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Kenaz e l’amore che trasfigura

Creato il 14 luglio 2010 da Andreapomella

Kenaz e l’amore che trasfiguraNe avevo parlato qualche settimana fa, prima che mi accingessi a leggerlo, in una specie di recensione preventiva, o se si preferisce, in un commento al profumo di pagine appena comprate. Sto parlando di Yehoshua Kenaz e del suo Ripristinando antichi amori, romanzo multiforme e a suo modo perfetto che narra delle vicende dei personaggi che animano un condominio di Tel Aviv. E adesso che ne ho ultimato la lettura mi accorgo che è difficile parlarne come vorrei, senza cadere nella tentazione di scrivere il classico giudizio sulla complessità del romanzo corale e sui molteplici strati di senso con i quali, spesso e volentieri, si ha a che fare quando si affronta la narrativa contemporanea israeliana. Se c’è un modo corretto di esprimersi su quest’opera è proprio facendo a meno di nominare i personaggi e le storie che li vedono protagonisti, e semmai soffermandosi sulla natura di quegli amori a cui si allude nel titolo. Ne Il bacio del serpente di Josip Osti, che leggevo proprio stamattina, si dice: “la vita non è una favola // quando ti bacio / ti trasfiguri in una serpe // mi baci // con ogni bacio siamo sempre più vicini alla morte”. Ecco, gli amori dei personaggi di Kenaz sono proprio così, uomini e donne trasfigurati dall’amore, che nell’inseguire i propri desideri non fanno che avvicinarsi sempre di più alla morte morale del proprio spirito. Il condominio decadente di Tel Aviv che fa da sfondo al romanzo sembra avere i pavimenti che fluttuano, le pareti che trasudano di un continuo bisbigliare, e il lettore – che sta affacciato a una finestra che dà sul cortile interno – si accorge che se desidera evadere da se stesso deve distruggere tutte le finestre degli altri, insinuarsi lentamente sotto le luci di lampadina che illuminano debolmente queste vite di sconosciuti, sdraiarsi furtivamente accanto a loro, come un angelo invisibile. Solo così si riesce a comprendere la sostanza di questi amori “da ripristinare” di cui ci parla Kenaz e che la malattia della contemporaneità ha reso aridi, desertici, e che – addentrandoci via via nella lettura del romanzo – ci accorgiamo di conoscere, nostro malgrado, così bene. In un’intervista rilasciata a Elena Loewenthal  e pubblicata su La Stampa nell’ottobre del 2009, Kenaz ha affermato: “Non sono sicuro di scrivere nel presente. Le mie storie possono essere ambientate nel passato remoto e in quello prossimo. Spesso non hanno tempo. Non so nemmeno dire se esse abbiano un qualche riflesso sul presente”. Leggere Kenaz ci lascia così con un interrogativo aperto, una domanda che riguarda noi stessi, il nostro mondo di cose quotidiane, e il riflesso che esse hanno sul valore profondo della nostra vita. Potremmo chiamarlo “senso”, se non fosse una parola così abusata.


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