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L'abito fa l'ex

Creato il 28 settembre 2010 da Lindaluna

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foto:web

Uno dei tanti motivi per cui prima o poi qualcuno farà saltare in aria Facebook sono le vecchie foto di classe perfidamente scansionate e pubblicate con tanto di nome e cognome che aleggia sull’alunno.
Passi che mi si pubblica con il rigagnolo di ragù sul mento, con la pancia che fugge dalla maglietta, con gli occhi bianchi da posseduta, passi pure quella foto in cui unendo i puntini sulla mia faccia comparirà una sega elettrica, ma il primo che si permette di pubblicare quella foto di classe del liceo in cui ho la frangetta cotonata, io lo denuncio.
Anche se infondo in quella foto c’è una cosa ancor più sconcertante della mia frangetta: l’abbigliamento dei ragazzi.
Ai miei tempi c’erano essenzialmente due scuole di pensiero: “io sono un paninaro e “se la vede mia mamma”.
La prima produceva pupazzi con felpette bombate, jeans a metà polpaccio e calzettoni a rombi. Per fortuna la specie si è estinta in un paio di stagioni.
L’altra corrente invece fabbricava mostri di varia natura: “figlio di madre che si crede furba e acquista capi taroccati” (nella foto il poveraccio indossa una cintura dalla fibbia grossa come un vassoio con su scritto “El Ciato” e una felpa slabbrata della “Cess Company”)
Immancabile il “figlio di madre attempata” magari anche vedova: camicia di flanella a quadretti, golfino a trecce grigio e pantalone marrone di velluto a coste, pure a maggio.
Più raro ma esistente il “figlio di madre politicamente schierata”: tuta da metalmeccanico e borsa verde militare a tracolla.
La categoria più simpatica era “figlio di madre che dice al figlio di arrangiarsi”.
Da loro ti potevi aspettare di tutto. Uno di questi un giorno venne a scuola con una casacca da karate. Alla professoressa sconcertata spiegò che era l’unica cosa pulita trovata nell’armadio.
La differenza principale con i ragazzi di adesso era l’esiguità del guardaroba. I miei compagni di classe avevano due cambiate per l’inverno e due per l’estate. Stop. Quando c’era ginnastica mettevano la tuta blu con le strisce bianche di lato. Stop. Alle feste indossavano una camicia. Sempre la stessa. Stop.
Noi ragazze eravamo molto sensibili alla natura delle due cambiate. Se nessuna delle due ci garbava eravamo capaci di ignorarli fino al cambio di stagione. E se la mamma toppava ancora, se ne parlava a settembre.
Questa attenzione per l’abbigliamento maschile non finì con la scuola. Anzi. Non sono mai stata una “fashion victim”. E come me gran parte delle mie amiche. Non eravamo alla ricerca del griffato. Ma c’erano degli scivoloni imperdonabili. Qualche esempio:
- Tris infame (jeans, camicia di jeans e giubbino di jeans indossati contemporaneamente)
- Maglione a pelo (indossato senza niente sotto).
- Polo ficcata nei pantaloni senza cintura.
- T-shirt una taglia in meno. (Si accettavano eccezioni per pallanuotisti).
- Calzino di spugna bianca con scarpa classica.
- Calzino di filo nero con scarpa da ginnastica.
- Camicia dell’impiccato (abbottonata fino all’ultimo bottone)
- Abbinamento luciferino (“di rosa e celeste solo il diavolo si veste”)
- Abbinamento levasaluto (nero e blu)
- Abbinamento Picasso (scacchi e fiori, righe e rombi, pois e losanghe)
Per la giacca la regola era semplice: se il colore faceva pensare ad un frutto…era out.
Niente rosso fragola, niente rosa pesca, niente giallo banana o limone, niente verde mela, niente viola prugna.
Poi certo, dipendeva molto dalla persona. L’originalità era ben accetta, ma con le dovute cautele.
Una mia amica lasciò il suo neofidanzato molto figo dopo soli quattro giorni quando anche il quarto lui si presentò con una maglietta recante l’iscrizione “Woytila il Papa del Duemila”.
Embè. Il primo giorno sei originale, il secondo giorno sei simpatico, il terzo giorno sei devoto, il quarto giorno sei zozzo.
Più in là negli anni decisi che era ora di smetterla con queste fissazioni perché l’abito non fa il monaco. Mi sbagliavo. L’abito fa il monaco, e pure l’ex.
Al primo appuntamento uno dei miei ex mi invitò su a casa sua per ammirare il suo guardaroba.
Una strana variante della collezione di farfalle, pensai.
“È un pezzo d’antiquariato? Guarda, io non è che ne capisca…”
“Non parlavo dell’armadio, mi riferivo ai miei vestiti.”
Mai sentita una scusa più strana. Infatti non era una scusa.
Quante volte mi sarei chiesta perchè non lo piantai nel corso di quella agghiacciante sfilata!
Bah. Sarà stata la naftalina ad occludermi i connettori cerebrali.
L’ex-emplare pensò bene di iniziare con le giacche. Altro che regola della frutta. Pareva un mercatino rionale. Ne tirò fuori una rosso anguria che fu proprio come ricevere una cocomerata in faccia. La più sobria era perfetta per la Muccassassina.
“Aspetta qui, il prossimo me lo devi vedere addosso. Vado a cambiarmi.”
