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José Saramago: Testimone di una “Cecità” Crudele

Creato il 22 settembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

José Saramago: Testimone di una “Cecità” CrudeleSaramago scriveva meravigliosamente bene. Ridotta all’osso la trama di “Cecità”, edito nel 1995, non si discosta molto dai canoni del genere apocalittico: una strana epidemia infesta un paese, facendo regredire gli umani a un hobbesiano stato di natura dove ognuno è lupo per gli altri uomini. Sembra di stare dalle parti del solito apologo contro la ferinità di esseri orgogliosamente razionali, ma questo libro ha un qualcosa in più: l’autore. Perfino quando scivolava su un approssimativo antiberlusconismo risolto nelle poche righe di un blog, in Saramago si poteva cogliere un dettaglio che rendeva personale una delle materie più impersonali degli ultimi anni. Il premio Nobel portoghese era uno scrittore prezioso, raro, brutalmente sincero come pochi altri grandi romanzieri. “Cecità” non è un capolavoro perchè la narrazione non sorprende mai, testardamente lineare e prevedibile, monolitica nel voler denunciare ad ogni pagina la cecità reale e allegorica che serpeggia già nella nostra società. Avvertimenti letterari di questa crudezza sono sempre necessari, non che si discuta su questo, ma l’eccessiva concentrazione sul simbolismo della storia ha reso appena accennata la componente immaginifica. Ed è un peccato che egli scelga consapevolmente di accantonare la facoltà più visiva del racconto, perché alcune trovate sono dignitosissime. La cecità diventa ad esempio un mare bianco di latte nel quale si sprofonda improvvisamente, una perpetua luce bianca che non causa danni agli occhi ma colora il mondo di un candore assurdo e proprio per questo, insopportabile. In contrapposizione a questo nitore, il cui effetto è non meno straniante del nero tenebra al quale siamo soliti associare la perdita della vista, ecco che l’uomo lascia affiorare gli impulsi più bestiali della sua natura così spesso messa ipocritamente a tacere. Il Governo (cosa importa sapere quale, tutti si sarebbero comportati allo stesso modo – suggerisce Saramago – con la scelta del solo sostantivo) mette subito in quarantena i primi ciechi. Il luogo previsto per l’internamento è naturalmente un manicomio abbandonato perché per il Potere chi non è sano è semplicemente pazzo. Quante volte la democrazia occidentale, la tanto decantata democrazia occidentale, ha previsto prima la repressione di un qualunque sovvertimento dell’ordine costituito e soltanto dopo la ricerca di cause?

José Saramago: Testimone di una “Cecità” Crudele

In “Cecità” nulla e nessuno ha comunque un nome. Il paese (o addirittura il mondo, non è dato saperlo) nel quale si manifesta l’epidemia non è mai menzionato e anche i pochi protagonisti della vicenda sono riconoscibili per epiteti. Le case non hanno colore, i corpi non hanno forme e nemmeno l’unica vedente della storia, la moglie del medico, si lascia mai andare a descrizioni. Tutto è indifferente per i ciechi ma lo era già prima della perdita della vista. Quanta sofferenza ci passa davanti agli occhi senza che si riesca ad imprimere nelle nostre retine? Quanto dolore? Quanta ingiustizia? L’opera di Saramago ce lo ricorda ad ogni capitolo, la sua scrittura è dolentissima, sembra essere vecchia di migliaia di secoli, il male si rinnova completamente nelle forme ma il destino del suo eterno ritorno resta ineluttabile. Infatti in “Cecità” ad essere anonimi non sono soltanto luoghi e persone ma anche il tempo, come a voler rendere questo monito diacronico piuttosto che meramente sincronico. Così come sempiterne sono le reazioni umane di fronte a una catastrofe. Invece di cercare una soluzione comune o il bene della maggioranza, tra i ciechi internati nascono prima le ostilità, e poi i gruppi prevaricatori. Non si ha la forza di ribellarsi contro l’autorità e allora si cerca subito la scappatoia della violenza interna, contro gli infermi propri simili. Saramago si diverte a giocare con i suoi protagonisti analizzandoli come se compiesse uno studio sociologico di cui è facile prevedere i risultati: in breve tempo un gruppo di ciechi malvagi confisca il poco cibo che il Governo manda agli internati e si fa pagare prima in soldi, e dopo in natura dalle donne delle altre camerate. In “Cecità” gli uomini fanno sempre figure grame. O sono sodali nella violenza o, al massimo, impotenti e bisognosi. Le donne invece posseggono ancora quella purezza e solidarietà che le rende protagoniste degli episodi più poetici del libro, come quello della lavata purificatrice sotto una pioggia battente. La simpatia di Saramago verso “l’altra metà del cielo” si estrinseca anche nella scelta di fare della moglie del medico, la protagonista, una specie di Messia laico, l’unica vedente tra un esercito di non vedenti che dovrà salvare i suoi compagni nelle situazioni più difficili. La storia, come detto, è lineare e divisa in due parti speculari, tra lo spazio angusto del manicomio e poi in quello più grande del paese, dopo l’avvenuta liberazione. Ciò che continua ad imputridire l’atmosfera è l’olezzo dei bisogni corporali che i ciechi ormai fanno dappertutto, liberi da quei vincoli di dignità che la vista imporrebbe. Saramago insiste così tanto su questa abiezione dell’uomo che sembra spesso di respirare quell’aria malsana, di muoversi con i protagonisti tra i rifiuti di un’umanità così velocemente abbrutita, da far sospettare che questa degenerazione sia sempre latente in noi e aspetti di uscire fuori alla prima occasione. Dopo una parentesi mistica alquanto inopportuna, giunge il finale e con esso una piccola fiammella di ottimismo. La cecità difatti scompare inaspettatamente così come era comparsa, come se avesse soltanto voluto scoperchiare con il suo passaggio l’indifferenza che l’uomo prova per i propri simili. Un vaso di Pandora che dopo aver liberato malattia, pestilenza e morte, conserva sul fondo la più grande tra le illusioni umane: la speranza di un futuro diverso da un passato e da un presente che sembrano invece irredimibili. “Cecità” ci lascia allora con la domanda se l’uomo saprà imparare da questa epidemia a vedere la sofferenza dei suoi simili, se saprà riacquistare la vista di fronte alle ingiustizie in cui ha costretto miliardi di suoi simili. Il successivo “Saggio sulla lucidità”, sembra rispondere che nulla è servito.


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