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L’addio alla Bosnia nelle parole di un giovane profugo di Brčko. I ricordi senza tempo di una guerra ingrata

Creato il 28 luglio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Chi è Dino Jasarevic? Perché proprio lui?

Dino Jasarevic è oggi un fotografo di successo. Ha pubblicato ed esposto più volte, riscuotendo i dovuti riconoscimenti. Ama raccontare la vita e le culture attraverso le immagini, perché dice: "Le immagini raccontato spesso più di mille parole". Una saggezza scaturita negli anni, figlia di un'esistenza che l'ha portato a conoscere numerosi Paesi in cerca di salvezza. Il suo futuro oggi è qui a Torino, nella città della Mole, lontano dalle brutte storie dei Balcani. Ha accettato di rilasciarci la sua testimonianza di profugo di guerra, per dimostrare una volta ancora la brutalità del massacro in Bosnia fra il '92 e il '95. Come lui stesso desidera ripetere: "Bisogna raccontare l'amaro della guerra, perché la guerra non capiti più".
Dino Jasarevic è nato a Brčko nel 1983, una cittadina di poco più di 43mila abitanti allungata sul fiume Sava. Una Bosnia che diviene passato per lui nel '92, quand'è costretto ad abbandonarla per scampare alla morte. Le sue parole ci permetteranno oggi di conoscere da vicino le emozioni e la vita di chi vestì l'abito del profugo di guerra, e fu così costretto a lasciarsi tutto alle spalle in cerca di un nuovo capitolo di vita.

Quali sono i tuoi ultimi ricordi, Dino, prima di abbandonare Brčko?

Ricordo come se fosse ieri il palazzo dove abitavo. Era vicino al fiume Sava, che fa da confine naturale tra la Bosnia e la Croazia. Avevo nove anni quando sono fuggito insieme a mia madre e mio fratello. Mio padre era rimasto in città, perché ancora nessuno voleva credere all'inizio di una guerra. Quando siamo scappati di casa per andare in Croazia, i miei genitori ci dissero che saremmo partiti per un lungo viaggio. Un viaggio diverso dagli altri, da quelli soliti. Una settimana dopo la nostra fuga, sono scoppiate le prime bombe sul fiume vicino a Brčko. Le bombe, ci raccontò poi mio padre, isolarono la città. Lui stesso rischiò la vita, anche se era un uomo importante fra i cittadini di Brčko. Chi voleva credere alla pulizia etnica? Era qualcosa di troppo brutto ed infame per essere vero. Ricordo che vicino a casa i serbi cetnici avevano trasformato il porto commerciale in campo di concentramento, deportando i bosniaci musulmani. Era laggiù che finivano uccisi e gettati nel fiume senza gli organi interni, così da non galleggiare ed esser visti da troppi occhi indiscreti.

E di tuo padre? Hai raccontato poco di lui.

Mio padre ha cercato più volte di fuggire da Brčko. Alla fine ce l'ha fatto grazie all'aiuto di un soldato serbo che comandava un distaccamento. Mi raccontava che una sera questo soldato è venuto a casa nostra, quando io ero già sfollato. Gli ha detto di prepararsi ché la mattina dopo sarebbe tornato con documenti falsi. Al momento di fuggire mio padre ha portato con sé gli album fotografici. Non poteva lasciarsi indietro la storia della nostra famiglia.

Quali sono le immagini - famigliari e quotidiane - che riportano la tua memoria a quella guerra?

Ricordo che per diverso tempo abbiamo continuato a scappare per difenderci dalle bombe e dalle schegge delle granate. In quel periodo viaggiavamo su una Yugo, una macchina jugoslava che era divenuta simbolo del grande impero balcanico. Ricordo ancora che - durante la fuga - spesso imbracciavamo le armi per gioco, ma non sparai mai nemmeno una volta. Poi c'erano le sirene che suonavano di continuo, e allora si fuggiva nei rifugi sotterranei o nelle cantine.

Milosevic, Karadžić e Mladić sono nomi che ti ricordano qualcosa? Hanno fatto parte di te in quel periodo di Bosnia? Oppure son nomi di un qualsiasi libro di storia?

Per me sono soltanto i nomi di mostri "brutti e cattivi", come sentivo spesso ripetere. Ero troppo piccolo per ricondurli ai libri di storia o alle cronache. Ho tuttavia impressa nella mente l'immagine del comandante Arkan che reggeva in mano un cucciolo di tigre. Era un'immagine che si incontrava spesso e testimoniava la brutalità di quella guerra. Almeno è il significato che oggi le attribuisco.

Hai appena lasciato Brčko. Sai che devi scappare. C'è la guerra. Racconta la tua esperienza di profugo in quegli anni di violenza. Dove ti sei riparato? Quali città hai raggiunto nel corso della fuga? I ricordi più accesi e nitidi di quel momento.

Sicuramente i miei primi ricordi riguardano le case degli amici di famiglia che abitavano in Croazia. Lassù - almeno al momento - la situazione sembrava più tranquilla. Alcuni erano colleghi di lavoro di mia madre, altri erano compagni di squadra di mio padre. A quel tempo era un noto giocatore di pallamano. A casa di questa gente restavamo sempre pochi giorni. Mia madre non voleva che fossimo di peso. Così si tornava in macchina e si viaggiava verso l'ignoto. Una volta siamo stati ospitati da una famiglia che abbiamo incontrato a una pompa di benzina. Presso questi signori siamo rimasti una settimana, poi di nuovo via in cerca di un porto sicuro. Due volte siamo finiti in un campo profughi. Per me e mio fratello vivere nel campo era come stare in campeggio, faceva parte di quel viaggio bizzarro iniziato tempo prima a Brčko. Era una sosta fra gente che non conoscevamo.

L'arrivo in Italia - se è l'Italia il primo Paese dove hai successivamente trapiantato le radici. Le emozioni. I rimpianti. I sogni.

No, non è l'Italia il primo Paese dove ho vissuto. Prima - come già raccontavo - siamo stati in Croazia. Poi è venuta la Serbia. Qui siamo stati ospiti di una famiglia musulmana, ed è qui che abbiamo riabbracciato nostro padre. Eravamo a Novi Sad, nella città dove abitava il nonno paterno. Il nostro viaggio è poi proseguito in Slovenia, e precisamente a Celje da amici di mio padre. Soltanto più tardi abbiamo passato la frontiera italiana e siamo andati a Vicenza. Per ciò che riguarda i rimpianti, non posso dire di averne. Per noi che fuggivamo dalla guerra, l'Italia era il paradiso, la terra di Toto Cutugno e la Carrà, e poi era sempre vicino a casa. Potevamo finire in America, ma allora saremmo stati dall'altra parte del mondo. Per le emozioni, invece, posso ricordare le emozioni del viaggio. Per il resto nulla. Di sogni - durante la fuga - ricordo che ne avevamo uno in particolare: trovare un posto sicuro dove vivere senza scappare di continuo dalla guerra. E poi io e mio fratello volevamo giocare. La guerra e la fuga ce lo impedivano ormai da parecchio. Era stato come cambiare di colpo l'esistenza di sempre.

Ti manca Brčko, la tua città natale? Ti manca la tua casa in Bosnia? Quelle strade che forse oggi non ci sono neanche più?

Non mi manca nulla di quel periodo. Ero troppo piccolo per dire di aver contribuito a costruire quel luogo. Non ho usato le mie mani per tirar su quelle case di pietra e mattoni, e dunque Brčko non la sento mia, non è più parte di me. È il mio passato. La cicatrice indelebile della Guerra di Bosnia.

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