Ricomparve in un gessato nero a righini rossi che mi fece lacrimare.
“Non è che per caso c’erano abbinati anche gli occhialini in 3D per chi ti sta di fronte?”
Non capì, era troppo eccitato all’idea dell’esibizione delle cravatte. Pensavo scherzasse quando tirò fuori tutta la linea Disney.
E invece disse serissimo: “Ecco vedi, questa rossa con i dalmata io l’abbino sempre a questo gessato”. Mi assalì la visione dei cagnolini in fuga di massa dalla cravatta.
Continuava a nominare stilisti famosi, Valentino, Fendi, Ferrè, Ferragamo. E io non potevo credere ai miei occhi. In quell’armadio c’erano tutti gli sfondoni dei colossi della moda.
Poi venne la volta delle camicie: ne ricordo una nera con zampata di tigrato in diagonale.
“Roberto Cavalli” sottolineò fiero.
Signor Cavalli, io l’ammiro, ma l’animalier da uomo non fa troppo paleolitico?
Infine tirò fuori il pezzo cult: un lungo cappotto azzurro.
“Oh. Bene. Quest’inverno mi toccherà passeggiare con Mago Merlino.”
Questa la capì e la prese malissimo.
Per riabilitarsi tirò fuori il suo ultimo acquisto: un soprabito firmato da quel maniaco delle carte geografiche. Sembrava il mappamondo gigante del Louvre.
Signor Alviero Martini, lei dopo una certa taglia, dovrebbe impedire la produzione.
Quando pensavo fosse finita, lui con gli occhi luccicanti annunciò il gran botto:
“E questo è il mio preferito, ma lo metto solo in certe occasioni”. Era un completo camicia e pantalone in seta lavata viola. I bottoni della camicia partivano all’altezza dello stomaco.
“Ah. E… in quali occasioni te lo metti questo?”
Meglio saperlo prima.
“Solo per i concerti di Renato Zero.”
“Ma non mi dire. Sei un sorcino…”
“Caspita, non me ne perdo uno.”
Renato ti prego, hai un’età, è ora di smettere. Poi i giornali scrivono “avvistata melanzana gigante al concerto di Renato Zero” e tu ci resti male.
“Vuoi vedere come mi sta?”
“NO! No…pare delicato, finisce che si rovina.”
Quando ci lasciammo, lui mi chiese se volevo uno dei suoi capi per ricordo. Io chiesi il completo da sorcione. Volevo liberare il mondo da quella calamità. Ma lui non volle.
“Quello no, mi dispiace. Però ti darei volentieri la cravatta con Crudelia Demon”.
Concludo con il caso più sconcertante. Uno dei miei ex a trent’anni non aveva ancora deciso se essere un bambino di Satana o un figlio di mammà.
Una volta lo vidi arrivare con i pantaloni in pelle nera e mi dissi “Finalmente ha deciso.”
Poi si piegò e gli vidi spuntare le mutande dei Teletubbies dalla cintura.
“No. Non ancora”.
Quando avvistai una maglietta della salute sotto la t-shirt di Marylin Manson, accusai un malore.
Ad una festa indossò una camicia nera molto trendy, un jeans attillato un po’ sdrucito, molto cool. E ai piedi un paio di Kickers. Sì, lo so. Anche io pensavo che oltre il 35 non le facessero.
“Mia madre dice che il piede deve stare comodo.”
Certo, soprattutto quando si muovono i primi passi.
In inverno portava un soprabito nero molto “cattivo”. Ma se si alzava il vento tirava fuori dalla tasca un cappello di lana scozzese, di quelli con la visiera ed i paraorecchie.
"Da piccolo ho avuto una brutta otite e non voglio rischiare".
Ho capito ma così rischia chi ti sta vicino!
Non saprei dire cosa sembrasse. Non lo so, un vecchio giocatore di baseball scappato da un manicomio criminale, il primo della classe in preda ad un raptus omicida, un allevatore di camosci trapiantato a Manhattan…non lo so. Comunque era un ibrido spaventoso.
Appena lo vedevo infilarsi il berretto in testa, dentro di me sentivo una vocina che mi suggeriva:
“Fuggi!”
Quando ci lasciammo, ad un bel momento le cose si misero sul difficile.
“Sette giorni, ti prego, solo sette giorni ti chiedo!”
“Ma…a che pro?”
“In sette giorni possono succedere tante cose!”
“Mah…non credo…”
“Certo che sì! Dio in sette giorni ha creato il mondo intero!”
“Non è che siete proprio la stessa cosa…”
“Non scherzare, dico sul serio. Ti chiedo una sola settimana della tua vita! Ti supplico. Oggi è…aspetta oggi è…”
Sollevò un po’ la gamba dei jeans, lesse qualcosa sul bordo del calzino di Dragon Ball e concluse:
“Giovedì. Oggi è giovedì!”
“Ma…?!”
“C’è scritto qui. Mia madre me ne ha comprato sette paia. Uno per ogni giorno della settimana. Li trovo comodissimi perché mi sfugge sempre che giorno della settimana è.”
Oddio…
“Dicevo, in questi sette giorni tu vedrai il meglio di me. Dammi questa possibilità, per favore. Ti farò vedere che alla fine di questa settimana tu mi amerai di nuovo.”
Sì vabbè, la sfida all’ultimo calzino.
Colta dalla stanchezza stavo quasi per prendere in considerazione la richiesta.
Ma all’improvviso, freddo e pungente si alzò il vento. E la decisione fu presa.
Il cappellaio matto si mise ad urlare:
“Hei! Dove vai? E la nostra ultima settimana insieme? Ti prego! Quando ti rivedròòòòòòò?”
“Non lo soooooo. Vedi un po’ cosa dice Dragonboooooooooooooool"


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