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Keynes in difesa del protezionismo economico

Creato il 07 marzo 2013 da Keynesblog @keynesblog
Keynes in difesa del protezionismo economicoPubblichiamo ampi estratti del saggio di John Maynard Keynes "Autosufficienza economica" pubblicato nel 1933, le cui suggestioni sembrano attuali oggi come allora, anche in connessione alle vicende dell'eurozona, la cui crisi ha origine negli squilibri delle bilance dei pagamenti. Keynes smonta l'idea che i commerci internazionali liberi portino alla pace e alla concordia tra le Nazioni, sottolineando invece che la conquista di mercati esteri spesso è all'origine dei conflitti, sicché le guerre commerciali divengono con facilità guerre militari. Ma anche la pretesa dell'assoluta necessità di un mercato internazionale libero da ogni vincolo non trova giustificazione nel capitalismo moderno, perché i progressi della tecnica e la sostituzione delle materie prime permettono alle nazioni di liberarsi, almeno in parte, dai vincolo delle importazioni dall'estero. Per Keynes si tratta di cogliere l'opportunità di rivedere in modo critico i presupposti del liberoscambismo ottocentesco, che ai giorni nostri è nuovamente dominante nella teoria economica, non per chiudersi ai commerci in modo pregiudiziale, ma per valutare un bilanciamento tra grado di liberalizzazione dei commerci e grado di autonomia in campo economico che permetta di mantenere la piena occupazione. Da queste riflessioni scaturì l'idea, che Keynes portò a Bretton Woods, di un sistema monetario internazionale che mantenesse per ogni paese l'equilibrio della bilancia dei pagamenti.

Come la maggior parte degli inglesi, io sono stato allevato al rispetto della libertà di commercio, non solo come una dottrina economica che non può essere messa in dubbio da una persona ragionevole e istruita, ma quasi come un capitolo della legge morale. Ne consideravo le violazioni come imbecillità e al tempo stesso come fatti perversi. Ero persuaso che le incrollabili convinzioni liberiste, a cui l'Inghilterra teneva fede da quasi un secolo, fossero insieme la spiegazione di fronte agli uomini e la giustificazione di fronte a Dio della sua supremazia economica. Ancora nel 1923 scrivevo che il libero scambio era basato su verità fondamentali "le quali, debitamente formulate e precisate, non sono contestabili da nessuno che capisca il significato delle parole" [...]

Non è tanto facile sbarazzarsi delle abitudini mentali del mondo prebellico e ottocentesco. [...]

Eppure noi - molti di noi - non sono soddisfatti di queste idee in quanto teoria politica funzionante. Che cosa c'è che non va.

Cominciamo con la questione della pace. Oggi noi siamo pacifisti con così vigorosa convinzione che, se l'internazionalista economico riuscisse ad averla vinta su questo punto, in breve egli riotterrebbe la nostra adesione. Ma oggi non pare ovvio che il concentrare gli sforzi di una nazione nella conquista del commercio estero, che la penetrazione dell'economia di un paese da parte delle risorse e dell'influenza di capitalisti stranieri, e che una stretta dipendenza della nostra particolare vita economica dalle ondeggianti politiche economiche dei paesi stranieri, siano salvaguardie e garanzie di pace internazionale. Alla luce dell'esperienza e della prudenza, è più facile giungere alla conclusione opposta. La protezione degli interessi esteri di un paese, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell'imperialismo economico, non sono che elementi difficilmente evitabili di uno schema, che mira al massimo di specializzazione internazionale e alla massima diffusione geografica del capitale senza riguardo a dove risieda il suo proprietario. [...]

Di conseguenza, io simpatizzo piuttosto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni, che non con quelli che lo vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l'ospitalità, il viaggiare, - queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qualvolta ciò è ragionevolmente e praticamente possibile, e, soprattutto, che la finanza sia eminentemente nazionale. Al tempo stesso, però, coloro che cercano di liberare un paese dai suoi vincoli internazionali dovrebbero essere molto lenti e cauti. Non si tratta di strappare le radici, ma di abituare lentamente la pianta a crescere in un'altra direzione. [...]

