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“Kurt Cobain: The Montage of Heck” e “Amy”, due docu-film che ci raccontano la vita dei due artisti, prima che la loro arte. Persone sconfitte non dal proprio talento ma dalle proprie fragilità

Creato il 09 ottobre 2015 da Giannig77

Uscirà a breve per il sito di Troublezine questo mio articolo, che vi propongo in anteprima sul mio blog

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Si sa, i film biografici, i cosiddetti biopic, hanno sempre destato curiosità nel pubblico, e quasi tutti i più grandi della Storia, parlo proprio a livello politico, culturale o storico sono stati ampiamente celebrati, alcuni anche in più occasioni. Ma quando si tratta di rievocare la vita di una persona del mondo dello spettacolo, attore o cantante che dir si voglia, si punta in prim’ordine al bacino d’utenza ampio che si immagina essere rappresentato dalla schiera di fans. Spesso i risultati sono stati quantomeno discutibili, se parliamo in materia di rock, pensiamo al controverso “The Doors” di Oliver Stone o al recente film sulla vita di un altro eroe degli anni ’60, Jimi Hendrix, immortalato dal regista John Ridley che ha chiamato il leader degli Outkast Andrè 3000 come protagonista. Non basta in effetti la somiglianza all’originale, se poi la storia viene banalizzata o raccontata a metà, tenendo conto di determinate fonti anziché altre.

Non mancano felici intuizioni, si pensi al fortunato “Ray”, sulla vita del grande bluesman ma troppo spesso i fans vengono delusi da queste operazioni, alle quali si accorre comunque in massa nelle sale, quasi per empatia.

Altro fenomeno rilevante, specie negli ultimi anni, è quello della proiezione di interi concerti o esibizioni live, atti a testimoniare eventi particolari, per fissarne il ricordo. Di queste operazioni hanno beneficiato sia artisti di casa nostra, come Ligabue, sorta di precursore con l’uscita in sala di un’edizione del suo celebre Campovolo, sia esteri come i Metallica, i Rolling Stone o, puntando sull’effetto giovanissime, i teen idol One Direction.

Quando anche questa formula cominciava a essere stantia, o priva di particolare interesse per l’utente medio, che non sia ossessionato fan, ecco che hanno iniziato a produrre altri tipi di filmati dedicati ad artisti, dei veri documentari, o meglio docu-film, vista la narrazione spesso a volentieri a mò di storia e non di mero dossier-inchiesta.

Casi eclatanti usciti in sala tra il 2014 e il 2015 quelli di Kurt Cobain e Amy Winehouse, due tra i più seguiti idoli di intere generazioni, entrati purtroppo nel famigerato Club 27, con cui si indica quel gruppo di artisti morti a quell’età, e quasi sempre accomunati da risvolti simili nella consumazione della loro tragedia. Kurt e Amy, quindi, icone morte tragicamente in epoca moderna, quando gli abissi esistenziali sembravano non dover più toccare così sovente l’animo di ragazzi che si ritrovano ad avere tutto dalla loro parte: fama, successo, ricchezza, bellezza, gloria. Ma anche tanta solitudine, angoscia, mestizia, inesorabile e inguaribile mal di vivere.

Pellicole nate per mostrare a tutti – non solo ai fans, anche se almeno nel caso del film su Kurt si potrebbe facilmente obiettare – alcuni lati ai più nascosti, intimi, controversi e molto estranei all’oggetto di clamore e amore, cioè la musica.

Prodotti avvallati da (o nati proprio per iniziativa di) persone molto vicine, strette agli artisti in questione. Nel caso del simbolo del grunge, fra i produttori esecutivi figura pure Frances Bean Cobain, la figlia ormai 23enne del leader dei Nirvana che, all’epoca della dipartita del padre da questo Mondo, non aveva ancora 2 anni e in pratica imparava letteralmente a muovere i primi passi, come si evince da filmati originali e assolutamente inediti. Per quanto riguarda la reginetta del soul r’n’b di inizio nuovo millennio, invece, è stato soprattutto il padre l’artefice di tanto materiale d’archivio, atto a rievocare la grandezza e la sfortunata parabola della figlia. Lo stesso che quasi parallelamente ha mandato alle stampe una biografia della stessa.

