Magazine Cultura

Joyce vive

Creato il 27 luglio 2010 da Nicolapasa

Joyce vive

 

di Nicola Pasa

La lettura dell’Ulisse di Joyce mi porta a fare una cosa inutile noiosa sterile a parlare cioè dello stato presente della letteratura italiana, un argomento noioso come è noiosa la nostra letteratura, che sembra invece così fervida e fertile, nascono geni e talenti ogni ora del giorno, sulle fascette dei libri prodotti a spron battuto dalle munifiche case editrici non leggi che giudizi entusiastici, e se ti aggiri per i blog letterari scopri nuovi autori o autori consacrati, scrittori famosi di cui non hai mai sentito parlare e che pure sono famosi e salgono in cattedra e giudicano seriosi e distinguono tra chi è degno di scrivere e chi no. Lo fanno con quell’autorità che è loro riconosciuta dai loro amici anche loro famosi scrittori sconosciuti pubblicati da case editrici piccole ma prestigiose, dirette da gente al di sopra di ogni sospetto e si scambiano elogi e favori e si strizzano l’occhio e si palpano il culo.

Essere amici tra scrittori è una cosa ai limiti dell’incesto, una cosa schifosa, come scopare con vostra figlia o vostra nonna, o al limite è una roba degna del masochismo sadiano, gente che gli piace e gode se gli caghi sopra, tipo il D’annunzio prototipo del poeta di successo, vate, di cui si può salvare una poesia al massimo e poi tralasciarlo senza rimorsi.

Gli unici scrittori o poeti che mi piace frequentare sono morti, alcuni da secoli e altri sono vivi ma per fortuna distanti, oltre oceano, altri ancora sono vicini ma non c’è in me alcun interesse ad incontrarli.

Eppure fioriscono le compagnie di scrittori, si incontrano, discutono, si confrontano, sbevazzano, mangiano, scopano, cinguettano, spettegolano, come comari alla fiera del paese e del bestiame. Conoscono vedono gente, perché è importante comunicare per questi scrittori.

Tra la scrittura e la comunicazione c’è la stessa distanza semantica che separa il cibo e la merda. La scrittura viene ingurgitata sminuzzata ingoiata digerita cagata e diventa comunicazione,  merda d’artista.

Cosa c’entra Joyce ? Ora vengo al punto. Come riassumere la ricchezza stilistica della presente letteratura ? Vogliamo parlare di stile secco ? Vogliamo definire lo stile in voga derivato dello stile minimalista americano ? Vogliamo definirlo asettico come piace ad alcuni critici ? Vogliamo definirlo piatto ? Meglio cinematografico o cinematografaro ? Forse il secondo.

Eccoci a Joyce.

Prendete il suo romanzo più famoso e meno letto in assoluto, Ulisse. Bene, consideratelo per quello che è: un capolavoro stilistico, un’enciclopedia stilistica. Difficile da leggere per la sua complessità stilistica. Un libro divertentissimo, spregiudicato per molti versi, un libro che in alcuni momenti è divino per quanto perfetto e questi momenti sono i più leggibili di solito.

La cosa meno interessante per me è l’intreccio di tematiche che Joyce affronta e dunque non ne parlerò, se volete ci sono un sacco di saggi sui temi dell’Ulisse. Non fatemi perdere tempo con queste baggianate.

Voglio fare una cosa un po’ matta, riportare due o tre brani integralmente e commentarli, così perché possano essere una pietra miliare per chi si avventura nei territori del diavolo, per chi pensa che scrivere sia un mestiere o una tecnica, per chi pensa che si possa insegnare a scrivere. Si può solo insegnare a leggere e al limite si può dire come non si deve scrivere, ma ovviamente se voi dite come non si deve scrivere a uno scrittore vero questo vi sputa in faccia (giustamente) e scrive come cazzo gli pare e voi potete prendere la vostra lezioncina di scrittura creativa e ficcarvela per benino su per il culo.

