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Joe Kidd

Creato il 09 agosto 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Sangue e sudore, polvere e sole, morte e whiskey. Il west è un luogo in cui quello che hai te lo devi guadagnare, te lo devi sudare, per cui devi spargere il tuo sangue, o quello di un altro, e ti può essere levato con un colpo di Winchester o nel lasso di tempo che una freccia impiega a raggiungerti. È una realtà in cui ogni errore passato ti si ripresenterà, in cui ogni conto va saldato, ogni bugia viene smascherata, in cui la morte può indossare una giarrettiera, circondata di fumo e dalle note stonate di una pianola, o ha una stella di latta al petto, e quando viene a prenderti lo fa in nome della legge. Ma, ciò nonostante, è un luogo dove la tua parola è la merce più preziosa che ci sia, dove una promessa fatta è come un contratto scritto con il sangue, dove la reputazione è tutto quello che un uomo ha ed è quello su cui si costruisce la propria esistenza. Se, come chi scrive ha sempre sostenuto, la grande differenza tra donna e uomo risiede nell’armonia con il contesto circostante che a quest’ultimo sembra difettare, l’amore maschile per il west cinematografico nasce dal fatto che la lotta diventa chi sei. La capacità di superare ostacoli e avversioni è l’essenza del ritratto che verrà tramandato di te. Tu sei quello che fai e quello che dici.  Questo è perché l’uomo ama il western: il primitivo senso di giustizia.

Joe Kidd

In un mondo dove i piani di lettura sono infiniti, dove tutto si muove con una velocità inverosimile, è bello pensare che esiste un luogo dove la polvere copre il viso di chiunque, senza distinzioni, dove la distanza tra la tua meta e una croce sulla collina degli stivali è misurata dalle tue capacità, dove regna una selezione darwiniana ed è la natura ad assegnare i punti. E’ un luogo in cui l’abbraccio di una donna, un sorso di rum, un letto per dormire o una bacinella d’acqua calda sono cose da assaporare fino in fondo, perché potrebbe essere l’ultima volta che le vivrai. Un luogo in cui le cose hanno un senso. Perché, pur vivendo in un mondo in cui il nostro nome è virtualmente ovunque, avvolti nell’illusione, che tutti ci cercano e che centinaia di persone vogliano ascoltare ciò che abbiamo da dire, molti uomini hanno la sensazione che, invece, un mondo in cui il proprio nome forse non lo conosce nessuno se non l’albero che lo trattiene nella sua corteccia,  e il proprio testamento è scritto nella sabbia è un mondo in cui il tuo segno appare più duraturo. Dietro ad un appassionato di western, spesso, si nasconde un velo di malinconia e un uomo che sogna che le uniche verità si celano sulle labbra della donna che ha al suo fianco e nel vento che alza i lembi del suo spolverino immaginario. Semplicità e silenzio. È doveroso parlare del rapporto tra virilità e western quando ci si accinge ad affrontare il cinema di John Sturges. Il regista della virilità per eccellenza. Non tutti gli appassionati del genere considerano Sturges uno dei loro registi preferiti, ma quasi tutti devono ad almeno un suo film parte della loro forma mentis di rancheri-cinefili. Se non è Sfida all’O.K Corral (1957), è I magnifici sette (1960) o L’ora delle pistole (1967).

John Elliott Sturges è il più importante regista americano nato artisticamente nell’immediato dopo guerra (il suo debutto avviene proprio nel 1946 con The man who dared), la cui reputazione e filmografia si sorregge su tre generi: il noir (Giorno maledetto – 1955, in primis), il film d’avventura, quasi sempre di stampo bellico (La grande fuga – 1964), e il western (L’assedio delle sette frecce – 1953). John Sturges è ancora lontano dall’essere collocato lì dove meriterebbe e la sua carriera, composta da circa quarantacinque titoli, è ancora in attesa di essere storicizzata a dovere. Sturges è stato bollato come “action-director”; del resto eccelleva nella realizzazione di sequenze d’azione perfettamente concepite ad orologeria, incorniciate in composizioni visivamente emozionanti.

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Strurges è inoltre un ideale autore d’unione nell’ambito western. Un ponte tra il classico e l’innovazione del genere, prima di tutto, proprio, per la sua concezione dell’azione. Robert Ryan, attore particolarmente sensibile e attento, intervistato nel 1955, dopo la sua partecipazione al capolavoro Giorno maledetto (Bad day at Black Rock) fece la seguente riflessione: “John è il primo regista a cui ho visto fare davvero un buon uso del CinemaScope”.  Un commento particolarmente perspicace e per niente scontato, se consideriamo che questo processo era ancora ai suoi albori. Come nel caso di un altro maestro, Peckinpah, che successivamente si mostrerà in tutta sua grandeza, il cinema di Sturges si sorregge su un uso attento e consapevole del montaggio. Non a caso il regista scomparso nel 1992, ma che si era già ritirato alla fine degli anni settanta, nasce proprio come montatore (Gunga Din – 1939 e Non desiderare la donna d’altri - 1940), negli studi della RKO, dove debutterà anche come regista. A dimostrazione della modernità di Sturges basta andare a rivedersi la lunga sequenza d’assedio al villaggio da parte dei pistoleri protagonisti de I magnifici sette. Un utilizzo non solo incredibilmente ritmico del montaggio, creato anche grazie ad una rara armonia con la stupenda colonna sonora, ma realizzato anche in maniera “psicologica”,  accelerando e diminuendola velocità in base alle esigenze narrative dei singoli personaggi. Sturges, quindi, è tanto figlio del decennio che lo ha visto debuttare quanto padre di maestri futuri.

