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L’apologo di Menenio Agrippa: esortazione alla concordia sociale o apologia del Leviatano?

Da Straker
L’apologo di Menenio Agrippa: esortazione alla concordia sociale o apologia del Leviatano?
Lo Stato è costrizione, corruzione e circuizione.
Lo storico romano Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 16, 32, 33, narra il celebre apologo di Menenio Agrippa: con questo racconto edificante il senatore convinse i plebei a ritornare in città. Essi, infatti, per rivendicare pari diritti con i patrizi, si erano ritirati sul Monte Sacro (o sul Colle Aventino).
Agrippa comparò l’ordine politico al corpo umano in cui, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, gli organi sopravvivono solo se cooperano, altrimenti sono destinati a perire. Se le braccia (il popolo) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (il senato) non riceverebbe cibo, ma, in tal caso, ben presto tutto l’organismo deperirebbe per mancanza di nutrimento.
La storia è interpretata come una sanzione dell’armonia necessaria all’interno di una compagine statale dove le diverse classi devono collaborare per il bene comune. Ci chiediamo tuttavia se la parabola non sia da inquadrare in una concezione autoritaria, pur dietro i veli dell’etica. E’ una visione espressa solo in nuce e riferita ad un assetto politico e sociale in cui l’esistenza di una Res publica ha ancora un senso storico. Di fatto, però, non esiste Stato che non sia, in misura più o meno evidente, coercizione e tale coercizione si esplica nel momento in cui un ceto o una sedicente élite tende a controllare la rimanente parte della popolazione. I vari contrappesi escogitati per evitare che il potere centrale schiacci la collettività e per combattere la corruttela o qualsivoglia altra degenerazione non hanno quasi mai funzionato: sono meccanismi di compensazione rimasti petizioni di principio, ignorate nella prassi. [1]
Hobbes reputa che lo Stato sorga nel momento in cui gli uomini delegano ad esso ogni potere affinché sia garantita loro la sicurezza, la fine della lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus). In pratica i contraenti il patto originario rinunciano a qualsiasi prerogativa per veder tutelata da un organo non soggetto ad alcun limite soltanto la loro incolumità. Con lo Stato nascono i tribunali, l’esercito ed il fisco: essi, però, da strumenti di garanzia presto si tramutano in strutture di dominio. I tribunali dovrebbero garantire la giustizia; diventano il pretesto per controllare e perseguitare i dissidenti. L’esercito dovrebbe difendere il popolo da nemici esterni; si volge spesso contro gli stessi cittadini. Il fisco dovrebbe favorire una redistribuzione equa della ricchezza: è un congegno che stritola i meno abbienti per arricchire sempre più i facoltosi.
Che cosa dobbiamo pensare dello Stato contemporaneo che ha progressivamente defraudato i cittadini di ogni autonomia, senza neppure assicurare loro l’incolumità, violando così il patto originario? Lo Stato non avrebbe più alcuna ragione d’essere. L’errore è considerare questo organismo qualcosa di scontato, di inevitabile, laddove è un’aberrazione, un non-senso politico.
Che cosa pensare dello Stato contemporaneo che, oltrepassando il già draconiano paradigma di Thomas Hobbes, congiura sovente contro la vita stessa dei cittadini, molti dei quali confidano con infinita ingenuità nella sua protezione? Quando Gramsci scrive che “ogni Stato è una dittatura”, egli non esprime un giudizio di valore, ma constata una perfetta, incontestabile equivalenza tra Istituzione per eccellenza e tirannia. Il dispotismo, infatti, è, per così dire nel codice genetico dello Stato, dacché esso si stacca dal corpo sociale, assurgendo a forza repressiva, ad ente astratto, quasi metafisico, a divinità onnipotente e vorace, a guisa di Moloch. E’ per questa ragione che si suole scrivere Stato e Chiesa con la maiuscola, qui usata con intento sarcastico.
Come dovrà dunque comportarsi il cittadino nei confronti del Leviatano? Il riconoscimento di questa autorità, affatto priva di valore giuridico ed etico, è impossibile. Se l’organismo statale o un suo rappresentante ledono i diritti dei cittadini, diritti che sono enunciati nella Costituzione che lo Stato stesso ha promulgato (non importa se per avventatezza o come captatio benevolentiae o per qualsiasi altro fine o motivo), i cittadini non solo potranno, ma dovranno disconoscere in toto lo Stato ed i suoi rappresentanti.
Di conseguenza, ad esempio al cospetto di un tribunale iniquo, il cittadino dovrà pronunciarsi nel modo seguente: “Dal momento che, in tale o tal altra occasione, è stato violato un mio diritto sancito dalla Legge, visto che il presente magistrato (o collegio o Pubblico ministero etc.) intende processarmi e giudicarmi in forza di una Legge che egli stesso ha trasgredito, affermo la mia irremovibile volontà di ricusare il presente organo giudiziario. In quanto cittadino libero e sovrano che non può riconoscere al di sopra di lui alcuna autorità soprattutto quando corrotta, se non quella della sua Coscienza, chiedo che la Corte, attesa la sua totale inabilità ed incompetenza a sentenziare, rinunci ad esercitare qualunque azione che sarebbe solo arbitraria, illegittima e persecutoria. Infatti non può richiamarsi alla Legge chi per primo la conculca. In quanto indagato, accusato e processato ingiustamente, domando che si ammetta di aver pregiudicato i diritti sanciti dalla Legge e di aver offeso i Princìpi etici ad essa sottesi”.
Si leggeranno gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Costituzione e del Codice, precisando che sono stati violati o anche solo elusi. Dalla loro inottemperanza consegue un’incontestabile, definitiva illegittimità dell’organo giudicante.
[1] E’ evidente che il discorso sulle forme di governo è molto più complesso ed articolato di quello qui abbozzato. Per una trattazione più ampia si rimanda agli articoli sul medesimo tema, in particolare Stato, uomini e Dio in Horkheimer, 2010

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