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l’arte di piangere secondo necessità

Da Gynepraio @valeria_fiore

Come al solito passo da un estremo all’altro. Poco più di un anno fa, ho avuto un periodo ad alto stress emotivo durante il quale ho onorato chiunque del privilegio di vedermi piangere. In quel momento, avrei pagato qualsiasi cosa per un po’ di autocontrollo e dignità in più. Ripensandoci, però, nell’autocommiserazione e nelle lacrime, nella loro vergognosa e universale teatralità, c’è un enorme potere salvifico. Vuoi l’emicrania che segue il pianto, vuoi il cuscino caldo e umido come un grembo materno, dopo il pianto ci si rilassa completamente.

Anche adesso che sono tutto sommato felice, rimango una grande fan del piantone immotivato e ho mantenuto l’abitudine, ogni due o tre settimane, di concentrare in una sola sessione di lacrime tutte le microquestioni che mi affliggono. Teatro preferenziale di questi episodi, i viaggi di ritorno in auto, pieni di lunghe e noiosissime code ai semafori che divengono occasione per arrovellarmi su vecchi temi irrisolti e ancora meritevoli di una scenetta isterica. Il caso tipico è quando sono arrabbiata perché ho avuto qualche scaramuccia sul lavoro. Io lo so che c’è un pianto, raggrumato da qualche parte nella zona dello sterno, che però si vergogna ad uscire perché suvvia, mica si frigna perché il tuo capo t’ha fatta sentire un’incapace. Ci vuole un escamotage per scatenare il cosiddetto pianto a piramide: metodo molto semplice, che consiste nell’indursi il pianto a partire da una inezia e poi ritrovarsi a piangere un po’ per tutte le altre questioni marginali (lavoro, il nervosismo, la stanchezza, la frustrazione e via dicendo). Di solito, finita la mezzoretta di viaggio, tiro su col naso, mi asciugo la faccia con il bavero della giacca, parcheggio e salgo a casa più serena di prima.

piangere

Un tipico esempio di pianto dicembrino

 

Per indursi la commozione, serve un dolore altrui. Di solito parto con il capitolo “grandi donne tristissime”. Adele in Someone like you: lui l’ha abbandonata, sta per sposare un’altra, ma lei continua a pensare che sarebbero stati una gran coppia, ma è troppo british per augurare a entrambi di morire di tubercolosi. Fiorella Mannoia in Pescatore: lui la lascia sempre sola per andare a pescare, lei ha una voglia matta di limonare con un’altro ma il buonsenso la frena, su suggerimento del Signore Iddio si contiene e così vivrà di rimpianti tutta la vita. Lana del Rey che in Young and Beautiful denuncia il timore di essere scaricata quando ormai sarà vecchia e sfranta -e nel dubbio si rifà il naso-. Mia Martini attende la visita di cortesia del suo friend with benefit, consapevole che lo vedrà andare via facendo il gesto dell’ombrello sulle note di un minuetto. Maria Callas talentuosa scaricata da Aristotele Onassis per l’inetta Jackie Kennedy, che impazzisce e diventa schiava del Mandrax, Frida Kahlo innamorata di Diego Rivera che pensa bene di farsi quell’acqua cheta di sua sorella Cristina, Maria che si fa scaldare le mani sotto le ascelle di Hans in le Opinioni di un clown, Laura Antonelli che era bellissima ma viene irrimediabilmente sfigurata da un chirurgo ubriaco come una pigna, Sabina Impacciatore incazzata da 10 anni perché il ruolo di Penelope Cruz in “Non ti muovere” doveva essere suo, mia madre che nel corso di una lite lancia addosso a mio padre una enorme fetta di Parmigiano e si rintana in un’altra stanza dicendo maledetto il giorno che t’ho incontrato.

Se nessuna di queste situazioni ha funzionato, ricorro allo scaffale “Prima Infanzia”. Il piccolo servitore del Cacciatore di Aquiloni sodomizzato davanti agli occhi del protagonista, Celie-Whoopy Goldberg di Il Colore Viola che ama tantissimo sua sorella Nettie nonostante sia molto più bella di lei, Maculay Culkin-Thomas che muore per uno shock anafilattico in “Papà ho trovato un amico”, il Piccolo Lord che redime quel pezzo di fango di suo nonno, Pollyanna che riporta in vita quella figa secca di zia Polly, Le piccole donne tutte che sono povere ma la mattina di Natale portano la colazione ad una famiglia ancora più povera di loro, Suor Maria-Julie Andrews che canta My Favorite Thnigs ai figli del barone Von Trapp, li invita tutti nel lettone e poi stravince perché nel lettone ci finisce pure il barone.

Ci sono però delle volte in cui quel nodo di pianto nel torace non riesce proprio a sciogliersi. Allora lì mi dico, Valeria, a mali estremi, estremi rimedi. Pensa ai tuoi vecchi dolori. Richiamo alla memoria un giorno di novembre in cui una me diciottenne, con le Dr Martens nuove stava aspettando davanti al liceo che il suo primo e vero grande amore venisse a prenderla da Varese, e poi dopo un’ora si rende conto che lui non verrà mai. Se non basta -in fin dei conti sono passati quasi 15 anni- torno ad un tardo pomeriggio d’estate in cui realizzo che l’amore se ne sta andando via, e allora mi ritrovo a fare un discorso motivazionale alle piante sperando inutilmente che almeno loro non mi abbandonino.

Se nemmeno questo funziona, ritorno a quella volta in cui mi sono messa a scrivere la lettera d’amore più vera della mia vita. Rimango un po’ in piedi, alle spalle di quella me che continua a cancellare, riscrivere, limare, fissare lo schermo. La prendo per mano, la aiuto a mettere il pigiama, la accompagno a letto. Poi torno al computer e premo Invio al suo posto.

Ce l’ho fatta, adesso posso piangere liberamente.

“Questa, di piangere per pura forza di volontà, senza cipolle, senza schiaffi, senza ascoltare storie strazianti, era una delle sue doti più apprezzate dai registi. Le lacrime le sgorgavano a comando, come se aprisse un rubinetto, ed era possibile quindi inquadrarla in primissimo piano e senza mai fermare la cinepresa mentre passava dal riso a pianto.” (Speciale Violante, Bianca Pitzorno).


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