Insomma, nonostante qualche perplessità e facili accuse di voler speculare, dopo la visione mi viene difficile non sostenere che si tratti di due opere filologicamente oneste, sincere, e che intendono puntare i riflettori sulla vita… lontana da certi riflettori con i quali entrambi i nostri protagonisti hanno giocoforza dovuto convivere. Ciò che si vuole far emergere è piuttosto la “normale” complessità di due giovani baciati da immenso talento che si sono ritrovati a indossare panni troppo larghi, a gestire pressioni non adatte alle loro fragili personalità. Per voce di tante testimonianze esclusive “Kurt Cobain: Montage of Heck” diretto da Brett Morgen vuole riconsegnarci alla storia un Kurt umano, disagiato, che del tutto involontariamente si è ritrovato a dar voce e immagine a un’intera generazione che riuscivano a riconoscersi nei suoi testi angosciati, nelle sue parole urlate e sguaiate, a sfogare tramite la musica sentimenti di reclusione e rabbia, alienazione e paura del futuro, del rifiuto, di non essere all’altezza, di non essere amati e considerati. La storia è poi nota, con il leader dei poi strafamosi Nirvana, stretto tra mille tensioni e persosi vorticosamente nella droga e prima ancora nell’apatia, nell’indifferenza, non certo agevolato dalla presenza al suo fianco dell’altrettanto volubile moglie Courtney Love(ma che,al contrario suo, come ben era noto e risulta evidente da alcune riprese “casalinghe” era quantomeno narcisista, per usare un eufemismo). Interessante lo sviluppo cronologico e le tante parole da parte della madre, del padre, della sorella, dell’ex sodale Chris Novoselic, della ex compagna (chissà, forse rimasta con lei magari l’epilogo sarebbe stato diverso, ma molto probabilmente i Nirvana non sarebbero andati oltre Seattle) e ovviamente alla vedova Courtney Love, leader del gruppo Hole. A urtare la mia sensibilità, lo ammetto, sono state proprio quelle immagini per cui la maggior parte dei fans probabilmente aveva riposto grandi aspettative, vale a dire gli ultimi due anni della vita di Kurt, quelli che grossomodo ne hanno caratterizzato l’ascesa su scala planetaria e la rovinosa caduta. Ho trovato parecchio di cattivo gusto la scelta della produzione – e della famiglia in primis – di condividere aspetti così intimi della sua persona, specie nel periodo successivo alla nascita della figlia Frances. Assistere al declino inesorabile dell’uomo, sempre più preda delle sue dipendenze mi ha lasciato non solo l’amaro in bocca, ma proprio un senso di rabbia. Molto più illuminanti le parti relative alla fase infanzia-adolescenza e a quella dove il sogno della musica come riscatto ha cominciato a farsi largo tra le pieghe della sua anima tormentata. In ogni caso il regista  – a cui bisogna dare merito di aver creato un collage perfetto di immagini vere, ricostruzioni animate, interviste, tracce audio inedite e brani tratti da diari – c’ha consegnato un ritratto che più autentico non si può, evitando assolutamente di mitizzare l’artista, per concentrarsi soprattutto sul suo percorso umano.

Stessa ideologia di fondo dell’altro docu-film, uscito nel mese di settembre,in questo caso a pochi anni (4) dalla morte di Amy Winehouse. Eppure, anche se storicamente appunto il lasso di tempo era molto esiguo rispetto al ventennio dalla scomparsa di Kurt, mi rendo conto quanto anche la triste vicenda della nuova Billie Holiday abbia segnato profondamente la vita di tanti appassionati musicali. Io letteralmente piansi quando appresi la notizia dai tg ma a posteriori vien tristemente da pensare quanto la sua fine fosse inevitabilmente già scritta.

Altri demoni, altre dipendenze – nel suo caso a quanto pare, anche dal suo tormentato marito e mentore – ma stesso mal di vivere, stessa incapacità di far fronte con le proprie forze a tanto dolore. E stessa fine, in piena solitudine, nonostante il mondo fuori fatto di milioni e milioni di persone che si ritrovavano a sognare ascoltando le loro voci.


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