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L’altro 8 marzo

Da Casarrubea

 

L’altro 8 marzo

studiare all'aperto

Non amo le ricorrenze e non mi piace legare le persone a qualche oggetto, e specialmente le donne alle mimose. Non so da cosa derivi questa consuetudine. La mimosa cresce spontanea un po’ dappertutto. Farne un ramoscello e donarlo a qualche destinataria è molto più semplice che regalarle rose. Sbrigativo e maschilista. Un modo di rappresentare la propria ipocrisia.

La donna è, prima di tutto, il sesso femminile e insieme una singola e collettiva cultura, una precisa persona. Una storia. Femminili sono l’alba e l’aurora, come maschile è il tramonto. Per questo, forse, la donna, con il suo genere, contiene in sé il senso della nascita e tutto il travaglio della notte che la precede. E’ la terra che accoglie e che noi siamo abituati a calpestare, tutti i giorni. Perciò abbiamo da apprendere molto da lei, passo dopo passo, mentre ci muoviamo sentendoci liberi, allegri, affaticati dalla nostra quotidianità.

Donna fu Rosa Anna Chimenti, che ancora ragazza, dopo essere stata compagna di lavoro di Pina Suriano, negli anni Trenta del secolo scorso, piuttosto che rimanere nella sua parrocchia a pregare e a casa sua a dormire, prese una valigia e andò dove mai nessuna sua concittadina era andata. Una terra di dominio e schiavitù: l’Eritrea. Vi fondò una comunità. Strappò i bambini e le loro madri dai morsi della fame, diede loro un tetto sotto il quale dormire e non fece nulla di meno di quello che avrebbe fatto poi madre Teresa di Calcutta, con i più poveri e sofferenti del mondo.

 

L’altro 8 marzo

Anna Rosa Chimenti (Sicilia-Asmara)

Ho avuto la fortuna di conoscerla ad Asmara. Aveva 96 anni e un cervello lucido come una punta d’acciaio. Pranzavamo nello stesso refettorio e a tavola era la mia dirimpettaia, nei pochi giorni in cui io da turista andai a trovarla, assieme al mio amico Giovanni. Non mangiava quello che era il pasto del giorno di tutte le altre sue consorelle. Tirava il cassetto della tavola, usciva un tozzo di pane rimasto dal pasto precedente, e lo mangiava con un po’ di quello che veniva servito. Piccola rondine contenta del nulla.

Dormiva in una disadorna camera al primo piano sopra la mia e sentivo i suoi passi prima che il muezzin dal minareto della moschea di Asmara annunciasse che stava venendo un nuovo giorno e invitasse il suo popolo alla preghiera.

Non mi spiegavo la ragione di questa sveglia anticipata, finché un giorno gliela chiesi. Non poteva sopportare che qualcuno ad Asmara pregasse Iddio prima di lei. Perciò si alzava anticipando di almeno mezz’ora i tempi islamici della preghiera del mattino.

Donne erano quelle giovani suore delle Figlie di Sant’Anna che ad Akrur, un villaggio dell’altopiano eritreo, dopo la cena, messe in cerchio, si riunivano sotto le stelle a pregare e parlare di sé e dei propri sentimenti, mentre la grazia del silenzio pervadeva ogni cosa e le famiglie del villaggio dormivano nel buio più fitto, senza energia elettrica, senza alcun confort,  in capanne di legno e fango. Donne tutte quelle che incontrai a piedi, sotto ombrelli malconci, lungo i ripidi viottoli di sassi ed erba bruciata. A piedi con i loro piccoli sulle spalle, affetti da strane malattie, percorrevano parecchi chilometri prima di arrivare alla piccola infermeria di Akrur sapendo di non trovare un dottore, ma solo un aiuto, un volto, una mano caritatevole.

 

L’altro 8 marzo

Asmara. Donne in attesa

L’Eritrea non è l’Africa nera e profonda. Situata nel Corno d’Africa, adagiata tra l’Altopiano e il Mar Rosso, è terra che avverti vicina anche se sai che non lo è. Rarefatta la sua identità, come un bambino bisognoso al quale sia negata l’infanzia. La lingua tigrina è la sua forza e la sua cultura più robusta, il suo patrimonio più grande. Minoritaria e quasi inesistente in Africa  – come l’aramaico – è l’essenza stessa degli eritrei. Ne esprime l’anima, la mitezza, l’armonia e anche la bellezza austera e semplice, come i cieli limpidi delle sue terre assolate, le sue rocce disegnate dal tempo sugli impervi sentieri dell’altopiano.

E’ qui che si adagiano i villaggi di Akrur, Mai Ela, Adi Konsi, Hebo e Adi Finie. Presepi viventi contemporanei, in un tempo di Cristo mai venuto da queste parti. Un tempo fermo, vivo come realtà della sofferenza, di un mondo primordiale inchiodato al messaggio di un “natale” che arriva ogni giorno, per apparire all’occhio profano senza resurrezione.

E qui, ancora una volta, la sofferenza è donna.

La pratica della infibulazione ha una storia antica, e le bambine vi sono coinvolte a forza dalla più tenera età.

Fino a un ventennio fa, l’89% delle donne risultavano circoncise. La percentuale di quelle di età compresa tra i 15 e i 49 anni oscillava tra il 78% e il 95%.

Una terra antica e chiusa. Non poche donne, ancora oggi, girano avvolte nei loro abiti tradizionali: l’hijab, un velo che copre il loro capo e il loro corpo; il burqa, l’indumento simbolo, e purtroppo reale, del totale isolamento della donna dalla società che la circonda; lo chador, il lungo abito scuro che lascia scoperti solo il loro viso e le loro mani. Dall’eleganza dell’incedere di queste donne si intuisce la giovane età, quando non la si scopre grazie  agli occhi che si svelano per caso allo sguardo dello straniero.

Il 36,8 % delle donne abbandona il luogo di nascita tra i 15 e i 19 anni; il 51,2% tra i 20 e i 24 anni. L’andamento migratorio è progressivo e direttamente proporzionale all’età a mano a mano che ci si sposta verso le fasce più alte, con il picco del 65,1% delle donne che hanno tra i 45 e i 49 anni. Ciò significa che le pessime condizioni di vita della popolazione femminile, diventano sempre meno tollerabili con l’avanzare dell’età, fino al punto di rottura irreversibile.

Ma molte donne, nella capitale, sono le giovani vestite all’occidentale. Asmara è piena di Internet Café, affollati di studenti oltre che di ricercatori e di una nuova leva di intellettuali. Il nuovo a fatica cerca di emergere, tra una società arcaica e un potere politico dispotico.

Ma è proprio questo tempo lungo degli uomini e, nonostante tutto, il sorriso delle giovani madri a darmi l’idea di un mondo dalle infinite risorse che lascia bene sperare e che non ha nulla a che vedere con quelle altre donne che l’8 marzo lo festeggiano in pizzeria in locali i cui padroni imbecilli mettono fuori il cartellino: ‘Vietato l’accesso agli uomini’.


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