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L’Albania (e gli albanesi) verso l’Europa

Creato il 16 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’Albania (e gli albanesi) verso l’Europa

Sono passati vent’anni dall’inizio delle massicce migrazioni di albanesi in Italia e poi nel resto d’Europa. Oggigiorno si discute in seno alla Comunità Europea dell’adesione dell’Albania all’Europa e l’ultima discussione in veste ufficiale risale al 14 dicembre. A pochi mesi dalle elezioni del futuro parlamento albanese, queste sono già considerate un test di democrazia per il paese. Se la campagna elettorale sarà libera e corretta, così come le successive elezioni, sarà il banco di prova adatto a verificare quanto la democrazia albanese sia realmente maturata nel corso di questi vent’anni. E’ utile in questo momento ricordarsi cosa l’Europa abbia significato per i cittadini albanesi e i mezzi, talvolta disperati e illegali, che sono stati da loro usati per raggiungerla.

Albania 1991-1998

Il regime comunista aveva ridotto l’Albania al collasso nel 1991. La caduta del regime portò alla luce l’arretratezza economica in cui il paese giaceva. L’Albania si ritrovò isolata dal resto dell’Europa, tanto vicina ma che per tanto a lungo il regime aveva disprezzato. L’Europa però restava lo stesso tanto vicina da spingere molti Albanesi ad emigrare superando i sessantotto chilometri che li separavano da una nazione che si mostrava molto più ricca della loro, quale l’Italia.

Si è sempre detto che la televisione italiana abbia indirettamente contribuito all’immigrazione trasmettendo immagini di un paese allegro e prosperoso. Va forse ricordato, d’altro canto, come nella cinematografia albanese gli italiani fossero sempre rappresentati come inetti e stupidi, dei soldati un po’ imbecilli che se durante uno scontro a fuoco fossero stati distratti da una radio accesa, si sarebbero messi a ballare la tarantella piuttosto che combattere, venendo facilmente uccisi dagli Albanesi. Un misto di propaganda del regime comunista e rancori risalenti al regime fascista.

Durante gli anni del Comunismo, il regime aveva trasmesso un’immagine negativa dell’emigrazione nel resto del continente così come del continente stesso, “frutto del capitalismo”. Come in altri contesti, le frontiere erano state chiuse ed era stato impedito ogni tentativo di lasciare il paese. Non fu neanche possibile aprire delle ambasciate a Tirana. Fu solo dall’aprile 1990 che il governo iniziò a concedere il diritto di passaporto per recarsi a lavorare all’estero. Le richieste furono numerosissime. Il 2 luglio 1990 alcune ambasciate furono letteralmente invase dai cittadini albanesi che pretendevano asilo politico. Nata dalla difficile situazione economica, una prima ondata migratoria prese luogo dall’Albania all’Italia nel 1991.

Nel 1992, il prodotto interno lordo crollò di oltre il 50%. Si vennero a formare delle imprese finanziarie che funzionavano come banche e promettevano interessi molto più alti del solito. Furono in molti a riversarci i propri risparmi. Il governo dava la sua parola sulla solvibilità di queste imprese. Il Fondo Monetario Internazionale stesso, nonostante le denunce dei propri esperti, sembrava tollerare le finanziarie. Solo nel settembre del 1996 il Fondo chiese al governo di dissociarsi dalle finanziarie, di metterle sotto inchiesta e di vietarne la proliferazione.

Nel gennaio del 1997 la maggior parte di queste imprese fallì. Un terzo di tutte le famiglie albanesi perse i propri risparmi. Scoppiarono i disordini e le proteste contro il governo. Il governo non ne assunse la responsabilità, visto che era tutta opera di investitori privati. La polizia tentò con molta forza di reprimere le rivolte che sconvolsero i mesi di gennaio e di febbraio. I primi di marzo, i manifestanti riuscirono a mettere le mani su depositi di armi e passarono all’attacco degli edifici governativi e delle stazioni della polizia. Quest’ultima era ormai ridotta in minoranza. Il presidente della repubblica, Sali Berisha, dichiarò lo stato di emergenza.

I manifestanti non incontrarono una effettiva resistenza dacché la popolazione li appoggiava. Riuscirono a conquistare diverse città dell’Albania meridionale e infine Tirana. La maggior parte dello Stato si ritrovò conquistato dai ribelli e in piena anarchia, e intanto diverse bande armate stavano facendosi strada. Se tutto ciò non fosse stato sufficiente, diversi gruppi di trafficanti illegali avviarono tra di loro una lotta che rapidamente diventò una piccola guerriglia che colpiva anche i civili. Tutti i depositi di armi erano stati conquistati e le armi si trovavano con tanta facilità che si dice che ogni cittadino ne avesse almeno una, per difendersi. Il governo albanese chiese aiuto all’ONU affinché inviasse 7.000 soldati (italiani) per ristabilire l’ordine.

