Magazine Religione

L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia (1° parte)

Creato il 16 settembre 2013 da Uccronline

Trascendenza 
di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neurobioeticista, Ateneo Regina Apostolorum (Roma), Gruppo di Neurobioetica (GdN)

Alberto Passerini*
*Psichiatra, Psicoterapueta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

Alessandra Pandolfi*
*Anestesista, Psicoterapeuta, S.I.S.P.I. – Scuola Internazionale di Specializzazione con la Procedura Immaginativa, Milano-Roma

 

Nota: una versione più estesa e articolata di questo lavoro verrà prossimamente pubblicata sulla Rivista scientifica Studia Bioethica.

Introduzione
L’interesse per la tendenza naturale che l’essere umano manifesta, ed ha da sempre espresso anche a livello culturale, nei confronti del “Trascendente” non è nuova, risale a tempi immemorabili, costituendo un “filo rosso” della riflessione che da sempre ci accompagna.

Non stupisce allora che un’inserto della sezione di Psicologia: Percezione della rivista Mente & Cervello dello scorso anno 2012 titoli così: Progettati per credere. Paranormale. Un cervello costruito per credere (Wiseman, 2012).  L’articolo è firmato da Richard Wiseman, professore di psicologia all’Università dello Hertfordshire, in Inghilterra. Wiseman nel sottotitolo afferma: «La tendenza a credere nel paranormale deriva dagli stessi meccanismi cerebrali da cui nasce buona parte del pensiero umano». Seppur interessante, l’articolo di Wiseman cela diverse fallacie logico-filosofiche che, spesso, possono venir date per scontate. Ad esempio, la tesi di fondo identifica la categoria “normale” con “razionale” e quest’ultima, viene fatta coincidere con la categoria “evidenza scientifica”, cioè empirica. L’equazione è la seguente: normale = razionale = empiricamente dimostrabile.

Questo modo di ragionare andava forse bene nell’epoca dell’Illuminismo o dello stretto empirismo Novecentesco. Nell’era contemporanea delle neuroscienze e della filosofia della mente, un’impostazione del genere risulta obsoleta ed “ingenua”. Come spiegare con l’empirismo stretto fenomeni quantici? Oppure la complessità delle reti neuronali e della plasticità cerebrale? E ancora, come si potrebbe parlare di potenziamento neuronale, di rimodellamento cerebrale come prassi terapeutica nei gravi disturbi da traumi (come il PTSD, Post Traumatic Stress Disorder), con uno schema mentale empirista-razionalista tout-court?

Oggigiorno, la capacità tecnologica di visualizzare, anche in vivo, zone dell’encefalo che si attivano in modo differenziale a seconda delle circostanze, ha prodotto un vero e proprio fiume di studi sperimentali. Lo sviluppo delle tecniche di neuro-immagine (neuroimaging), tra cui spicca la ormai famosa risonanza magnetica funzionale (fRMN), non ha potuto venir confinato alla mera, anche se utilissima, area clinica, utile alla diagnosi di patologie cerebrali. Gli studi si sono moltiplicati a seconda della fantasia e della genialità creatrice di ciascun scienziato. Dal voler comprendere i fondamenti neurofisiologici di attività umane come la memoria, il linguaggio, la visione, la personalità, etc., si è passati a ricercare «ciò che è più spiccatamente umano dell’uomo»: la sua esperienza religiosa e mistica (J. M. Gimenéz-Amaya, 2010). Ecco delinearsi, specie in ambito anglosassone, due nuove neuro-“discipline” all’interno della cosiddetta neuromania  (P. Legrenzi, C. Umiltà, 2009): la neuroteologia e la neuromistica.

Prendendo in considerazione i risultati della psicologia contemporanea, della psicoterapia, della prassi clinica e dei dati empirici che le moderne neuroscienze ci offrono circa l’esperienza umana del “Trascendente”, chiariremo, in questo contributo, se tali evidenze sperimentali pongano seriamente in discussione l’esistenza di tale caratteristica antropologica e, soprattutto, considereremo se sia giustificata razionalmente la riducibilità di tale peculiarità umana al mero ambito neurofisiologico, come sostengono alcuni autori contemporanei (F. J. Rubia, 2003), come di recente hanno esposto due intellettuali italiani (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Per iniziare, chiariremo alcuni presupposti, cioè la cornice del nostro dibattito: la Neuroetica.

 

Cos’è la Neuroetica?
Come è stato recentemente spiegato, seppur brevemente, nell’editoriale della rivista Studia Bioethica (vol. 5, n. 3, 2012): «L’applicazione sempre più rapida ed immediata all’uomo delle scoperte neuroscientifiche, frutto dell’abbondante ricerca che mira a decifrare i misteri del cervello e della mente umana, ha fatto sorgere nell’opinione pubblica sentimenti spesso antitetici. In quasi tutti i contesti socio-culturali, il suffisso “neuro” sta trovando largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet nelle circostanze più disparate. In questo contesto è sorta la pseudo-disciplina denominata neuroetica o neurobioetica che ha “festeggiato” in quest’anno 2012, il suo decimo anniversario dalla “nascita”…  Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data, a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field”. In tale contesto, William Safire, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano» (A. Carrara, 2013).