Un piccolo suggerimento per chi vuole leggere l’Ulisse, i capitoli che valgono una lettura, una rilettura e anche una trilettura sono a mio avviso:

tutta la prima parte con protagonista Stephen Dedalus, l’artista in formazione

i primi due capitoli della parte seconda, in particolare la scena del risveglio e della colazione di Bloom

il capitolo sette con i suoi 50 personaggi

il capitolo dieci, in particolare la parte terminante del capitolo con la scena di Leopold Bloom e della giovane Gerty

il primo capitolo della terza parte e naturalmente l’ultimo capitolo con il celebre monologo di Molly

I capitoli meno interessanti sono quelli in cui predominano i pastiche letterari, quindi il capitolo della taverna, quello del bordello, quello dell’ospedale ecc.

Ovvio che se lo leggete la prima volta bisogna leggerlo integralmente anche nelle sue parti meno riuscite, se non altro per ricompensare l’opera faticosa di un genio vero.

Riporto il primo brano, è il finale del primo capitolo della seconda parte, Bloom ha portato la colazione a letto a Molly, la moglie dalle curve opulente, affamata di cibo e sesso, la sensuale sposa che lo tradirà alle quattro e mezza con Boylan, volgare e rozzo impresario che a detta di Molly sa solo scopare bene, esce e si reca nel cortile dove c’è la latrina.

La tecnica utilizzata in questo brano da Joyce è stata chiamata monologo interiore. Consiste nell’uso alternato del classico racconto in terza persona dell’azione del personaggio e dei suoi diretti pensieri o immagini. Per meglio evidenziare la tecnica ho messo in risalto le parti in cui Bloom esprime direttamente i suoi pensieri.

“Tirò un calcio alla porta ballerina del cesso. Meglio stare attenti a non sporcare questi pantaloni per il funerale. Entrò, chinando la testa sotto il basso architrave. Lasciando la porta socchiusa, in mezzo al tanfo di calce muffita e di ragnatele stantie si sbottonò le bretelle. Prima di sedersi sbirciò da una fessura una finestra dei vicini. Il re era al suo banco. Nessuno.

Accosciato sulla seggetta spiegò il giornale voltando le pagine l’una dopo l’altra sulle ginocchia denudate. Qualcosa di nuovo e agevole. Non c’è nessuna fretta. Tratteniamola per un po’. Il nostro racconto a premio! Il colpo da maestro di Matcham. Di Mr Philip Beaufoy, club degli Spettatori, Londra. L’autore è stato pagato in ragione di una ghinea a colonna. Tre e mezzo. Tre sterline e tre scellini. Tre sterline tredici scellini e sei pence.

Lesse tranquillamente, trattenendosi, la prima colonna e, cedendo ma resistendo, attaccò la seconda. A mezza strada, la sua ultima resistenza cedendo, permise ai suoi intestini di liberarsi comodamente mentre leggeva, leggeva ancora pazientemente, quella leggera stitichezza di ieri sparita del tutto. Spero non sia troppo grosso fa rispuntar le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico. Una pillola di cascara sagrada. La vita potrebbe essere così. Non lo aveva commosso o toccato ma era una cosa svelta e pulita. Ora stampano qualsiasi cosa. Stagione morta. Continuava a leggere, seduto calmo sul suo odore ascendente. Pulita certamente. Matcham pensa spesso al colpo da maestro con il quale conquistò la piccola strega ridente che ora. Comincia e finisce moralmente. La mano nella mano. In gamba. Ripercorse con lo sguardo quel che aveva letto e, mentre sentiva la sua acqua scorrere tranquillamente, invidiava senza cattiveria quel bravo Mr Beaufoy che l’aveva scritta e aveva avuto in pagamento tre sterline tredici scellini e sei pence.

[…]

Strappò bruscamente metà del racconto a premio e ci si nettò. Poi succinse i pantaloni, si allacciò le bretelle e si abbottonò. Tirò a sé la porta sconnessa e traballante del cesso e uscì nella penombra all’aria aperta.”

Come scriverebbe uno scrittore contemporaneo questo brano ? Isolerebbe i pensieri dalle azioni. Le azioni sarebbero secche scritte in un linguaggio secco, una prosa secca, seccata, proviamo.