Nel secolo XIX l'internazionalismo economico poteva sostenere, e probabilmente a buon diritto, che la sua politica tendeva ad aumentare la ricchezza del mondo, che essa promuoveva il progresso economico e che una politica diversa avrebbe gravemente impoverito così noi come i nostri vicini. Questo solleva un problema di equilibrio tra il vantaggio economico e quello non-economico, che è sempre difficile da risolvere. La povertà è un gran male; e il vantaggio economico è un bene reale, da non sacrificarsi ad altri beni reali, a meno che esso non sia chiaramente di un peso inferiore.

Ma io non sono convinto che i vantaggi economici della divisione internazionale del lavoro siano oggi in alcun modo paragonabili con quelli di un tempo. Non vorrei si attribuisse alla mia tesi una rigidità eccessiva. Un grado considerevole di specializzazione internazionale è necessario, in un mondo razionale, in tutti quei casi in cui è dettato da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e di densità di popolazione. Ma, per un numero crescente di prodotti industriali, e forse anche di prodotti agricoli, sono venuto a dubitare se la perdita economica conseguente all'autarchia nazionale sia così grande da pesare più degli altri vantaggi derivanti dal portare gradatamente il prodotto e il consumatore nell'ambito della medesima organizzazione nazionale, economica e finanziaria. L'esperienza sembra di più in più provare che la efficienza dei più moderni procedimenti di produzione in massa è quasi indipendente dal paese e dal clima. Si aggiunga che, col crescere della ricchezza, i prodotti, così primari come manifatturati, giocano nella economia nazionale una parte relativamente più piccola in confronto all'edilizia, alle prestazioni personali e ai servizi locali, che non sono oggetto di scambio internazionale; con il risultato che un aumento moderato nel costo reale dei prodotti primari e manifatturati, che sia conseguenza di un maggior grado di autarchia economica, può perdere di importanza quando lo si metta sulla bilancia contro vantaggi di un altro genere. L'autarchia economica nazionale, in breve, sebbene costi qualcosa, sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere se lo vogliamo.

Ci sono o no abbastanza buone ragioni, perché avvenga che lo si voglia?

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Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, - e non mantiene quel che ha promesso. In breve, non ci piace, e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa dobbiamo mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi.[...]

Permettete che vi dia un esempio, il più disadorno ch'io possa immaginare ma scelto perché è in relazione con certe idee di cui recentemente io stesso mi sono molto occupato. Per quel che riguarda i particolari dell'azione economica, a differenza dei controlli centrali, io sono favorevole a lasciarli quanto più è possibile al giudizio, all'iniziativa e allo spirito d'impresa privati. Ma mi sono dovuto convincere che la conservazione della struttura dell'impresa privata è incompatibile con quel grado di benessere materiale a cui ci dà diritto il nostro progresso tecnico, a meno che il saggio dell'interesse non cada ad un livello molto più basso di quello a cui lo porterebbero le forze naturali operanti secondo i vecchi schemi. Anzi, quella trasformazione della società che io mi prospetto più volentieri, può darsi richieda una riduzione del saggio d'interesse sino quasi a zero entro i prossimi trent'anni. Ma è estremamente improbabile che questo succeda in un sistema in cui il saggio dell'interesse, sotto l'azione di forze finanziarie normali, si adegua su un livello uniforme, tenuto conto del rischio e simili, nel mondo intero. Così, per un complesso di ragioni, che non posso analizzare in questo scritto, l'internazionalismo economici che comprende tanto il libero movimento dei capitali e dei fondi disponibili, quanto quello delle merci, può condannare il mio paese, per una intera generazione, a un grado di prosperità materiale molto inferiore a quello che potrebbe esser raggiunto con un altro sistema.

Ma questo è semplicemente un esempio. La mia affermazione centrale è che, per l'intera prossima generazione, non c'è nessuna prospettiva di uniformità nel sistema economico mondiale, di un'uniformità quale esisteva, grosso modo, durante il sec. XIX; che tutti noi dobbiamo essere il più liberi possibile da interferenze con mutamenti economici che si verifichino altrove, per poter fare i nostri esperimenti preferiti, in vista della ideale repubblica sociale del futuro; e che un deciso movimento per una maggiore autarchia nazionale ed un maggiore isolamento economico, se potrà compiersi ad un costo economico non eccessivo, renderà il nostro compito più facile.