 

I dati della ricerca neuroscientifica sull’esperienza religiosa e mistica
Sulla scia dell’interessante e ben documentato libro del neuroscienziato spagnolo Rubia del 2003 intitolato: La conexión divina. La experiencia mística y la neurobiología (La connessione divina. L’esperienza mistica e la neurobiologia; F. J. Rubia, 2003), non dovrebbe destare clamore il recente articolo uscito sul quotidiano italiano Repubblica del 26 giugno scorso, firmato da due autorevoli professionisti: Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto, nel quale si afferma: «L’ipotesi che si è fatta strada in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali. Gli esperimenti condotti dagli scienziati cognitivi suggeriscono che i bambini trovano del tutto naturale, indipendentemente dall’opinione degli adulti che stanno loro intorno, l’idea di un creatore non-umano del mondo, un creatore che possiederebbe super-poteri, super-conoscenza, super-percezione (Barrett, 2004). Le credenze religiose e nel sovrannaturale poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente umana (Bering, 2011)» (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Tutta l’argomentazione dell’articolo si basa su studi di psicologia cognitiva di una ben specifica tendenza. Si parla di “architettura cognitiva” senza specificare le aree o circuiti cerebrali sottostanti; si utilizzano termini abbastanza ambigui come “rappresentazione neurologicamente distinta”, etc., vengono omesse le più recenti acquisizioni di pscicologia e psicoterapia relative al “Trascendente”.

Gli studi sulla neurobiologia dell’esperienza religiosa e mistica partono da un presupposto antropologico e neuroscientifico abbastanza evidente per chi sostenga una posizione unitaria e unitiva (dal punto di vista ontologico-sostanziale) dell’essere umano e cioè: l’esperienza religiosa è supportata dal cervello, come tutte le esperienze umaneReligious experience is brain-based, like all human experience») (L. Saver, J. Rabin, 1997). “Supportata da” o più letteralmente “basata su” o “fondata su”, espressioni tutte che traducono l’inglese “brain-based”, non significano assolutamente un riduzionismo “stretto” come vorrebbero alcuni. Le evidenze del gruppo di ricerca del UCLA-Reed Neurologic Research Center (USA), ad esempio, riportarono, già sin dal 1997, un dato importante: dagli studi addotti, pare che le regioni temporo-limbiche costituiscano probabili sostrati neurali (neural substrates) dell’esperienza religiosa-numinosa (per intendersi, quella che Rudolf Otto definisce: l’esperienza del numinoso, del “tremendum et fascinans”); infatti, il sistema temporo-limbico è coinvolto nell’integrazione di stimoli tanto esterni, come interni, oltre che essere coinvolto nei cambiamenti dell’umore e, in sostanza, nell’attività emozionale (emotiva) umana (L. Saver, J. Rabin, 1997).

Nulla di strano, allora, se durante un’intensa preghiera o meditazione, che ovviamente coinvolge tutta la persona umana e, perciò, anche e, soprattutto, la sua emotività, le zone cerebrali limbiche si attivano e vengono coinvolte in modo preponderante. Ciò non significa, nel modo più categorico, che queste aree cerebrali siano la causa o siano le responsabili dell’insorgere dell’esperienza stessa. A gettare acqua sul fuoco sugli stessi studi neuroscientifici sull’esperienza mistica poc’anzi menzionati, fu Kozart che, in una lettera pubblicata su un volume successivo dello stesso Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neuroscience titolava: «L’esperienza religiosa non è stata correttamente definita» (M. Kozart, 1998).

 

Evidenze neuro-empiriche sull’esperienza religiosa e mistica
Già nel 2003 si rifletteva sulla direzione che stavano assumendo certi risultati delle neuroscienze relative all’esperienza religiosa e la “Neuroteologia” veniva introdotta a livello accademico (W. Whitfield, 2003). Nell’articolo di Repubblica  firmato da Vallortigara e Girotto emerge una deduzione per nulla dimostrata. Viene infatti sottolineata in maniera chiara un’identità stretta tra “mente umana” e “architettura cerebrale”, tesi filosofica appartenente alla cosiddetta corrente internalista del mentale che oggigiorno risulta abbastanza “ingenua” e obsoleta. Basti considerare il recente lavoro professionale e altamente scientifico della filosofa italiana Maria Cristina Amoretti sugli esternalismi del mentale (M. C. Amoretti, 2011). Interessante a questo riguardo l’approfondimento che Fingelkurts opera a partire dalla domanda caratteristica (the main empirical question) in quest’ambito della riflessione neuroetica: Is our brain hardwired to produce God, or is our brain hardwired to perceive God? (Il nostro cervello è cablato per produrre Dio, oppure il nostro cervello è cablato per percepire Dio?) (A. A. Fingelkurts, 2009).