Verso fine anno l’ordine fu ristabilito, si tennero elezioni democratiche, il governo perse il potere e al suo posto vinse il Partito Socialista d’Albania, con una grande maggioranza. Nel novembre del 1998, fu proclamata una nuova costituzione. Circa 3.000.000 di armi da combattimento finirono vendute in altri paesi europei. Molte finirono in Kosovo.

L’immigrazione in Italia

Circa un quarto della popolazione albanese è emigrata. La prima migrazione si è verificata nel 1991: due ondate, una a marzo e una ad agosto. Alla vigilia delle prime elezioni libere dopo la caduta del regime, nel marzo del 1991, il popolo albanese preferì fuggire dal proprio paese disperando di poterlo ricostruire. Erano spaventati dalla diffusa povertà, dalla disoccupazione crescente e in sostanza dalla mancanza di prospettive per il futuro. “Noi non eravamo molto diversi dai giovani italiani di allora. In fondo ci sentivamo anche noi occidentali o, almeno, avremmo voluto esserlo. Ma eravamo maledettamente più disgraziati di loro” dichiarò uno dei protagonisti. Vivevo nel Salento in quegli anni e l’Albania era ed è tanto vicina da poterne scorgere le montagne dalla costa pugliese. I cittadini albanesi lasciavano il loro paese, senza i documenti e i permessi, e arrivavano in Italia a migliaia grazie ad imbarcazioni di fortuna come mercantili e pescherecci, zattere e gommoni. Le imbarcazioni partivano da Durazzo, Valona e Santi Quaranta per poi spesso ritrovarsi con i motori in panne a lanciare SOS.

La seconda ondata migratoria si è verificata sei anni dopo, con il fallimento delle società finanziarie che comportò la guerra civile. Va sottolineato come il motivo principale dell’emigrazione in questo frangente non fosse di natura prettamente economica: la popolazione emigrava principalmente per il panico scatenato nei centri abitati dalla rivolta. Vi fu una terza ondata migratoria: approfittando della situazione in Kosovo, attraverso di esso, molti cittadini albanesi raggiunsero ugualmente l’Italia chiedendo asilo, fingendosi cioè kosovari. Si tratta questa di un’ondata migratoria quasi trascurata dalle autorità che portò in Italia altri centomila albanesi. L’esodo del 1998-1999 non assunse comunque le dimensioni delle prime due ondate.

Secondo il governo italiano, la causa di queste migrazioni è una motivazione più difficile da scorgere di quanto si pensi. C’erano di sicuro le ripercussioni del collasso economico a spingere gli albanesi a migrare, così come la guerra e il caos che ne erano conseguiti. C’era però anche altro. A sospingere la migrazione vi sarebbe stata la volontà dello stesso governo albanese, il quale avrebbe usato la migrazione per fare delle pressioni alle economie occidentali per ottenere degli aiuti economici. Il governo albanese avrebbe in altre parole ricattato l’Italia e i migranti sarebbero stati inconsapevoli suoi strumenti. I militari albanesi sembra avessero infatti ricevuto l’ordine di lasciar partire chiunque, il che sembra ampliamente appurato. Ci sarebbe da interrogarsi su quali altre nazioni possano avere messo in pratica un meccanismo simile in anni recenti.

Come avveniva la migrazione?

Grazie ad una singola imbarcazione di fortuna, chi la gestiva poteva guadagnare nel mercato dei clandestini tanto da farci mangiare “cento persone, non solo chi guida”, come si era soliti dire. Ci guadagnava chi forniva il carburante, chi recuperava le persone che sarebbero dovute partire, chi prendeva mazzette per i permessi. Senza considerare il guadagno delle famiglie rimaste in Albania che avrebbero ricevuto poi dall’emigrato una parte dei suoi guadagni: ogni famiglia aveva almeno un parente che lavorava in Italia. “Uno scafista fa quaranta milioni in una notte. Tutti conoscono i loro nomi e i punti da cui partono. Ma a chi conviene parlare?” hanno affermato alcuni albanesi in quel periodo. Non c’erano standard da rispettare nell’organizzazione: il proprietario di una imbarcazione gestiva la sua attività come voleva.

