, dolce, ingenuo, che lo contraddistingue, difatti lo connoterebbe come l’esordio perfetto. Isolato, ai margini della società, outsider con un passato oscuro di bugie e mezze verità, Mud vive su di un’isola ma la sua vita non è sempre stata così. Un’esistenza trapassata da una ferita, come se il protagonista stesse ripensando alle vicende vissute dai personaggi dei film precedenti di Nichols, proprio in questo Mud sembra rappresentare l’opera della maturità.

Narratore classico, amante del cinema di Malick – come traspare dal massiccio uso della luce naturale per la fotografia dei suoi film- e degli abitanti delle badlands, perdenti che s’incarnano nello sguardo folle ma fiero di Michael Shannon, attore feticcio del regista. Storie di gente comune, di famiglie che cercano di condurre la loro vita scansando invano i problemi che gli corrono incontro. Trasportate da un ritmo dilatato così come gli spazi dove sono ambientate, queste pellicole sono innanzitutto storie di persone, che partendo dall’incomprensione arrivano alla solitudine sfiorando la follia. Una sotterranea paura figlia di questi tempi di crisi, d’instabilità economica che diventa esistenziale, che si riflette nei pensieri paranoici del protagonista di Take Shelter. Opera che ha contribuito a lanciare la carriera del regista, spiazzante messa in scena d’uno zeitgeist purtroppo universale, ritratto d’una America colpita al cuore vissuta attraverso il travaglio d’un uomo qualunque.

Curtis è un operaio che improvvisamente ha delle visioni premonitrici di un imminente disastro naturale, pian piano queste visioni si tramutano in allucinazioni talmente reali da convincerlo a costruire un rifugio antiatomico dove ripararsi insieme alla sua famiglia. Con una progressione drammatica implacabile, Nichols costruisce un dramma familiare con una potenza visiva che rende palpabile il senso di minaccia che sovrasta la vita di Curtis, così simile  a quella d’ognuno di noi. Senza dare risposte, spingendo a chiederci quale sia la causa delle nostre paure, affrontate con dolore e mai lasciate scivolare in un’apparente schizofrenia, il film è una personale lettura delle fragilità del nostro tempo.

Se in quel caso la famiglia era un rifugio da proteggere, non si può dire lo stesso del vero esordio del regista, quello Shotgun Stories che si presenta come un revenge movie  con conti da regolarsi tra vecchie e nuove parentele. Son,  Kid e Boy sono stati abbandonati dal padre quando erano bambini, lui si è costruito una nuova famiglia e, al momento della sua morte, inizierà una furiosa faida famigliare. La violenza dei sentimenti non diventa mai stile grandguignolesco o isterico, sin dall’inizio appare chiaro come il film lavori sotto traccia, instillando un’inquietudine che esplode in una conclusione che ha le radici profonde nel passato dei personaggi. Una circolarità spietata per cui la vita di un individuo visita l’esistenza delle future generazioni, come un fantasma incapace di mondare i propri peccati. In questo Sud affascinante e lercio assistiamo così allo sfaldarsi e ricomporsi ciclico d’unità familiari in balìa di sogni, paure, desideri e frustrazioni che poggiano le basi nella crisi del grande sogno americano. Il regista, moderno cantore di gioventù alla ricerca del sogno e d’adulti sbandati, saprà come aggiornare questo racconto di padri e figli con la prossima pellicola, Midnight Special, storia fantascientifica che senz’altro celebrerà lo Spielberg targato Amblin.

Andiamo a ritroso, torniamo al principio. Quando i due ragazzini, protagonisti di Mud, girano per l’isola in cerca d’avventura, improvvisamente qualcosa attira la loro attenzione: una barca poggiata, non si sa come, sulla cima di un albero e che aspetta soltanto di ritornare a galleggiare sull’acqua. Questa è l’immagine metaforica migliore per descrivere l’universo, ancorato alla realtà ma che guarda al fantastico, del cinema di Nichols e, forse, del cinema stesso.

Rosario Sparti


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