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L’aborto che non fa male

Da Femminileplurale

La narrazione mancante

«Se la madre si rifiuta […] la natura si vendicherà, punendola nella carne».

Elizabeth Badinter, L’amore in più

***

Lalli, A. La verità vi prego sull'aborto
Da un lato, l’aborto è circondato dal silenzio. È un argomento scottante, e si preferisce non parlarne. Ma, se ne si parla, allora viene gridato come una “vergogna”, un “male”, un “trauma” inevitabile e inestinguibile. Tanto più i toni si scaldano nella scena pubblica, tanto più essi si abbassano sulla vita delle donne che sono davvero passate attraverso questa esperienza. Tanto più si urla “Assassine!” e tanto più diventa impossibile parlare di una scelta che potrebbe anche essere stata serena.

Chiara Lalli nel suo libro A. La verità vi prego sull’aborto (Fandango, 2013) mette a tema questa narrazione amputata.

«Vorrei raccontare questo segmento mancante, alcune storie di donne che hanno scelto di abortire e che non hanno avuto ripensamenti. Voglio esplorare una possibilità teorica: che si possa scegliere di abortire, che lo si possa fare perché non si vuole un figlio o non se ne vuole un altro, che si possa decidere senza covare conflitti e sensi di colpa».

Dell’aborto viene raccontato esclusivamente la paura, il ricatto, il dolore. Ma vengono sistematicamente taciute le storie delle donne che dopo aver abortito sono serene e consapevoli di aver fatto la scelta giusta. Se provate difficoltà nell’immaginare che una donna dopo aver abortito possa stare bene, chiedetevi se non avete assimilato dentro di voi un modello culturale e politico: quello che assegna alle donne la naturale tendenza a proteggere “la vita”. E dunque alle donne che hanno abortito un marchio incancellabile di dolore e di vergogna, che assomiglia a una punizione. È invece possibile abortire e stare bene, se si è consapevoli che è stata la cosa giusta da fare in quel momento.

Ma queste storie sono omesse a tal punto che una donna che dovesse provare questa sensazione di benessere dopo aver abortito, sarà scoraggiata dal credere a sé stessa. “Ho qualcosa che non va? Se non soffro deve esserci qualcosa che non va…” Così il dolore diventa facilmente indotto, una sorta di redenzione necessaria a riscattare il male compiuto.

Con questo Chiara Lalli non nega che per alcune donne abortire sia stato doloroso. Ma nemmeno, sostiene, si deve negare che per altre possa essere stata una scelta consapevole e benefica. L’aborto non è un dominio compatto, c’è spazio per chi l’ha vissuto negativamente ma ci deve essere lo spazio anche per chi l’ha vissuto convintamente, e senza rimpianti. La gravidanza è innanzitutto un mero fatto biologico: portarla avanti non è necessariamente positivo, così come interromperla non è necessariamente negativo.

Invece il racconto ufficiale dell’aborto è quello di un dolore eterno e inevitabile. Viceversa, la maternità è una benedizione mistica e una vocazione naturale. Entrambi questi racconti scaturiscono dallo stesso simbolico, e cioè che le donne abbiano il loro destino biologico nella maternità, e che essa rappresenti per loro l’unico desiderio autentico. Se così non è, allora c’è qualcosa di contro natura, non si è vere donne, dato che quelle che sono donne sul serio non vogliono altro che essere madri. Chiara Lalli ricostruisce questo stigma anche nelle informazioni sanitarie legate all’aborto: negli Usa gli attivisti nochoice diffondo tra le donne che fanno richiesta di aborto informazioni fuorvianti, come il fatto che abortire aumenterebbe i rischi di cancro al seno, di infertilità e il rischio di suicidio. Tutti dati statisticamente falsi – e altamente simbolici.

«Se il dolore dell’aborto è esasperato, la paura del dolore del parto, la depressione post-partum o l’ambivalenza nei confronti di un figlio sono taciuti, nascosti dietro a una retorica della maternità concentrata unicamente sul miracolo della riproduzione».

Se questa è la tesi principale, vorrei segnalare brevemente almeno altre tre cose interessanti nel libro:

1. Si apre con una testimonianza raccontata in prima persona. Una donna va in ospedale perché vuole abortire. La sua voce ci descrive la visita, l’atteggiamento del dottore, l’aspetto del reparto, e le proprie sensazioni. È una efficace sezione narrativa inserita in un libro di saggistica. La stessa tecnica viene usata altrove nel libro. Questo ci suggerisce che l’analisi è necessaria, ma anche che il raccontare non deve essere sottovalutato, perché a un’immediatezza emotiva imparagonabile e preziosa.

2. Nel libro di Chiara Lalli le reazioni emotive degli uomini rispetto all’aborto trovano cittadinanza. Con questo l’autrice non sdogana la loro partecipazione alla decisione, che non può che rimanere della donna soltanto: l’aborto ha una asimmetria originaria che non può essere riequilibrata senza una intollerabile violenza. Ma ciononostante nel libro il dolore degli uomini è messo in evidenza. Ammetto come per me la lettura di questo passaggio sia stata faticosa, e che ho ripreso fiato solo vedendo come, nel seguito del libro, sia stato più facile evidenziare i modi in cui questo “dolore maschile” viene strumentalizzato per fini politici.

3. Ma la lettura più faticosa è stata quella della parte che la Lalli dedica al cimitero dei feti (noi ne avevamo parlato a suo tempo qui). Al contrario di quello che si potrebbe immaginare, l’autrice non è contro l’iniziativa. Innanzitutto le sono grata per avere fatto chiarezza sul punto giuridico che in molti, anche giornalisti professionisti, avevano mancato: è dal 1990 che è possibile seppellire non solo i nati morti ma, facendo richiesta, anche i “prodotti abortivi” di età presunta inferiore alle 20 settimane (cfr. DPR n. 285 del 10 settembre 1990, art. 7). Ma soprattutto la sua lettura scaturisce da una delle tesi fondamentali del suo libro, e cioè che l’insieme degli aborti non sia compatto, ma che invece preveda numerose differenze di storie e di vita. Pur ponendo in luce la strumentalizzazione politica, Chiara Lalli difende il diritto delle donne che lo desiderino di seppellire o fare il funerale all’embrione o al feto, senza che questo debba risvegliare il “dolore” delle donne che hanno abortito volontariamente.

Dolore che, appunto, potrebbe non essere risvegliato: semplicemente perché non c’è mai stato.


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