Dei privati cittadini di varie città si organizzavano con furgoncini o taxi e portavano la gente agli scafisti. Un gommone o uno scafo aveva due (o tre) proprietari, gli stessi che lo pilotavano. Partivano anche due volte al giorno, senza orari. A volte si preferiva partire con il brutto tempo perché la Guardia di Finanza italiana effettuava meno controlli. I primi gommoni venivano acquistati all’estero (spesso dall’Italia). Successivamente furono prodotti nelle stesse città da dove si partiva ma spesso risultavano di cattiva qualità. Durante un viaggio erano sempre presenti entrambi i proprietari: uno per accompagnare i migranti e l’altro per tornare indietro. Chi restava con i migranti li accompagnava per un tratto indicando poi loro altri mezzi di trasporto o collaboratori italiani per far perdere le tracce. Nel 1997, ormai, era diventata prassi il comprarsi una imbarcazione sperando in qualche guadagno, improvvisandosi scafisti. Se nel 1991 erano singoli cittadini a costruire delle zattere o poco più per attraversare l’Adriatico, nel 1992, progressivamente, si era arrivati a delle complesse organizzazioni del traffico clandestino.

La migrazione non fu mai limitata solo alla tratta clandestina di migranti: fu sempre accompagnata dal traffico di droga, di ragazze poi avviate alla prostituzione e di bambini, poi sfruttati o venduti, e spesso anche dal mercato nero dei visti all’ambasciata. La mafia italiana ha giocato un ruolo determinante sin da subito e ha influenzato il traffico di armi, droga e prostitute.

Torno ora ai fatti del 1991. Halim Milaqi, comandante di una delle imbarcazioni, la nave Vlora (costruita in Italia verso la fine degli anni Cinquanta), ha dichiarato: “Quel giorno mi resi conto che stava accadendo qualcosa di ingovernabile. Era la mattina del 7 agosto del 1991 e nel porto di Durazzo stavamo scaricando lo zucchero trasportato da Cuba. All’improvviso mi accorsi che migliaia di persone venivano verso la nave, salivano come potevano. I cancelli di recinzione erano stati abbattuti e non c’era più polizia a presidiare il porto. Cercai di fermarli parlando loro ma fu inutile. Alcuni di loro mi minacciarono con le armi … Alla capitaneria di Bari dissi che a bordo c’erano bimbi, donne, anziani che rischiavano la vita, che c’era un ferito morente, dovevo assolutamente portare la nave in porto. Non mi sono fermato, andavo a  velocità minima fino a quando sono riuscito ad attraccare”.

In Italia era appena entrata in vigore la legge Martelli in materia di immigrazione, secondo la quale in Italia si sarebbero potuti accogliere solo perseguitati politici, cosa che gli albanesi non erano. L’Italia si era trovata impreparata. Come conseguenza diverse navi, fra cui la Tirana con a bordo 3.500 persone e la Lirija con 3.000, rimasero bloccate a largo del porto di Brindisi in attesa della decisione del governo. Il governo italiano accordò ai migranti un permesso di soggiorno temporaneo e straordinario della durata di un anno: sarebbe servito loro per trovare un lavoro e una casa e imparare l’italiano. I profughi furono suddivisi nelle altre regioni italiane per favorirne l’assorbimento nel tessuto sociale italiano.

Mentre gli Albanesi che giunsero con il primo esodo furono rifugiati a cui fu concesso un nullaosta temporaneo per la permanenza, gli albanesi arrivati nel 1997 erano ormai considerati degli immigrati clandestini e furono espulsi. Per aiutare concretamente l’economia dell’Albania, questa fu fatta rientrare nel programma PHARE, ammessa alla Banca Mondiale, a quella europea per la ricostruzione e lo sviluppo, all’OSCE, UNDP e ACNUR, ed al Fondo Monetario Internazionale. L’Italia fu posta alla direzione degli aiuti da destinarsi in Albania con l’operazione Pellicano, che inizialmente avrebbe dovuto avere una durata di tre mesi ma che fu prolungata fino al 1993. L’esercito italiano fu impegnato nella distribuzione di generi alimentari in Albania così come nel controllo delle coste. Solo nella prima fase dell’operazione i soldati italiani hanno consegnato 186 mila tonnellate di viveri e medicinali. Dopo un anno di aiuti le condizioni economiche che avevano spinto migliaia di albanesi ad emigrare non solo non erano migliorate ma si erano aggravate.

Gli aiuti umanitari in Albania erano arrivati a stento e troppo tardi per impedire nuove ondate di migranti. Il flusso dei profughi fu intenso per qualche settimana, fino all’incidente della motovedetta Kater i Rades. Partita dal porto di Valona, con a bordo 120 persone, si scontrò nelle vicinanze del canale di Otranto con la Sibilla, della marina militare italiana. Soltanto 12 albanesi sopravvissero. Dopo questo evento, il governo italiano richiamò lo stato di emergenza e dispose un blocco navale da opporre all’Albania. “Incidente intenzionale” fu detto da qualche albanese, forse dopo aver letto l’intervento di Irene Pivetti sul Corriere della Sera il giorno prima che il fatto si verificasse: “i profughi albanesi andrebbero ributtati in mare”. Consentire l’ingresso dei migranti avrebbe significato legittimare nuove migrazioni, progettate da centinaia di migliaia di albanesi. Si preferì rimandare i migranti in Albania, prospettando aiuti in loco. L’Unione Europea accettò la decisione del governo italiano, tra qualche critica, scampando così il pericolo di nuove ondate di profughi nei propri territori.

