Ed ora l’ultimo capitolo, senza dubbio la parte più bella e più umana dell’intero racconto. Abbiamo lasciato Gilgamesh a vagare per le vaste terre, alla ricerca del segreto per cui vivere in eterno. Non è forse questo il desiderio più antico dell’uomo? In questo mito di Gilgamesh, lo vedremo, si ripropongono le domande che ci attanagliano ancora adesso, e per le quali ancora adesso non abbiamo una risposta. Il Giardino del Sole
“Gilgamesh piangeva amaramente per l’amico Enkidu, vagava per le lande come un cacciatore, andava ramingo per le pianure. Gridava nella sua amarezza: ‘Come posso riposare, come posso avere pace? La disperazione è nel mio cuore. Ciò che è mio fratello ora, lo sarò io quando sarò morto. Poiché ho paura della morte farò del mio meglio per trovare Utnapištim, colui che chiamano il Lontano; egli infatti è entrato nel consesso degli dei’. Fu così che Gilgamesh attraversò le lande, vagò per le praterie, un lungo viaggio alla ricerca di Utnapištim, colui che gli dei avevano preso con sé dopo il Diluvio, e lo avevano posto a vivere nella terra di Dilmun, nel Giardino del Sole; a lui solo fra gli uomini avevano dato la vita eterna”. Dunque il vecchio Utnapištim era l’unico fra gli uomini ad aver avuto in dono l’immortalità riservata agli dei. Era scampato al diluvio, quel diluvio di cui parlano quasi tutte le cronache antiche, e che ci spingono a pensare che qualcosa di simile sia effettivamente accaduto. Gilgamesh intraprende perciò un lunghissimo viaggio verso occidente, nella regione in cui tramonta il sole, oltre le montagne altissime che racchiudono il confine del mondo. C’è solo un passaggio che conduce al di là delle montagne, lungo le rive dell’Oceano. È un corridoio strettissimo e senza luce, dove l’oscurità fa impazzire chi vi si avventuri dentro; è custodito da una coppia di scorpioni, con il busto e la testa di uomini. Quando lo videro arrivare, stanco e logoro per la fatica, i due custodi gli domandarono chi fosse e cosa cercasse in quelle terre remote. Gilgamesh espose appieno le sue ragioni, chiedendo loro il permesso di entrare. Impietositi, i due guardiani acconsentirono, e lo guardarono scomparire dentro al sentiero della montagna. Dopo aver camminato per un’intera giornata, brancolando nel buio, senza aria e senza luce, alla fine raggiunse l’uscita. I suoi occhi dovettero abituarsi di nuovo alla luce. Quando poté nuovamente vedere, lo spettacolo che si trovò davanti lo lasciò senza parole. “Ivi era il giardino degli dei; tutt’intorno a lui stavano cespugli carichi di gemme. C’erano frutti di corniola da cui pendevano i rampicanti, belli a vedersi, e foglie di lapislazzuli ne pendevano, frammiste ai frutti, dolci alla vista; invece di rovi e cardi vi erano ematiti e pietre rare, agata e perle del mare”. Lo stupore di Gilgamesh non ebbe più limiti quando si accorse che nel giardino abitava una donna, una donna diversa dalle altre donne mortali. “Vive presso il mare la donna della vigna, colei che fa il vino; Siduri siede nel giardino sulla riva del mare con la coppa d’oro e i tini d’oro che le diedero gli dei”. La donna quando lo vide inizialmente tentò di sfuggirgli. “Perché vieni qui”, gli domandò, “vagando per i pascoli alla ricerca del vento?”. Gilgamesh le raccontò brevemente la sua storia, concludendo: “Ma ora, fanciulla che fai il vino, ora che ho visto il tuo volto fa che io non veda il volto della morte da me tanto temuta!”. Tuttavia lei gli rispose: “Gilgamesh, dove ti affretti? Non troverai mai la vita che cerchi. Quando gli dei crearono l’uomo, gli diedero in fato la morte, ma tennero la vita per sé. Quanto a te, Gilgamesh, riempi il tuo ventre di cose buone; giorno e notte, notte e giorno danza e sii lieto, banchetta e rallegrati. Siano linde le tue vesti, nell’acqua lavati, abbi caro il fanciullino che ti tiene per mano e nel tuo amplesso rendi felice tua moglie: poiché anche questo è il fato dell’uomo”. Nuovamente, queste parole non avrebbero di certo sfigurato nella pagine di Sofocle o di Omero!
Oltre le Acque della MorteMa Gilgamesh non volle rassegnarsi. Poco distante c’era Uršanabi, barcaiolo personale di Utnapištim: Gilgamesh gli si avvicinò domandandogli un passaggio fino all’altra riva. Il barcaiolo accettò, ed insieme attraversarono le Acque della Morte. Quando arrivarono a destinazione, trovarono Utnapištim in persona ad attenderli. Gilgamesh si inchinò davanti al vecchio, e gli spiegò il motivo della sua venuta. Ma Utnapištim gli rispose: “Non c’è nulla che permane. Costruiamo forse una casa che duri per sempre, stipuliamo forse contratti che valgano per ogni tempo a venire? Forse che i fratelli si dividono un’eredità per tenerla per sempre, forse che è duratura la stagione delle piene? Fin dai tempi antichi non c’è nulla che permane. Dormienti e morti, quanto sono simili: sono come morte dipinta. Che cosa divide padrone e servo quando entrambi hanno compiuto il proprio destino?”. Inutile evidenziare ancora una volta quanto siano attuali queste parole, e come si ritroveranno spesso in altri testi successivi. Gilgamesh però non sembrava dargli ascolto. Lo guardava attentamente, come se cercasse di trovare qualche cosa sul suo volto. “Ora io ti guardo, o Utnapištim, e il tuo aspetto non è diverso dal mio; nulla di strano c’è nelle tue fattezze. Credevo di trovarti come un eroe preparato alla battaglia, invece te ne stai a tuo agio sdraiato sulla schiena. Dimmi, in verità, come facesti a entrare nella schiera degli dei e a possedere la vita eterna?”. Allora il vecchio gli rispose: “Ti rivelerò un mistero, ti dirò un segreto degli dei”.
Lo scopriremo nella Conclusione.