Numerose monache di clausura e monaci buddisti furono reclutati come volontari a partire dagli anni ’90, all’interno di studi sperimentali neuroscientifici sull’esperienza religiosa e mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2006, 2008; A. Fenton, 2009). Considereremo brevemente alcuni degli esperimenti realizzati in quest’ambito per poter poi giudicare le conclusioni e le interpretazioni che portano avanti, spesso anche a livello mediatico, alcuni scienziati contemporanei.

Nel 2006, il dottor Mario Beauregard, pioniere negli studi neuroscientifici riguardanti l’esperienza religiosa e mistica (S. Lewis, 2009), del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Montreal in Canada, pubblicò, sul numero 405 di Neuroscience Letters, un articolo sui correlati neuronali dell’esperienza religiosa ottenuti studiando, attraverso l’elettroencefalografia, monache di clausura durante la loro meditazione quotidiana. Due anni dopo, nel 2008, lo stesso scienziato canadese pubblicò sulla stessa rivista, un lavoro che riassumeva nuovi dati di elettroencefalografia ottenuti durante l’esperienza mistica (M. Beauregard, V. Paquette, 2008). Le conclusioni di questi studi sperimentali (come di altri lavori che non è qui possibile menzionare nel dettaglio) portarono a concludere che durante l’esperienza religiosa numerose regioni cerebrali vengono attivate e coinvolte, particolarmente a livello della corteccia cerebrale. Ciò implica una rete neuronale complessa, cognitivamente strutturata, che coinvolge l’attivazione rilevante (in confronto con uno standard, cioè con i dati estrapolati da monache che non stavano ricordando le loro esperienze d’unione mistica) della famosa AAA (Attention Association Area), locus cerebrale associato alla concentrazione. Gli scienziati evidenziarono inoltre la riduzione dell’attività della OAA (Orientation Association Area) o zona dell’associazione e dell’orientamento spaziale. Già nel 2004 Olaf Blanke del Dipartimento di Neurologia di Ginevra (Svizzera), aveva pubblicato sulla rivista Brain, un interessante lavoro sull’implicazione di tale locus cerebrale e l’esperienza extracorporea detta anche out-of-body experience (O. Blanke et al., 2004).

Come dati scientifici, questi ed altri lavori, ci rivelano che durante un’esperienza spirituale diverse e numerose aree del nostro cervello vengono modulate (si attivano o vengono inibite in rapporto ad un parametro standard). Così concludono i ricercatori nel lavoro citato in precedenza: These results indicate that mystical experiences are mediated by marked changes in EEG power and coherence. These changes implicate several cortical areas of the brain in both hemispheres (M. Beauregard, V. Paquette, 2008).

 

Interpretazione di questi dati sperimentali
Dal dato scientifico alcuni ricercatori passano alla sua interpretazione fino ad arrivare a vere e proprie manipolazioni. Così il dottor Andrew Newberg dell’Università della Pensilvania a Filadelfia (Stati Uniti), compiendo gli stessi esperimenti con monaci buddisti e francescani, giungendo agli stessi dati empirici, scrisse un libro intitolato Dio nel cervello (God in the brain, Why God Won’t Go Away), nel quale riduce l’esperienza religiosa a puro prodotto materiale del nostro cervello. Newberg e altri neuro-riduzionisti interpretano i dati sull’esperienza del Trascendente come se il cervello stesso ne fosse la causa diretta e ultima. Si potrebbe allora concludere come fa il “padre” della neuroscienza contemporanea, Michael S. Gazzaniga: se il nostro cervello produce l’esperienza religiosa, Dio sta nel cervello e, in fin dei conti, il cervello diventa Dio. Questa visione fu divulgata con successo dallo spagnolo E. Punset nel suo libro L’anima è nel cervello.

La verità è, sfortunatamente per questo tipo di scienziati (che rappresentano un’esigua minoranza che però fa clamore), che i dati neuroscientifici non ricercano direttamente l’esperienza umana di Dio, ma cercano di identificare le basi neurofisiologiche associate alla fenomenologia di qualsiasi esperienza religiosa. Ciò che viene misurato non è affatto l’esperienza mistica in sé, ma l’intensa attività intellettivo–volitiva che l’accompagna. La ricchezza dell’esperienza religiosa, naturale in tutti gli esseri umani, si manifesta nella nostra dimensione corporea a livello delle complesse reti neuronali in gioco.

 

Nella seconda parte, che sarà pubblicata domani, arriveremo alle conclusioni.


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