Tirò un calcio alla porta malmessa del cesso. (fin qui, unica variazione l’uso di malmessa a ballerina, parola che concede troppo all’immaginazione, troppo poetica, via)

Devo stare attento a non sporcare i pantaloni per il funerale, pensò Leopold Bloom mentre si chinava per passare sotto il basso architrave. (il moderno scrittore deve farci sapere che Bloom ha questo pensiero, non che sia un peccato ma il mio scopo qui è di ritrovare il senso di una prosa perduta, di uno stile che rende vivo il racconto e che andrebbe ritrovato, ricercato, coltivato, perché io me rendo sempre più conto, lo stile indiretto sa di morte, di putrefazione, poteva avere un senso, anche la secchezza, il punto che chiude la frase e non indugia nel lirismo come opposizione all’accademismo ecc ecc ma ora tutto questo è retorico, falso, occorre una strada nuova che molto spesso ha la sua genesi nel passato, anche remoto)

Lasciò la porta socchiusa. C’era un tanfo di calce muffita e di ragnatele stantie. Si sbottonò le bretelle. Prima di sedersi sbirciò da una fessura una finestra dei vicini.

Vide che il re era al lavoro, non c’era nessuno.

Capite bene o forse no, quel che intendo è che dovremmo riscrivere recuperando le lezioni dei maestri defunti. Non abbiamo bisogno di maestri in carne e ossa che ci rammentano le solite baggianate, l’arte è ricerca solitaria, dura, non vuole amici né maestri, perché uno scrittore nel momento in cui si pone come insegnante rinuncia al suo ruolo che non è tra gli uomini, di uno scrittore parla ciò che scrive, nel momento in cui uno scrittore parla non è lo scrittore ma un coglione qualunque, inservibile rottame pieno di merda fumante, non ci interessa quel lurido pallone gonfiato con l’aria da cazzone istruito, non ce ne fotte nulla dei suoi pareri se assume l’aria dello scrittore, nel momento in cui dichiara di essere al nostro cospetto come scrittore siamo autorizzati a sputargli in faccia.

La cosa più bella di questo brano oltre alla chiusa che riprenderò più avanti è questa:

“Lesse tranquillamente, trattenendosi, la prima colonna e, cedendo ma resistendo, attaccò la seconda. A mezza strada, la sua ultima resistenza cedendo, permise ai suoi intestini di liberarsi comodamente mentre leggeva, leggeva ancora pazientemente, quella leggera stitichezza di ieri sparita del tutto. Spero non sia troppo grosso fa rispuntar le emorroidi. No, giusto giusto. Così. Ah! Stitico. Una pillola di cascara sagrada. La vita potrebbe essere così.”

Un uomo che caga. Come raccontare diversamente da Joyce un uomo che caga ? La tecnica del monologo interiore si complica qui, nella stessa frase Joyce mescola il racconto in terza persona e il pensiero diretto di Bloom senza usarci nemmeno la cortesia di separare con un punto, ci confonde questo sozzo geniale irlandese.

Durante la seduta Bloom legge un racconto di tale Mr Beaufoy di cui si sono perse le tracce, trova interessante che il racconto sia stato pagato tre sterline tredici scellini e sei pence, la considerazione economica intorno all’arte tornerà alla fine del romanzo quando Bloom si incontra con il suo figlioccio Stephen Dedalus che dell’arte ha una concezione più assoluta, lontana lontanissima dall’idea commerciale di Bloom.

Il racconto viene usato da Bloom per nettarsi il culo:

“Strappò bruscamente metà del racconto a premio e ci si nettò. Poi succinse i pantaloni, si allacciò le bretelle e si abbottonò. Tirò a sé la porta sconnessa e traballante del cesso e uscì nella penombra all’aria aperta”.

Giusto utilizzo che suggerisce il buon Joyce di certa letteratura, se noi utilizzassimo in luogo della carta igienica tre veli la solida carta dei libri degli autori italiani in voga, di questi famosi scrittori sconosciuti per pulirci il culo, non pensate che ci sarebbe una crescita culturale senza precedenti ? Pagine e pagine imbrattate di noiosa saccente prosa, secca per carità, geniale per quanto asettica, netta, senza fronzoli o lirismi, una prosa tagliente (si legge sempre nei risvolti di copertina che mi immagino vengano copiati e variati quel tanto per distinguerli agli occhi dei lettori babbei) buona per pulirsi il culo e poi giù nel water, una bella tirata di sciacquone ed ecco che un mare di parole fluisce negli scarichi fognari.