***

C'è un'altra spiegazione, io credo, di questo nuovo orientamento delle nostre menti. Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari, quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva. Tutta la condotta della vita era stata ridotta a una specie di parodia dell'incubo di un contabile. Invece di usare le loro moltiplicate riserve materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, gli uomini dell'ottocento costruirono dei sobborghi di catapecchie; ed erano d'opinione che fosse giusto ed opportuno di costruire delle catapecchie perché le catapecchie, alla prova dell'iniziativa privata, "rendevano", mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che, per esprimerci nell'idioma imbecille della moda finanziaria, avrebbe "ipotecato il futuro", sebbene non si riesca a vedere, a meno che non si abbia la mente obnubilata da false analogie tratte da una inapplicabile contabilità, come la costruzione oggi di opere grandiose e magnifiche possa impoverire il futuro. Ancor oggi io spendo il mio tempo, - in parte vanamente, ma in parte anche, lo devo ammettere, con qualche successo, a convincere i miei compatrioti che la nazione nel suo insieme sarebbe senza dubbio più ricca se gli uomini e le macchine disoccupate fossero adoperate per costruire le case di cui si ha tanto bisogno, che non se essi sono mantenuti nell'ozio. Ma le menti di questa generazione sono così offuscate da calcoli sofisticati, che esse diffidano di conclusioni che dovrebbero essere ovvie, e questo ancora per la cieca fiducia che hanno in un sistema di contabilità finanziaria che mette in dubbio se un'operazione del genere "renderebbe". Noi dobbiamo restare poveri perché essere ricchi non " rende ". Noi dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire dei palazzi, ma perché non ce li possiamo "permettere".

La stessa norma, tratta da un calcolo finanziario suicida, regola ogni passo della vita. Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo. Londra è una delle città più ricche che ricordi la storia della civiltà, ma non si può "permettere" i massimi livelli di civiltà di cui sono capaci i suoi cittadini, perché non "rendono".

Se io oggi avessi il potere, mi metterei decisamente a dotare le nostre capitali di tutte le raffinatezze dell'arte e della civiltà, ognuna della più alta e perfetta qualità, di cui fossero individualmente capaci i cittadini, nella persuasione che potrei permettermi tutto quello che potessi creare, - e nella fiducia che il denaro così speso non solo sarebbe preferibile ad ogni sussidio di disoccupazione, ma renderebbe i sussidi di disoccupazione superflui. Con quello che abbiamo speso in Inghilterra, dalla guerra in poi, in sussidi di disoccupazione, avremmo potuto fare delle nostre città, i maggiori monumenti dell'opera dell'uomo.

O anche, per fare un altro esempio, sino a poco tempo fa, abbiamo considerato come un dovere morale di rovinare i lavoratori della terra e di distruggere le secolari tradizioni collegate all'agricoltura, solo che potessimo ottenere un filo di pane mezzo centesimo più a buon mercato. Non c'era più niente che non fosse nostro dovere di sacrificare a quest'idolo, Moloch e Mammone insieme; perché noi fiduciosamente credevamo che l'adorazione di questi mostri avrebbe vinto i mali della povertà e condotto la prossima generazione, sicuramente e comodamente, in sella agli interessi intrecciati, verso la pace economica.[...]

Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell'utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà. E noi dobbiamo farlo molto prudentemente, cautamente e coscientemente. Perché c'è un ampio campo dell'attività umana in cui sarà bene che conserviamo i consueti criteri pecuniari. È lo Stato, piuttosto che l'individuo, che bisogna cambi i suoi criteri. È la concezione del Ministro delle Finanze, come del Presidente di una specie di società anonima, che deve essere respinta. Ora, se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere di tanto allargati, le decisioni riguardo a ciò che, parlando grossolanamente, dovrà essere prodotto nel paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero, dovranno essere tra le più importanti della politica.

da: John Maynard Keynes, "National Self-Sufficiency," The Yale Review, Vol. 22, no. 4 (June 1933), pp. 755-769.
Traduzione Panarchy.org


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