Attuali rapporti con l’Unione Europea

L’Albania oggi guarda all’Occidente nel modo espresso in una poesia di Naim Frasheri: per gli Albanesi il sole sorge là dove tramonta. L’Albania ha presentato la sua richiesta di adesione all’Unione Europea il 28 aprile 2009. Nello stesso anno, è diventata uno dei membri della NATO. L’8 novembre 2010 il Consiglio Europeo approva l’abolizione del regime dei visti per la circolazione nella zona Schengen dei cittadini albanesi. Quest’ultimo accordo sarebbe forse da porre di nuovo in discussione se si dovessero verificare le condizioni auspicate in tempi recenti dal governo, relative ad una eventuale unificazione dell’Albania con il Kosovo: “pratiche simili [all’unificazione dei servizi consolari] dovrebbero essere applicate anche ad altre aree, quali le dogane, la cultura e l’educazione in modo tale da ridurre i costi e avvicinare i due Stati fratelli”. Bisogna ricordare che nel 1999, quando scoppiò la guerra in Kosovo, 800.000 Kosovari si trasferirono in Albania.

L’Albania può beneficiare di un rapporto preferenziale nei commerci con l’Unione Europea. Va sottolineato che di norma, durante il periodo dei negoziati, l’Unione Europea concede ai paesi candidati aiuti per agevolare il recupero economico. Quali sono i requisiti giuridici che l’Albania deve soddisfare per poter entrare a far parte dell’Unione Europea? L’articolo 237 del trattato di Roma stabilisce che ogni Stato europeo possa domandare di diventare membro della Comunità. L’articolo F del trattato di Maastricht aggiunge che i sistemi di governo degli Stati membri si devono fondare su principi democratici. Nel 1993, in seguito alle richieste degli ex paesi comunisti di entrare a far parte dell’Unione, il Consiglio Europeo ha stabilito tre criteri fondamentali per l’adesione. Il primo requisito richiede che i principi democratici, lo stato di diritto e i diritti umani in questi paesi siano garantiti da istituzioni stabili. Inoltre, le minoranze devono essere rispettate e protette. Il secondo principio richiede una economia di mercato funzionante anche in presenza della futura concorrenza e delle forze di mercato interne all’Unione Europea. Il terzo requisito specifica che il paese candidato debba saper soddisfare obblighi e obbiettivi dell’Unione Europea dopo l’ammissione. I nuovi membri devono disporre di un’amministrazione pubblica in grado di applicare la legislazione comunitaria, ad esempio. L’entrata sarà valida solo se approvata dalla Commissione Europea e poi all’unanimità dagli Stati membri riuniti in sede di Consiglio.

Di fatto, però, l’Albania non ha soddisfatto i requisiti, almeno stando alle ultime (e recentissime) verifiche. Le istituzioni democratiche non sono state ritenute dalla Commissione Europea né soddisfacenti, né sufficientemente stabili. Insufficienti anche le istituzioni e le procedure parlamentari e lo stesso parlamento è stato accusato di non controllare realmente il lavoro del governo. Il dialogo politico è risultato “non costruttivo ma scontroso”. La disoccupazione e il debito pubblico sono in crescita, nonostante, nel complesso, la fragile economia albanese abbia saputo fronteggiare dignitosamente la crisi globale. “L’amministrazione pubblica rimane debole e politicizzata, le nomine non sono trasparenti e i funzionari pubblici sono sostituiti continuamente” ha descritto la Commissione. Infine, il sistema giudiziario non è rispettato, nelle sentenze della Corte Costituzionale, dal governo il quale usa politicamente le nomine dei giudici di Cassazione. La corruzione resta alta, facilitata anche dall’illimitata immunità di ministri, deputati e giudici.

Polibio racconta la storia di Teuta, la regina illirica, “arrogante e superba”, che non seppe bandire la pirateria del suo popolo, a sua volta costretto all’economia di rapina dalla povertà del territorio. Alle richieste dell’ambasciatore romano di far cessare le scorribande navali, la regina rispose facendo uccidere l’ambasciatore. Scoppiò la guerra e fu vinta dai Romani che imposero agli Illiri di non navigare troppo lontani dal loro territorio e mai armati. Era il 228 avanti Cristo.


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