Ora mi soffermo sul capitolo dieci della seconda parte, nella parodia dell’Odissea corrisponde a Nausicaa, la giovane che aiuta il naufrago Ulisse, riporto integralmente il brano dove il rapporto a distanza tra Gerty MacDowell e Leopold Bloom diventa un vero e proprio amplesso, il piacere di essere guardata e violata da un uomo misterioso della giovane Gerty e il piacere onanistico e voyeuristico di Bloom.

“E Jacky Caffrey gridò che guardassero, ce n’era un altro e lei si gettò all’indietro e le giarrettiere erano azzurre per intonarsi e per mettere in rilievo la trasparenza e tutti lo videro e urlarono di guardare, eccolo e lei si gettò ancor più all’indietro per vedere i fuochi e qualcosa di strano volava per aria, qualcosa di morbido, avanti e indietro, scuro. Ed essa vide un lungo bengala che saliva di là degli alberi, su, su, e, in un silenzio teso, a tutti mancò il fiato per l’eccitazione mentre saliva sempre più in alto, e lei dovette gettarsi sempre di più all’indietro per seguirlo con lo sguardo, in alto, in alto, quasi a perdita d’occhio, e il suo volto era soffuso di un divino, seducente rossore per lo sforzo e lui poteva anche vedere altre cose di lei, mutandine di batista, il tessuto che accarezza la pelle, meglio di quelle altre mutande a pantalone, verdi, a 4 scellini e undici pence, perché erano bianche e lei lasciava che lui e vedeva che lui vedeva e poi salì così in alto che si sottrasse alla vista un istante e lei tremava in ogni parte del corpo per essere così gettata all’indietro e lui poteva vedere tutto quel che voleva al di sopra del ginocchio, dove mai nessuno neanche sull’altalena o quando si mettono i piedi in acqua e lei non si vergognava e lui neanche di guardare in quel modo impudico perché lui non poteva resistere alla vista di quelle mirabili rivelazioni semiprofferte come quelle ballerine che si comportano così impudicamente sotto gli occhi dei signori e lui continuava a guardare, guardare.

Avrebbe voluto gridare con voce soffocata, tendergli le svelte braccia nivee perché egli venisse, sentire le sue labbra posarsi sulla sua bianca fronte, il grido d’amore di una fanciulla, un piccolo grido strozzato, strappatole a forza, quel grido che è risuonato nei secoli dei secoli.

Allora partì un razzo e pam uno sprazzo di bianca luce accecante e oh! Il bengala scoppiò e fu come un sospirare di oh! E tutti gridarono oh oh in estasi di rapimento e ne sgorgò un fiotto di pioggia di fili d’oro e si sparsero e ah ora erano tutte roride stelle verdastre che cadevano con altre dorate, oh così vive, oh tenere, dolci, tenere!

Poi tutto si sciolse rugiadosamente nell’aria grigia: tutto tacque.”

Il brano procede in crescendo imitando un rapporto sessuale, sono presenti riferimenti sessuali piuttosto espliciti, il bengala che saliva su su, lo sprazzo di luce bianca, il fiotto di pioggia ecc il culmine, il climax corrisponde con l’orgasmo ripreso anche dagli oh oh di Gerty.

Che cosa racconta Joyce in questo brano ? La masturbazione di un uomo sposato mentre guarda le sotto la gonna di una ragazza che si mostra impudicamente, una cosa che potremmo definire indecente, insomma un vecchio porco che scruta le mutandine di una sciacquetta che si mostra senza vergogna e con voluttà e che vorrebbe essere presa là nel buio da quell’uomo sconosciuto.

