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Karate

Creato il 02 luglio 2010 da Jollyroger
Ieri pomeriggio, C. ha brillantemente superato (almeno quello), l'esame di karate per il secondo kyu (ni kyu), che poi sarebbe il secondo grado della cintura marrone.
Il caldo era opprimente, quasi straniante, aggrediva gli occhi facendoli bruciare e C. ogni tanto assumeva espressioni che ricordavano il cristo sulla croce con la testa circondata di spine.
In altri momenti, forse per il capelli, sembrava Jim Morrison nella foto a torso nudo e con le braccia spalancate, come l'uomo vitruviano di Leonardo.
L'abbiamo iscritto che aveva appena dieci anni, per presunti problemi di psicomotricità, e oggi l'ho visto come un ragazzo di quasi quindici, elegante nei movimenti, bello oltre ogni misura, fisicamente perfetto.
Il guaio è che la palestra ha un'intera parete ricoperta da specchi nei quali, invariabilmente, si riflette la mia immagine di vecchio cinquantenne bolso, qualcosa che non amo vedere, nemmeno negli specchi di casa. Non riesco a fare a meno di sbirciarmi, soppesando la pancia, valutando se la polo che ho messo la minimizzi oppure la renda più evidente. Non sopporto di vedere le mani grassoccie che non so mai dove mettere, spio gli altri genitori con una bilancia virtuale e, invariabilmente, mi sento il più grasso di tutti.
Il maestro è un tipo buffo, non più alto di un metro e sessanta, pelato come un'oliva, con un intercalare fatto di "preeecisoo" oppure "noo, sbagliato", che a casa, mi diverto a imitare con discreto successo.
Durante gli esami ama sciorinare i nomi dei vari colpi e Kata in un giapponese che a me sembra solo una strana filastrocca: Heian Shodan, kiai, Bassai-dai, Enpi, Jion eccetera. Ma il bello è che, quando corregge qualche allievo, si mette a parlare un po' come toro seduto, ovvero, omettendo spesso gli articoli, come fosse un giapponese che parla italiano. Per esempio: "Bene, ma poca potenza, calcio più alto, meno confusione".
Molti anni fa, quando mio padre decise di iscriversi a una palestra, portò anche me. Mi ritrovai da solo, con un energumeno vestito da karateka che mi fece togliere calze e scarpe. Non l'avevo previsto, e dopo un pomeriggio sulla terra battuta dell'oratorio, avevo doppi calzini: uno di cotone e uno di terra disegnato sulla pelle delle caviglie. L'energumeno disse che non importava e cominciò a farmi correre in tondo sul parquet deserto. Poi cominciò con lo stretching, prendendomi una gamba e spingendomela quasi fin sulla faccia. Non capivo perché mio padre mi avesse mollato lì da solo con quella specie di montagna in kimono e dove se ne fosse andato. Probabilmente in qualche altro locale della palestra a fare chissà cosa. Perché non potevo fare quello che faceva lui, insieme a lui? Oppure, perché non poteva, lui, fare quello che stavo facendo io? E poi non avevo nessuna voglia di andare in palestra alle sette di sera in un posto che non ricordo - sono sempre stato convinto che fosse dalle parti di viale Bodio - e dal quale ci volevano almeno venti minuti di auto per tornare a casa. E infatti questa storia finì dopo un paio di lezioni.
Mi sentivo anche imbrogliato da mio padre che, diceva, avrei fatto lezioni di karate. E allora, dov'era il kimono? e la cintura? E la tessera della federazione da mostrare agli amici increduli? Mi pareva tanto quella volta che mi regalò una maglietta da calcio rossonera del Foggia spacciandola per quella del Milan che, invece, aveva le righe molto più sottili.

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