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L’albatro – 1 di 4

Da Melusina @melusina_light

L’albatro – 1 di 4La ruggine sta avanzando tutto intorno, e dentro di me.
I primi tempi la contrastavo con tutte le mie energie; ero giovane, avevo tempo da buttare e rabbia da sfogare, avevo ideali confusi e bisogno di tenermi attivo per non dare di matto. Ogni giorno pulivo, grattavo, lucidavo, fino a farmi sanguinare le mani. Percorrevo la nave da poppa a prua e in tutti i suoi cunicoli, alla caccia dei segni del degrado che sapevo inevitabili. Tenere vivo e sano questo piccolo mercantile che è tutta la mia casa e la mia prigione era un punto d’orgoglio, era lo scopo del mio tempo interminabile e l’unica buona ragione per alzarmi ogni mattina dalla branda. Per anni, per decine e decine di stagioni, contro l’ossidazione, il salso, il marciume, il disfacimento. Con pochi arnesi, alcuni inventati, e con le unghie e la collera che coltivavo per tenere indietro la disperazione.

Attraccammo una notte senza luna, con le luci spente e i motori al minimo, in un porto nemico che non era la nostra reale destinazione. Era però il più vicino da raggiungere quando il marconista ricevette il messaggio dell’entrata in guerra. Eravamo in alto mare, trasportavamo legname, e nei giorni precedenti una burrasca ci aveva rivelato quanto poco fosse affidabile il nostro piccolo cargo. Il capitano forse perdette la testa quando decise di staccare la radio e di prendere terra ovunque fosse, purché il prima possibile.
Nessuno ci udì ormeggiare. Il paese disteso lungo il porticciolo era chiuso nel buio del coprifuoco. Gli uomini dell’equipaggio sgattaiolarono giù dalla passerella e si dileguarono alla spicciolata, ognuno verso una sorte diversa che li portava comunque a sparire nelle tenebre, come topi o ladri, come disertori o prigionieri evasi, inseguiti dal demone della Paura.
Io, clandestino su questa nave, non vidi nulla di tutto questo, ma dal mio nascondiglio dietro una paratia sentivo le voci e i rumori, e il resto lo immaginai e l’alba me lo confermò, quando finalmente riuscii a spostare i cassoni che mi incastravano e ad abbattere la porticina a furia di calci e spallate. Sul molo si era raccolta un po’ di gente, e osservavano la nave straniera arrivata di notte, chiaramente abbandonata.
Ma a poppa alitava appena nell’aria fredda la bandiera di un Paese neutrale (una scelta di comodo che mai come ora si rivelava opportuna), e ciò conferiva alla nave fantasma il privilegio dell’extraterritorialità, rendendola intoccabile con tutto il suo contenuto. Me compreso. Questo me lo spiegò il maestro della scuola, chiamato a fare da interprete perché loro e io parlavamo due lingue diverse.
“Come ti chiami?”
“Viktor!”
Gridavamo, lui dal molo e io dall’alto della murata, non ancora ben consapevole dell’effetto sconcertante che faceva il mio aspetto denutrito, straccione e allucinato.
“Io Maxim. Dove sono gli altri?”
“Scappati”.
“Lo sai dove sei?”
“No. Ma posso immaginare che i nostri due Paesi siano in guerra uno contro l’altro”.
“È così. Perciò ascoltami bene: qui il comandante dei gendarmi dice che se scendi a terra ha il dovere di farti prigioniero. Questo è quello che mi ha ordinato di dirti. Io però aggiungo che se invece resti a bordo nessuno potrà toccarti, perché il cargo è registrato presso un Paese neutrale e quindi è come se tu fossi in un’ambasciata, cioè al riparo. Finché resti lì godi una specie di immunità. Hai capito bene?”
“Sì, ho capito bene.”
“E allora, cosa pensi di fare?”
“Se resto a bordo non mi succederà niente?”
“Non ti succederà niente. Certo, dovrai cavartela da solo, perché nessuno potrà salire… ne hai da mangiare?”
“Provviste? Penso di sì…”
“Acqua? Da scaldarti? Hai una radio?”
“Credo che l’abbiano messa fuori uso prima di lasciare la nave, e anche tutta la strumentazione”.
“Beh, pensaci. Se hai qualcosa da comunicare, fammi chiamare. Ti ricordi come mi chiamo?”
“Maxim”.

Maxim è stato il mio primo amico. Non fosse stato per lui, forse avrei aspettato il buio e avrei tentato di lasciare il mio riparo la notte seguente, buttandomi alla cieca verso i boschi, le montagne, incontro a un ignoto inimmaginabile.
Maxim i primi tempi veniva al molo tutti i giorni a sentire come me la cavavo e a portarmi qualche notizia, anche se ne arrivavano poche. La guerra era cominciata, ma era lontana. Gli unici effetti erano una certa paralisi nei trasporti e un iniziale isolamento, ma in qualche modo la secondarietà del porticciolo e la sua insignificanza strategica lo tenevano fuori dagli eventi bellici. A volte, in quel primo inverno, nelle giornate più limpide si vedevano lampi e colonne di fumo dietro le vette delle montagne, ma lontanissimo. In paese la vita continuava i suoi gesti arcaici, spartiti fra le donne e i vecchi. Gli uomini validi erano stati in gran parte richiamati, e restavano il prete, il medico, i pescatori anziani.
A bordo provviste ne avevo; non grandi cose, le cose che si mangiano sulle navi da trasporto, cose conservate, secche, insapori e monotone. Non mi feci molti scrupoli a servirmene, anche se sentivo la mancanza di cibi freschi.
Dopo i primi giorni, cominciai a pensare al baratto: alla gente che veniva sul molo incuriosita facevo vedere le mie scatolette e a gesti proponevo di scambiarle con altro. Ebbi latte fresco e pane di casa in cambio di lattine di zuppa e di carne. E quando terminai le provviste di bordo, il pane continuò ad arrivare, insieme a qualche ortaggio fresco, qualche quarto di pollo la domenica, e soprattutto fiaschi di acqua pulita, di pozzo. L’acqua non me la fecero mai mancare: si creò presto fra me e il paese un semplice legame di solidarietà, un rapporto di reciproca adozione. Erano persone pacifiche e oneste, risolvevano i loro casi al modo di una volta, col buon senso e con lo spirito della comunità. Non fummo mai in guerra, loro e io. La guerra ci sfiorava senza vederci né interessarsi a noi, dimenticati in quel lembo di terra di nessun valore né importanza, rimasto quasi estraneo al tempo che passava e cambiava sconvolgendo ogni cosa.

(continua)

l’immagine, come le altre che illustrano questo racconto, proviene da QUI


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