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L’estate dei morti viventi – Recensione

Da Fant @fantasyitaliano

Stoccolma è sull’orlo del caos. Dopo un’ondata di caldo torrido, in città si è creato un campo elettrico di grande intensità. Le lampade non si spengono, gli apparecchi elettrici non si fermano, i motori continuano a girare. Poi si scatena un’emicrania collettiva. Si diffonde la notizia che negli obitori i morti si stanno risvegliando. C’è un giornalista, il cui nipote è appena stato seppellito, che si chiede se anche i morti sotto terra stiano riaprendo gli occhi. E un’anziana signora, in attesa del funerale del marito, che sente bussare alla porta in piena notte. E ancora, un uomo disperato che prega Dio di riportare in vita la moglie. Ma poi quando i morti tornano, cosa vogliono? Quello che vogliono tutti: tornare a casa. E riaverli con sé, non è esattamente come ci si aspettava.

 

Sarà l’algido fascino dei paesi scandinavi, o l’impronunciabilità esotica di nomi sempre più importanti nel panorama della letteratura mondiale, ma sempre più interesse è rivolto agli autori svedesi. Tra questi, almeno J. A. Lindqvist è autore che non delude né pare intenzionato a sfruttare tutte quelle scorciatoie che fanno di uno scrittore noto uno scrittore di moda. “Dopo i vampiri c’era da aspettarselo,” diranno alcuni arricciando il naso difronte al tema del nuovo romanzo. Gli zombie – lo dice anche Deleuze – sono forse l’unico mito interamente moderno e, insieme ai vampiri, posseggono la quota di maggioranza della multinazionale Horror & Co.

È così che l’autore prende il baraccone degli stereotipi attribuiti al genere e lo smonta con un sapiente uso degli attrezzi del mestiere, ora più oliati rispetto a Lasciami Entrare. Be’, a dirla tutta, forse non c’è l’entusiasmo della prima volta – che, va detto, non si scorda mai – ma c’è un passo avanti nello stile e nella capacità di carpire interamente l’attenzione del lettore che non cede il passo alla delusione per la perduta innocenza dell’esordio.

Va poi considerato che le premesse dell’autore non sono interamente all’interno del genere. Posso solo immaginare, per dirne una, la lettura di un romanzo mainstream importante come Le Intermittenze della Morte. Certo lo scrittore non tralascia l’horror: la sua palette perturbante di colori è più ricca che mai ed è bravissimo ad usarla con poche pennellate che fanno tramare le vene dei polsi e turbano più a lungo di tanti spaventi preconfezionati. Ma non è l’orrore in sé – con il suo accanimento sadico-voyeuristico sullo sconvolgimento materiale della vita dei personaggi – il fine della narrazione. Centrali sono invece gli esseri umani e le loro reazioni, le loro scelte all’arrivo dell’orrore; la devastazione delle loro vite anche prima dell’evento che innesca la storia nelle sue 384 pagine di svolgimento, lento ma inesorabile, di questo romanzo. La coralità propria delle migliori opere di Stephen King che l’autore si riserba di tenere circoscritta a quattro o cinque personaggi ci conferisce la possibilità di osservare da diverse altitudini e punti di vista l’entità del Male che si abbatte così ambiguamente in una estate svedese. È così che il lettore riesce ad immaginare la reazione di Mahler alla notizia che i morti stanno ritornando. Sappiamo, infatti, che l’uomo ha sofferto negli ultimi mesi a causa della scomparsa del nipote. Qui ci troviamo nella migliore tradizione dell’orrore, altra cosa che il lettore realizza rapidamente: l’errore di recarsi al cimitero per riportare a casa il nipote, ora zombie. E viene voglia di gridarlo contro le pagine del libro che è una scelta sbagliata. Però alla fine sappiamo che succederà esattamente quanto non avremmo mai voluto accadesse; e quel che conta è che abbiamo avuto quella voglia di dirglielo chiaro, a Mahler, che non era proprio il caso di disseppellire i morti. E se pensate che questo meccanismo sia banale, sfruttato e reso pulp-poltiglia commerciale come in tanti horror in cui la protagonista sta per ricevere una pugnalata alle spalle e lo spettatore vorrebbe gridare “Girati, cretina!”, allora avete capito bene quanto è importante per uno scrittore sapere usare quell’emozione in maniera non banale.

Lindqvist ci riesce.

Qui i morti viventi sono più simili ai revenant di Pet Cemetery che alle masse affamate e in decomposizione di Romero. La loro ri-apparizione innesca un tormento psicologico perturbante: i personaggi non sanno cosa fare né pensare difronte al ritorno inaspettato dei propri cari. Essi sono o non sono le persone che hanno amato? Il loro aspetto parla chiaro, ma i loro occhi danno “l’impressione di fissare il fondo di un acquitrino dove niente si muove”. E nemmeno i fatti ci vengono proposti attraverso il filtro della ragione come va di moda adesso. Come se “spiegazione” significasse necessariamente “spiegazione razionale” e il Male non fosse qualcosa che semplicemente capita, prendendoci alla sprovvista e cadendoci in testa come un’incudine in un cartone di Bugs Bunny.

La loro minacciosità non ha a che fare con forza fisica, numero e brutte maniere, ma con la natura di fantasmi emotivi, con i ricordi associati alle persone amate, con quel senso di vuoto e di perdita che si sono lasciati dietro al momento della dipartita, con il desiderio frustato di comunicare in un primo momento e con il disagio di ciò che segue nel racconto e che non vi rivelo. Se, a questo, aggiungiamo che l’esistenza degli zombie viene a stridere con ciò che sono le premesse della nostra società (consumo, massificazione, produttività), vediamo come l’autore riesca ad inserire nell’equazione (che, no, non torna) anche dell’attualità, senza quelle pedanterie che sono proprie degli scribacchini meno esperti.

Per tutto questo e soprattutto per la scrittura, che fin dalle prime righe è pulita e definita – non una parola di troppo – il romanzo è due spanne sopra molti altri esponenti del genere e degno successore di Lasciami Entrare.  Se fosse un film, il montaggio sarebbe quello di un film d’azione. La telecamera, ben piantata sulle spalle dei protagonisti, tralascerebbe campi troppo larghi per concentrarsi su quei particolari che rimango impressi nella mente del lettore; lentamente, scenderebbe con inquadrature nette: le pinzette che tintinnano sulle arterie nel petto squarciato di Eva, la pelle mummificata del nipotino che lo fa apparire un nano grottesco, la larva pallida che penetra attraverso la lapide). Dove uno scrittore come Stephen King spenderebbe dieci pagine per presentarci un personaggio secondario, l’autore va dritto al punto e la spunta grazie ad un meditato uso dell’ellissi e dell’implicito, riuscendo a distinguere quando un fatto è utile alla storia e quando è ridondante, inflazionato e puzza di già sentito, principale pericolo in una storia horror che ambisce a dire qualcosa di nuovo.

In questo romanzo disperato e dai toni sinistri, con pagine strazianti e momenti grotteschi, J. A. Lindqvist riesce a cogliere lo spirito perturbante di una storia horror vecchio stile e a riscriverla mantenendo una continuità non apparente con Lasciami Entrare.

 


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