Questo è quanto il sottoscritto ha avuto da dire, sulle pagine di questa rubrica, sul regista di I Magnifici Sette. Come già detto, Sturges nasce dalle ceneri del dopoguerra. I suoi film raccontano storie di redenzione e contorto eroismo. Arrivati alla soglia degli anni Settanta il sistema produttivo in cui era attivo Sturges venne a mancare. Come spesso si è rimarcato in questa sede molti registi non seppero o non vollero adattarsi alla rivoluzione in atto. Budget ridotti, temi più attuali messi in scena con maggior realismo, nuovi generi. Il western, si sa, arrivati alla fine dei Sessanta era in forte calo. Quei registi (Peckinpah in primis) che portavano avanti il genere lo sfruttavano per raccontare i cambiamenti socio-politici. Se non per qualche vecchia firma, John Wayne ad esempio, che continuava ad andare per la sua strada, il western si era tinto di rosso e di un cupo cinismo, grazie soprattutto al successo e le influenze del west italico. Proprio per questo, fa piuttosto tenerezza il ritorno al genere di Sturges, nel 1972, con Joe Kidd con Clint Eastwood.

Joe Kidd

La premessa della storia è molto interessante, soprattutto perché contenente elementi di rado toccati. Nella zona di Sinola (Nuovo Messico), con il pretesto che gli indigeni non possono dimostrare i loro diritti sulle proprie terre poiché i relativi incartamenti sono bruciati in un incendio, i coloni statunitensi si spartiscono delle terre. Mentre i più modesti peones ricorrono inutilmente alle proteste legali, Luis Chama raccoglie attorno a sé una banda e compie rappresaglie, che lo sceriffo Matchell non riesce né ad arginare né a punire. Mr. Harlan organizza allora una spedizione raccogliendo attorno a sé altri feroci proprietari o sicari. Per essere più sicuro, cerca di allettare il ranchero Joe Kidd, il quale accetta il posto di guida solamente quando scopre che Chama ha razziato i cavalli della sua fattoria e ucciso il domestico Emilio. Tuttavia, quando viene a sapere, da Helen Sanchez, che Emilio è stato ucciso da altri e quando Harlan si abbandona a feroci rappresaglie contro innocenti peones, Joe avvicina Chama e lo convince a consegnarsi a Mitchell.

Alcuni hanno notato somiglianze, narrative e non, con il film di  Sergio Corbucci, Il grande silenzio. All’epoca si vociferava che Eastwood avesse acquistato i diritti del film con Trintignat/Kinski per farne un remake. Pare che diede precedenza a questo progetto. Il legame più forte tra i film è l’arma dei rispettivi protagonisti: una Mauser C96. Come si accennava prima, dei soprusi compiuti dagli americani ai danni del popolo messicano, nel western, se ne parlato poco. Le aspettative, dunque, erano alte per Joe Kidd: era il ritorno al genere di Sturges insieme al divo più in voga del momento. Inoltre la sceneggiatura è a firma dell’immenso Elmore Leonard, che ricordiamo, al di fuori del pulp-noir, ha firmato capolavori come Quel treno per Yuma (1957). Se non bastasse troviamo un corollario d’attori formidabile, tra cui spiccano Robert Duvall, John Saxon e Don Stroud. Ma il risultato è eccessivamente schematico e la messa in scena statica. Il problema più grande sembra essere la mancanza di conflitto. Sia di un antagonista forte che di un conflitto interiore. Il Kidd di Eastwood sembra vivere un continuo slittamento morale. Contradditorio come se a Sturges mancasse il coraggio di rendere il personaggio cinico fino in fondo, cosi come sembrerebbe concepito da Leonard. Molti ricorderanno la mitica scena in cui il protagonista guida una locomotiva in un saloon. Sequenza che per quanto imprevista risulta poco credibile ed eccessivamente fanciullesca. Affermazione che si presta bene a descrivere un po’ la pellicola tout-court.  Troppo per un film incastonato tra un Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972) e Pat Garret e Billy the Kid (1973). Se si è in cerca del testamento western di Sturges la si può trovare nel dolce e malinconico Valdez il mezzosangue, realizzato l’anno dopo.

Eugenio Ercolani

 

A settembre: Valdez-il mezzosangue


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