Gerty è una ragazza di gusti e sogni mediocri, una ninfetta dei nostri tempi, la sua immaginazione è figlia dei romanzi rosa piccanti, lettura peraltro preferita anche da Molly donna molto ignorante, tutto il capitolo fino a questo estratto è scritto in uno stile che riprende la scrittura dei romanzi rosa in voga all’epoca, romanzetti per giovanette di scarsa cultura e di bassa o mediocre estrazione sociale che coltivano sogni dozzinali, spesso legati alla figura di un uomo misterioso, un tenebroso munifico signore che le rapisce, le seduce, le porta via magari per una notte, sembra riecheggiare la figura di Emma Bovary. Ora la riscrittura di Joyce dello stile da romanzo rosa è qualcosa di stupefacente, rianima una cosa morta, putrida, un cadavere imbellettato stucchevole che rivela il suo odore di marciume solo al lettore colto e avvertito e lo riporta in vita, gli ridona freschezza vitalità da un lato mostrandone il lato più volgare pruriginoso che viene sempre occultato dalla prosa leziosa e dai romanticismi di maniera o dai richiami ipocriti ad una pudicizia cattolica apostolica se prendiamo il tema e dall’altro reinventando la composizione con questo crescendo finale e l’immissione del monologo interiore con i frequenti ondeggiamenti dei ricordi di Gerty.

Consumato l’amplesso Gerty fugge via, raggiunge le altre ragazze dall’altra parte della spiaggia, ecco come Joyce rivela a noi e a Bloom il segreto della ragazza:

“Lentamente senza guardarsi indietro ella percorse la spiaggia diseguale verso Cissy ed Edith, verso Jacky e Tommy Caffrey, verso il piccola Boardman. Era più scuro ora e c’erano sassi e pezzetti di legno sulla spiaggia e alghe scivolose. Camminava con quella certa quieta dignità che le era propria ma con cautela e molto lentamente perché – perché Gerty Mac Dowell era …

Scarpe strette? No. E’ zoppa! Oh.

Mister Bloom la osservava zoppicare. Povera figliola! Ecco perché è rimasta là in asso e le altre correvano via. Mi pareva bene che ci doveva essere qualcosa, dal suo aspetto. Bellezza piantata in asso. Un difetto è dieci volte peggiore in una donna. Ma la rende gentili. Sono contento di non averlo saputo quando si metteva in mostra.

Ho di nuovo sottolineato gli interventi diretti del pensiero bloomesiano. Il modo in cui ci viene rivelato che Gerty è zoppa è sublime, commovente. Joyce sapeva ovviamente essendo Gerty una sua creatura che era zoppa, perché ce lo rivela solo ora ? E’ una scelta stilistica perfetta. Perché riveste di una nuova luce i brani precedenti, il rapporto a distanza con Bloom e i suoi pensieri. Certo Bloom non fa una bella figura quando considera che è stato meglio non saperlo e sostiene che un difetto è peggiore dieci volte in una donna ma d’altronde dovete anche considerare la spiacevolezza del momento, c’è un rivolo di sborra che gli cola nelle mutande e si sta raffreddando e diventando viscosa, inoltre dopo una sega il cervello dell’uomo è un po’ annebbiato, ci si sente come svuotati fisicamente e intellettualmente, non si chieda ad un uomo di pensare mentre scopa e nemmeno quando ha sborrato perché è ancora in orbita, lasciatelo scendere, lasciate che si faccia un bidé un caffè e poi riconsideriamo tutto.

Considerazioni finali. L’Ulisse di Joyce è un’opera giocosa, un’epopea eroicomica che deve più al romanzo satirico inglese che alla letteratura classica, ci sono tracce di Fielding, Sterne, Swift, Dickens. Un’opera che è una summa della letteratura inglese, un apoteosi di stile e di linguaggio, una miniera di esercizi di stile per uno scrittore che voglia imparare a scrivere dagli unici maestri possibili, i grandi libri. L’Ulisse va letto e riletto, tenetelo sul comodino e ogni tanto apritelo a caso, anche nei passi meno riusciti troverete una gemma in grado di oscurare la triste piattezza della letteratura presente a meno che non vi dedichiate all’opera dell’unico scrittore classico della nostra epoca, David Foster Wallace. 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

A proposito dell'autore


Nicolapasa 59 condivisioni Vedi il suo profilo
Vedi il suo blog

L'autore non ha ancora riempito questo campo L'autore non ha ancora riempito questo campo

Magazines